Il “Murale della Pace” di Avellino, un’opera sempre molto attuale, nei versi di De Masi.

Nell’augurarvi una buona Festa della Liberazione e un 25 Aprile di ascolto per tutte le resistenze a cui siamo ancora e sempre chiamati, vi proponiamo l’ultimo componimento del poeta irpino Gabriele De Masi credendo possa essere un motivo di riflessione collettiva, la memoria essendo la migliore alleata della Pace.

Si tratta di un suo omaggio in versi al celebre “Murale della Pace(vedi il video), un’opera d’arte unica nel suo genere e ancora attuale, realizzato dall’allora giovanissimo artista avellinese Ettore De Conciliis, tra il maggio 1964 e l’ottobre 1965, commissionato da Don Ferdinando Renzulli, all’indomani della terribile crisi missilistica di Cuba, che spinse il mondo sull’orlo della guerra nucleare.

Il titolo iniziale della composizione pittorica fu: “Pace, bomba atomica e coesistenza pacifica”, in seguito divenuto, più semplicemente, “Murale della pace”.

A 57 anni dalla sua realizzazione, tale opera, che adorna la monumentale parete absidale, alto 6,30 metri e lungo 22 metri, occupando una superficie di circa 130 mq, della Chiesa di San Francesco D’Assisi, a Borgo Ferrovia di Avellino, Capoluogo dell’Irpinia, verrà restaurato con l’obiettivo che diventi patrimonio dell’Unesco.

Nel Murale la figura del Poverello è talmente cruciale, che fa da spartiacque a due mondi: quello della pace e quello della guerra. Nel primo caso, l’artista si è ispirato ai volti rudi del popolo irpino. Altri riportano i profili di personaggi dell’epoca, come Papa Giovanni XXIII, John Kennedy, Mao Tse Tung, Cesare Pavese, Guido Dorso, Pier Paolo Pasolini, Fidel Castro, nonché i vescovi avellinesi Pedicini e Venezia. Più drammatico il mondo relativo al male: il fungo dell’atomica, il filo spinato del lager, le orde naziste, il napalm del Vietnam, le foibe e le forche per i partigiani.

Particolare del Murale della pace di De Conciliis

Muro di pace di Gabriele De Masi

Marciano dall’alba del mondo
gli eserciti al seguito d’insegne,
labari, stendardi, bandiere
da più spaiati colori. Profili
di soldati dietro a una baionetta
innestata di fucile, sull’attenti,
all’altezza del viso fisso più in là,
non vede la sorte che ringhia
nei cimiteri dirupati all’urlo
del lupo che marca il terreno
di filo spinato, cavalli di Frisia,
botole, linee di binario fino
al capolinea di morte, quando
versa il convoglio di carri carne
stanca al terminal ferroviario
della stazione di sterminio.
Calcano gli eserciti lontani confini,
sabbie di deserti, lastre fredde
di neve, battono la terra,
tartassa la mitraglia, soffoca
disperato il cuore, lamenta
da un muro di rovina diroccato
di bomba, implorando latte
di madre, il bimbo, a mani
tese contro il cielo né cessa
sfrenato il singhiozzo di pianto
all’eco di tonfo e Francesco, santo,
calza la vesta lisa di sacco,
nudi i piedi, gonfi di freddo
nell’inferno di speranza, insegue
volo di colomba, cerca Volto Santo
tra rocce aguzze, fascine di spine
che scambia al mercato
per un tozzo di pane d’avanzo,
nessuno le compra né s’avvicina,
nel fondale d’altare alla Ferrovia
d’Avellino, con tiranni, plebei,
peccatori e santi tutti pellegrini
all’incontro d’Eucarestia,
fermi nell’attesa che arrivi
Dio, del perdono.

Gabriele De Masi

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