Il Partito Democratico e l’asino di Buridano

Ottobre 2022 – La pillola di Puppo.
Si dice che la ragione dei problemi del PD (quasi 7 milioni di voti smarriti tra le prime elezioni, nel 2008, e le ultime) sia l’assenza di identità. Comincio invece a credere che  il PD, di identità, ne abbia fin troppe. Il progetto originale di questo partito era incrociare tre culture politiche: post-comunista, cattolico-democratica e (in misura minore) laico-azionista. Attraversarle, superarle, fondarne una nuova, originale. Questo progetto richiedeva di sacrificare un po’ di identità, per abbracciare un campo più largo (la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, che si collocava nel progetto istituzionale del bipolarismo). Ma forse quel progetto corrispondeva anche a qualcosa di più inconfessabile: il desiderio di una generazione che ha approfittato dell’“ascensore sociale”. Quei figli di famiglie popolari (“organicamente” di sinistra), nati a partire dagli anni del “boom”, che invece di andare in fabbrica da ragazzi, come i loro padri, hanno potuto studiare, approfittare di politiche di crescita, per arrivare a una condizione borghese. E hanno desiderato tenere tutto assieme. Da un lato, la tradizione familiare di sinistra, con il suo armamentario simbolico (Bella Ciao, gli slogan, l’antifascismo esibito). Dall’altro, il liberalismo cosmopolita, pragmatico, individualista e un po’ perbenista (vedi il disprezzo di molti sedicenti progressisti verso i cosiddetti “analfabeti funzionali”), tipico della loro nuova condizione sociale. Quando un regista come Paolo Virzì, pochi giorni fa, dice una frase insensata come: “io sono un anarchico di Livorno che si commuove vedendo Draghi” (sic), esprime involontariamente, ma perfettamente, il desiderio di tenere assieme cose che assieme non stanno.

Il PD, insomma, è stato il tentativo di compiere un prodigio: essere de facto borghesi, liberali (e anche un po’ snob), continuando però a dirsi di sinistra e a credersi legittimi rappresentanti dei ceti popolari (nel frattempo sempre più distanti, impoveriti e incattiviti). Ma i miracoli non accadono sulla terra. Le culture originali non si sono incrociate; si sono incartapecorite e (come nella DC) ripresentate sotto forma di correnti. Ognuna con il suo capobastone. Quanto a un’elaborazione culturale originale, non ce n’è stato neppure il tentativo. Il PD da anni non ha più un giornale o una casa editrice. Si è affidato mani e piedi al mondo di Repubblica e dintorni, che, come pochi giorni fa, pubblica titoli involontariamente comici del tipo “la sinistra riparta dal cuore” o “dal sorriso”. Il progetto originale si è rivelato forse velleitario, ma in ogni caso troppo complesso per i suoi impresari. Risultato: un partito paralizzato. Oppure (quando Renzi ha fatto passare in forza una linea grintosamente liberaldemocratica), balcanizzato, conflittuale, sull’orlo di una crisi di nervi. A suo agio solo nel ruolo di partito-istituzione, ideale per togliersi dalla dicotomia “paralisi o conflitto”.

Allora, che fare? Le discussioni in corso (congresso, candidature, costituente) mi sembrano un tentativo di rimuovere un elemento evidente. Il progetto originale è fallito.
E per la prima volta, nello scacchiere politico il posto «a sinistra» del PD è stato occupato da una forza che non viene dalla sinistra storica: il Movimento 5 Stelle. Che ha dimezzato i voti del 2018, ma nello stesso tempo si è caratterizzato: prima rivendicava di essere «oltre» gli schieramenti tradizionali, ora è schierato a sinistra. Si può discutere sulla legittimità dei 5S a occupare tale posizione (personalmente ho molti dubbi). Ma, legittimo o no, è il ruolo che si sono ritagliati nell’immaginario collettivo, dettando l’agenda sul cosiddetto «reddito di cittadinanza», salario minimo, regolazione del mercato del lavoro. Allo stesso tempo il posto «a destra» del PD è stato occupato da una forza che viene proprio dall’interno di quel partito (i movimenti di Calenda e Renzi) e ne ripropone quella che era la linea della corrente liberal-democratica: pragmatismo, liberalismo, merito, efficienza, garantismo, diritti civili.

Enrico Letta segretario uscente del PD

Il PD, a forza di non scegliere, come l’asino di Buridano (senza offesa né per il PD, né per gli asini), tra un’identità socialista e una liberale, ha finito per creare il suo concorrente «liberale» e si è lasciato sfilare la rappresentazione del campo «socialista». E, con il logorarsi dell’appello alla mobilitazione “antifascista”, sembra anche avere perso la funzione di baluardo della democrazia, ereditata dalla DC (sintetizzata da Montanelli nel 1976: “turatevi il naso e votate DC”. Frase infatti associata spesso al PD nell’ultima campagna, per affermazione o negazione).

Ergo: rebus sic stantibus, il PD mi sembra non avere più molto spazio né a destra, né a sinistra, e nemmeno nel ruolo di partito-istituzione. Mi pare che l’unico modo di sciogliere questo nodo inestricabile non sia aggrovigliarlo ancora, ma tagliarlo. La parte del PD che si considera socialista, vada da una parte (in competizione o alleanza con i 5 Stelle: a scelta). Quella che si considera liberaldemocratica vada dall’altra, con Calenda e Renzi. Almeno, torneremo ad avere un sistema comprensibile, dove ognuno, come diceva Nietzsche, possa finalmente diventare ciò che è. Un sistema con un partito socialista, uno liberale e uno conservatore.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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