Pochi giorni fa, Pupi Avati, uno dei maggiori registi italiani, è venuto a Parigi per presentare il suo fim “Dante” al Festival De Rome à Paris 2023. Lo abbiamo incontrato nel Quartiere latino per Altritaliani la sera della proiezione, al Christine Cinéma affollato di gente. Ci ha raccontato, tra le altre cose, la genesi del film, la storia della bambola, i giorni con Fellini e Tognazzi, una sua ferita mai rimarginatasi. Un’intervista a cura di Maurizio Puppo + il trailer del film da vedere.
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Pupi Avati ha realizzato un progetto che gli stava a cuore da molto tempo: un film sulla vita di Dante, ispirato al “Trattatello in laude di Dante” di Boccaccio, a cui Avati aveva già dedicato un libro, “L’alta fantasia” (uscito per i Tipi Solferino nel 2021).
Nel film di Avati, ogni cosa è illuminata, svelata, da quello che Boccaccio (interpretato da Sergio Castellitto) dice al termine del suo viaggio, a Ravenna. Boccaccio vede in Dante (Alessandro Sperduti) “un padre”, ma lo sa “immaginare solo come un ragazzo”. Un padre-ragazzo che “conosce il nome delle stelle. Di tutte”. Eccolo, il Dante di Avati. In un gioco che mescola testo originale, versi danteschi, invenzioni della sceneggiatura e un forte registro visuale (fatto di tableaux vivants, su calco degli affreschi tra ‘200 e ‘300, alternati a un realismo brutale e innocente). Non è un Dante imprigionato nella gabbia scolastica del suo monumento (l’altissimo poeta dal profilo arcigno) e della Commedia. È un ragazzo prodigioso e incerto, “prescelto” (ancora Boccaccio) e spezzato. Un’anima divisa in due. Condannato a una fuga senza fine (fino alla morte a Ravenna) che prima lo allontana dall’amata Beatrice, e poi dall’amico Guido Cavalcanti e dalla sua patria, Firenze.
Dante è il giovane che conosce ogni cosa (il nome di tutte le stelle, appunto). Ma che, come in un verso del Paradiso, «ridire né sa né può quelle cose che ha visto». Infatti neppure Dante (padre, ragazzo) sa davvero rivelarci quel mistero che il film mostra, sottotraccia, in una bambola dall’occhio crepato. È il regalo nuziale di Beatrice. Boccaccio, che non lo sa, la trova per caso e la porta in dono a sua figlia Violante. La bambola (che richiama l’universo dei film gotici di Avati, come l’indimenticabile, indimenticato “La casa dalle finestre che ridono”) è l’enigmatica portatrice di un mistero che resta inalterato, inscalfibile, e che attraversa tutta la prodigiosa avventura umana, e intellettuale, di Dante.
Ringraziamo l’organizzazione del festival De Rome à Paris, in particolare Francesca van der Staay, Ludovica Marchi e Asia Ruperto per aver reso possibile questo indimenticabile incontro, così come quello precedente con l’attore e regista Kim Rossi Stuart.
INTERVISTA A PUPI AVATI
D.: Boccaccio vede Dante come un padre, ma lo sa immaginare “soltanto ragazzo”.
R.: Dante è stato occultato dal piedistallo del suo monumento. Troppo alto, pressoché irraggiungibile, inaccessibile per gli stessi docenti. Parlo sulla base del mio rapporto con la scuola italiana degli anni Cinquanta. Una scuola totalmente nozionistica, che si basava sull’interrogazione, sulla tua capacità di rispondere oppure no, più che sulla comprensione o sulla capacità del professore di trasmetterti le ragioni della sua scelta di occuparsi di quella materia. La scuola che ho frequentato io ha sempre allontanato più che avvicinare. Abbiamo avuto un rapporto con i classici di diffidenza, insofferenza. Astio. In Dante c’era l’aggravante iconografica: rappresentato con questo profilo, con una bruttezza che si andava ad aggiungere al fatto che fosse così difficile, complesso. La stessa idea di accedere a Dante attraverso la Commedia, invece che altre opere, è un errore clamoroso.
E dopo, invece, con Dante c’è stato l’incontro.
Sono arrivato a Dante, e ai classici, da totale autodidatta, dopo un fallimento musicale che ha contrassegnato la mia vita. Nei primi anni della mia vita il mio sogno era diventare un musicista, avevo suonato in tutta Europa come jazzista. Non ci sono riuscito. Ero alla ricerca di un secondo sogno e ci sono arrivato attraverso una casualità totale. In realtà mi occupavo di surgelati, per la Findus. Ero tra i primi undici missionari dei surgelati in Italia. Per quattro anni ho fatto quel mestiere. Poi ho visto Otto e mezzo di Fellini, che mi ha fatto capire cosa era il cinema. Entrando in contatto con questo strumento narrativo, in quegli anni a ridosso del ’68, quindi del tutto speciali nella cultura dell’Occidente, mi sono reso conto della mia inadeguatezza culturale, anzi della mia esplicita ignoranza. Soprattutto quando son andato a Roma, dopo i primi due fallimenti bolognesi.
Quali fallimenti?
Due film di grandissimo insuccesso. Che hanno fatto perdere moltissimo denaro a un mecenate bolognese. La provincia non te lo perdona, l’insuccesso. Così scappammo a Roma, per avere contatti, accattonare interlocuzioni con i professionisti che in quel momento stavano facendo la storia del grande cinema italiano. C’era allora una forte ambizione dei committenti, sparita negli ultimi decenni. L’ambizione dei committenti, ora, è quella di fare i numeri. Di riuscire attraverso un film a pagare i debiti del film precedente. A Roma mi sono reso conto di non essere attrezzato sufficientemente. Allora è nata l’esigenza di acculturarmi. Da dilettante.
Il film su Dante è visuale. C’è la lingua, certo, ma anche i tableaux vivants ispirati agli affreschi dell’Alto Medioevo.
Sì. C’è un affresco che parla: quello di Andrea di Bonaiuto, il pittore del Cappellone degli Spagnoli (Chiesa di Santa Maria Novella, ndr) a Firenze.
Nei dialoghi finali, si dice : «Dante è l’uomo che conosce il nome delle stelle. Di tutte.»
Questa è una frase originale della sceneggiatura, non viene dal Trattatello di Boccaccio. Nella presentazione di poco fa, ho parlato di questa misteriosa onniscienza. Su cui si interroga anche Boccaccio, senza il quale di Dante non sapremmo nulla, a parte la dismisurata capacità poetica. Da dove derivi questa onniscienza, è tra i tanti misteri uno di quelli che lo rendono più straordinariamente affascinante. La colonna sonora è un adattamento dell’Adagio per clarinetto e orchestra di Mozart. Non lo abbiamo scritto da nessuna parte, lo sto rivelando adesso a lei. Questo perché Mozart rappresenta secondo me l’equivalente di Dante, condivide lo stesso mistero. Mozart nasce con il sapere musicale di tutto il suo tempo. C’è un saggio su Mozart e la telepatia applicata ai bambini prodigio. Come fanno questi bambini ad avere questo sapere? Certo, nel caso di Mozart gli deriva in parte da suo padre Leopoldo. Ma solo in parte. È l’equivalente di quel che succede con Dante, che pure si trova nelle condizioni più punitive, è una persona perennemente in fuga, in difficoltà. Allora mi piaceva che Boccaccio vedesse Dante come un ragazzo. È la cosa che fa sì che il film trovi un suo senso. Se si emozionano, si commuovono, le persone sentono che quel ragazzo è vicino a loro. Come ho sentito che quel ragazzo era vicino a me quando ho letto la Vita Nova. Che è la porta, la “password” per accedere a Dante.
Dante è un uomo in fuga. Spezzato. Separato da Beatrice, dagli amici, dalla patria. Anche lei ha avuto una separazione: quella dalla vocazione di musicista.
Io questa ferita ce l’ho ancora aperta. Sono passati sessanta anni da quando ho smesso di suonare, e in sessanta anni non si è rimarginata. Il sogno di quando sei ragazzo, il primo, è quello più intenso, più condiviso con gli altri, ha una sua potenza che rende difficile sostituirlo. È evidente che il cinema mi ha dato tanto. Ma non tanto quanto mi avrebbe dato la musica, se io fossi riuscito a disporre di quel talento di cui non disponevo. Avevo la passione, che è una cosa completamente diversa. Mi applicavo, studiavo, ascoltavo dischi, compravo strumenti raffinatissimi. E di fianco a me c’era invece chi, oltre alla passione, aveva il talento.
Era Lucio Dalla.
Sì. Eterno Mozart. E io sono Salieri, nell’accoppiata.
Buzzati diceva di sé: sono un pittore che per sbaglio si è trovato a fare il giornalista.
È molto difficile parlare di sé, avere un’idea di come sei percepito. Ha a che fare con come vorresti essere. Fortunatamente Buzzati non ha avuto quel successo nella pittura che gli avrebbe impedito di diventare lo scrittore che conosciamo. C’è qualcosa di singolare in Lei, che è coincidente con il mio mondo. Ha citato uno scrittore che mi emoziona. Anche nel rapporto di Buzzati con la religiosità: essere agnostico, volendo chiedere a Dio di esistere. È il mio stesso rapporto con la fede.
La bambola di Beatrice, dall’occhio crepato, che Boccaccio porta alla figlia, richiama le atmosfere dei suoi film gotici.
Mi fa piacere che lei abbia notato questa controstoria, questo fil rouge, che non esiste nel Trattatello. Persino Boccaccio non sa che quella bambola è stata di Beatrice. E la porta alla figlia Violante con il candore di un padre che ha già perso tre figli. Morirà anche Violante, l’anno dopo. La bambina riconosce nella bambola un bambino morto e la seppellisce. Queste bambole sono una scoperta di Franco Cardini (tra i consulenti storici del film, ndr). Sono bambole nuziali. Io vengo dalla cultura contadina, ho trascorso i primi anni della mia vita in campagna, per motivi bellici. Nelle case di campagna dei contadini, nelle camere al centro del letto c’era una bambola. Certe riviste ogni tanto mostrano la casa di Orietta Berti, e lì c’è sempre una bambola in mezzo al letto. Quelle bambole venivano regalate nell’Alto Medioevo per propiziare la nascita di figli. Franco Cardini, in un testo mirabile, “Le mura di Firenze inargentate”, dedica un capitolo a queste bambole nuziali. Da lì nasce l’idea. Beatrice ha ricevuto la bambola nuziale, Boccaccio non lo sa ma la compra da un robivecchi. Una cosa alla Borges: non sai perché, ma è così.
La misteriosa presenza della bambola mi fa pensare a una persona a cui Lei è stato, è, vicino: Federico Fellini.
Io sono stato vicino a Fellini negli ultimi anni della sua vita. Quando si è reso conto di essere in prossimità dei titoli di coda. Ho capito come la realizzazione di sé, persino per uno come lui, fosse difficile. Era uno degli uomini più infelici che io abbia incontrato in vita mia. Gli dicevo, ma scusa, quando ti svegli la notte e non riesci a dormire, tu pensa: “io sono Federico Fellini. Sono un aggettivo”. Non riusciva a convincersene.
Un’altra persona che è stata importante per Lei è Ugo Tognazzi. All’inizio, non osava neppure dirgli “stop” e per chiudere le riprese diceva: “grazie”.
E con lui poi, nel tempo, si sono invertiti i ruoli. All’inizio della mia carriera, lui era l’attore più pagato del cinema italiano. Aveva fatto Amici miei e Romanzo Popolare, due grandi successi. Io ero proprio all’inizio, e lui accettò di fare uno dei miei primi film (La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, ndr). Molti anni dopo, lui era venuto a Parigi a fare il Tartufo, a fare Molière, e io lo chiamai, per fare un film sul calcio (Ultimo minuto, 1987, ndr). In lui nacque l’entusiasmo per un film che avrebbe dovuto, nelle mie intenzioni, risarcirlo del tanto che aveva fatto per me. Ai tempi del primo film, lui era la sicurezza, io la trepidazione. Adesso invece, il rapporto si era completamente rovesciato. Era lui che stava investendo moltissimo in quel film. Mi ricordo le sue mani gelide. Mi aveva dato tantissimo all’inizio, avevo fatto questo film per risarcirlo, e invece il risarcimento non ci fu: il film non andò bene.
Il calcio non è uno sport cinematografico. A differenza del pugilato, ad esempio.
Perché è collettivo, non individuale. Nella boxe c’è il buono e c’è il cattivo, nel calcio no. Persino il film di Huston, Fuga per la vittoria, con tutti grandi attori di quel momento, andò male.
Ci sono voluti venti anni per fare questo film su Dante.
Venti anni fa Giancarlo Leone e Stefano Munafò, due dirigenti della Rai, firmarono un contratto per realizzare questo film, sulla vita di Dante Alighieri narrata dal Boccaccio. In vent’anni, negli uffici, gli arredamenti non sono cambiati, le persone sì. E allora tutti alzavano gli occhi al cielo quando rammentavo loro che c’era questo contratto. Era come una maledizione: “sì, sì, lo faremo”. Fino a quando non sono arrivati questi famosi 700 anni dalla morte (2021, ndr), le cui celebrazioni italiane, debbo dire, hanno suscitato in me una grande perplessità. Allora persino alla RAI si sono detti: forse qualcosa su Dante dobbiamo farlo pure noi. E siamo riusciti a partire. È stato grazie soprattutto a mio fratello Antonio, che con una combinazione finanziaria non facile, e grazie al Ministero, è riuscito a trovare i fondi minimali per fare un film così costoso, in cui l’immagine ha una sua importanza. E trovare i luoghi per girarlo. C’erano due strade possibili: ricostruire tutto a Cinecittà, oppure illudersi che esista ancora un Medioevo celato tra i rovi, alla fine di un sentiero, dietro un palazzo, una cappelletta, un chiostro. E questo Medioevo c’era. Soprattutto in Umbria. L’Umbria è una delle regioni che ha conservato la sua particolarità. Contrariamente all’Emilia, dove la grande pianura è diventata tutto un unicum di superstrade, di capannoni. L’Umbria, inconsapevole di esserlo, è ancora titolare di luoghi altomediovali assolutamente straordinari, in cui abbiamo potuto ambientare parte del film.
Lei aveva già visitato il Medioevo in due film: Magnificat e I cavalieri che fecero l’impresa.
Ho una dimestichezza con il Medioevo che mi deriva dalla la lettura dei grandi annalisti francesi. La scuola italiana aveva risolto il problema dicendo: a un certo punto ci furono i secoli bui, e lì si girava pagina. Al contrario dei medievalisti accademici francesi, come Jacques Le Goff. Ora il libro e il film su Dante mi procurano una laurea in Filologia Italiana, alla Sapienza.
Lei aveva studiato Scienze Politiche.
Più che studiare, a Scienze Politiche mi ero iscritto. Ma al primo esame avevo interrotto il rapporto con l’università. Per poi scoprire la bellezza della cultura e dello studio. Lo dico sempre agli studenti. Lei non sa quanti di loro hanno visto questo film.
Il ministro dei beni culturali, Sangiuliano, ieri ha detto che Dante è il “fondatore del pensiero di destra”. Una “voce dal sen fuggita”. Che ha suscitato un pandemonio.
Una frase un po’ azzardata e precipitosa. Pensi che nel 1966 ad Arezzo, fu organizzato un processo a Dante. Con una corte giudicante, la difesa e l’accusa. Tra gli avvocati difensori, c’era Giovanni Leone, di lì a poco Presidente della Repubblica. C’erano Francesco Mazzoni, Ezio Raimondi, i grandi dantisti, per analizzare il Codice Diplomatico Dantesco, la raccolta di tutti i documenti, dovuta soprattutto a Renato Piattoli, in cui esiste una traccia di Dante, e risalire alle ragioni per le quali Dante fu accusato e condannato per baratteria. Cioè concussione. È evidente che fu assolto. Ma le ragioni dell’accusa ci sono tutte. Dante stesso, e nel film lo faccio dire, imputa tutte le sue disgrazie a quel momento del priorato (nel 1300, Dante fu priore, cioè uno dei governanti, di Firenze, ndr). Dante si è pentito di essere entrato in politica, da quel momento in poi tutto gli è andato male. Insomma, Dante politico… Lo diceva Benedetto Croce: Dante vale in quanto poeta. È il più straordinario tra tutti i poeti che posso aver letto nella mia vita. Colui che attraverso la nostra lingua esprime meglio e di più l’essere umano.
Stasera il cinema è pieno di gente. In Italia le sale cinematografiche si svuotano.
In Francia le sale cinematografiche vengono protette, questo permette di vederle piene, come quella di stasera. In Italia invece molti cinema hanno chiuso. E non si sa perché in Italia non venga applicata la stessa politica della Francia. Per servire le compagnie americane? L’Italia è completamente colonizzata. Sono state fatte entrare all’ANICA, l’Associazione italiana produttori, le piattaforme come Netflix. Quando entrano questi, si mangiano tutto. Sono onnivori. Comprano e mangiano tutto. E non è la stessa cosa. Difendere la sala significa anche difendere la distinzione tra il prodotto filmico, il cinema, e la serie televisiva. Non possiamo finanziare con denaro pubblico le serie televisive. In Italia invece succede. Hanno lo stesso “tax credit”, le sembra normale che si diano i soldi agli americani per far le serie? Uno dei film di questa rassegna, “Siccità” di Paolo Virzì, è già sulla piattaforma. Dopo neanche tre mesi. E allora uno dice, perché andare al cinema quando posso vederlo tra poco in televisione?
Grazie da Altritaliani.
Intervista a cura di Maurizio Puppo
(Parigi, 15 gennaio 2023)
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Più informazioni sul film Dante sul sito del Festival. Nel cast: Sergio Castellitto, Alessandro Sperduti, Enrico Lo Verso, Carlotta Gamba – Italia, 2022, durata 94 minuti.
- Backstage del film su YouTube
- TRAILER: