Il doveroso ricordo di Chantal Akerman, video artista, cineasta e sceneggiatrice belga di grande rilievo internazionale in una prima completa monografia italiana (film, libri, installazioni) di Ilaria Gatti con Alessandro Cappabianca della scuola di cinema Sentieri Selvaggi dal titolo: Chantal Akerman, uno schermo nel deserto (Fefè editore, ottobre 2019, pagine 282, 15€).
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Nata a Bruxelles nel 1950 e morta prematuramente a Locarno nel 2015, da una famiglia di ebrei polacchi emigrati in Belgio, Chantal Akerman viene oggi riscoperta ed onorata per il suo lavoro di cinematografia intelligente e nuovo ed il senso profondo della vita quotidiana che rappresentò. L’artista è commemorata da Ilaria Gatti e Alessandro Cappabianca della scuola di cinema Sentieri Selvaggi e proposta per i suoi film più conosciuti e non solo, per tutta la sua carriera all’insegna di sentimenti molto profondi. Ha diretto attrici come Juliette Binoche, Delphine Seyrig, Catherine Deneuve e documentato il lavoro di Pina Bausch.
Noi condividiamo questo percorso anche perché ci sembra che oggi sia opportuno isolare alcune personalità femminili esemplari di artiste, di scrittrici, di testimoni sui generis della loro epoca, per dar voce alla lotta di sostegno delle donne che non vogliono esser discriminate e violate nella vita.
È stata la madre la sua prima musa ad ispirarle un forte rapporto di tenerezza che poi diede vita alla sua creatività, la madre, Natalia Laibel, scampata dal campo di concentramento di Auschwitz e sempre vigile, le scriveva quando era lontana, in America, firmando le lettere: La mamma che ti pensa e ti vuole bene. L’artista l’associò più tardi al suo lavoro e concepì per lei un progetto filmico: una serie di conversazioni sulle esperienze svariate di vita di cui la madre e lei stessa erano soggetti narranti.
La Akerman iniziò giovanissima. Già a 15 anni scoprì la sua vocazione, dopo aver visto Pierrot le fou, il film di Jean-Luc Godard con Jean-Paul Belmondo e Anna Karina e scelse sicura: – Anch’io voglio fare film così. A 18 anni, nel ’68, esordì con un cortometraggio in cui mette lei stessa in scena: Saute ma ville (Esplode la mia città). Nasce in tal modo una stella ‘incandescente’.
Poi l’attende New York dove si trasferisce con Hotel Monterey (1972) e La Chambre dello stesso anno. A 25 anni il suo capolavoro: 4 ore di faccende domestiche come un thriller, Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles. Nel 2000 La captive, ispirato a La prisonnière di Marcel Proust. Non siamo in un mondo fantastico, ma in settori della vita reale, scandita lentamente, in spazi ristretti con quel senso di costrizione che mima il malessere interiore nel quale non mancano ansie, attese, silenzi prolungati, interrogativi più o meno drammatici. Ma questa è la vita? Perché si è ridotta così?
Il film: La folie Almayer (2011), liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Joseph Conrad, lucido e tagliente nelle tematiche con la scelta d’una sorta di prigionia volontaria in cui il soggetto, che appare analizzato in tutte le sue reazioni, si chiude. Tipico della filmografia della Akerman è il Portrait d’une paresseuse in cui essa si filma a letto con camera fissa, mentre racconta non senza una nota d’ironia, la difficoltà d’uscire dalle lenzuola. Anche i documentari: D’Est (1993), Sud (1999), De l’autre coté (2002), Là-bas (2006) sono rifugi segreti che racchiudono la solitudine come nei suoi film di finzione. La dimensione non è solo fisica, ma tutta interiore e nasconde i mali suoi e del nostro secolo: il senso di abbandono e l’incompiutezza. Si può dire che l’Akerman abbia esplorato una grande varietà di temi di vite non banali. I suoi film hanno un’estrema sottigliezza di particolari con lunghe sequenze ed una realizzazione tecnica meticolosa. Nella sua carriera ha realizzato più di 40 capolavori.
Oggi il suo prodotto filmografico è un cardine del cinema attuale, alla scoperta del mistero della psicologia più complicata. Ha saputo scavare nell’animo umano il dolore e l’esclusione, riservandosi un posto di primo piano per interrogarsi e rifletterci.
Gae Sicari Ruffo
INTERVISTA A ILARIA GATTI, AUTRICE DEL LIBRO