Il 4 Dicembre gli italiani voteranno per il cambiamento o meno della seconda parte della Costituzione. Al di là della polemica politica che rischia di oscurare i reali contenuti del voto referendario, ci sembra importante fare una, inevitabilmente sommaria, ricostruzione storica di come si è arrivati a questa riforma e quindi al referendum confermativo. Ci aiuta un recente libro: “Aggiornare la Costituzione” dello storico Crainz e del giurista Fusaro. Naturalmente siamo aperti ai contributi di tutti sul tema.
Finalmente si conosce la data del referendum costituzionale, sarà il quattro dicembre. Si tratta di un referendum importante per il futuro prossimo e per l’avvenire del paese. E’ un referendum confermativo e quindi non vi è un problema di quorum da raggiungere, come per quelli abrogativi e quindi decidono i cittadini che votano, a prescindere dal loro numero.
Ci sembra opportuno, nell’augurio di ospitare altri interventi con diverse opinioni sul tema, proporre un sintetico ed inevitabilmente incompleto excursus storico propedeutico a questa riforma, speriamo, utile a chiarire alcuni aspetti e a correggere alcune affermazioni che si sono sentite, specie nei media di maggiore diffusione, che spesso avvalorano tesi e convinzioni che contrastano con i fatti storici che hanno delineato, cosi come è oggi, il titolo secondo della nostra Costituzione, oggetto della riforma e del conseguente referendum.
Si, perché la prima cosa da chiarire è che il referendum attiene unicamente alla seconda parte della Costituzione e quindi non riguarda, nel modo più assoluto, i principi fondamentali della Repubblica che restano inalterati. Non riguarda nemmeno il tema dei contrappesi istituzionali, visto che le prerogative della Corte Costituzionale, in tema di verifica della costituzionalità delle leggi restano immutate, come il potere di abrogare leggi che non siano conformi alla Costituzione. Lo stesso vale per il potere del Presidente della Repubblica, in materia di primo controllo di legittimità costituzionale e di opportunità di rimandare le leggi alle camere, cosi come la prerogativa di nominare il presidente del consiglio dei ministri, certo dopo consultazioni con le forze politiche presenti in parlamento.
Quindi il tema non è il personalismo del referendum, peraltro abiurato come un errore dallo stesso autore, il tema è se sia giusto, utile, necessario, modificare in quella parte la Costituzione o se sia preferibile mantenerla inalterata. Visto che in questi quasi settanta anni dalla comparsa della Costituzione, il paese, la società e la politica sembrano profondamente cambiati e forse potrebbe essere utile adeguare la Costituzione ai nuovi tempi. Certo c’è chi, comme l’illustre costituzionalista Onida, ritiene che comunque questa Costituzione non vada modificata, altri ritengono che il cambiamento non solo sia maturo ma necessario per il bene degli italiani.
Quello che cambia è, dicevamo, la parte seconda della Costituzione, Seguiamo come traccia in questo nostro excursus, la recente opera dello storico Guido Crainz e del giurista Carlo Fusaro* dal titolo: “Aggiornare la Costituzione” ( ed. Saggine, pag. 198 € 16,00), interessante libro per approfondirsi sul tema in vista del voto e per conoscere il percorso storico, a cominciare dalla costituente, cosi da comprendere meglio le ragioni dei riformatori.
In un suo editoriale del 1946, sul Corriere della Sera, Carlo Borsa scriveva in merito alle angosce che suscitava il passaggio dalla monarchia alla repubblica: “Paura di che? Del famoso salto nel buio? Lo credano i nostri lettori: il buio non è né nella Repubblica né nella Monarchia. Il buio purtroppo è in noi, nella nostra ignoranza o indifferenza, nelle nostre incertezze, nei nostri egoismi di classe e nelle nostre passioni di parte”.
Queste parole sembrano illuminanti anche sul tema del prossimo referendum. Nei media, anche pubblici, si sentono troppe divagazioni paraideologiche, assunti aprioristici, troppa e sterile polemica politica, sembra che, malgrado le puntualizzazioni del primo ministro, che ha fatto marcia indietro su ogni personalizzazione, il referendum non sia sulla riforma ma sulla sua persona, certo molti ci marciano su quell’errore e anche sul suo dietrofront, ma la confusione cresce con il buio che è in noi.
Anche per questo è salutare andare sul merito della riforma, affinché il voto, qualunque esso sia, venga da scelte consapevoli e non da fallaci e fuorvianti pregiudizi o peggio ignoranze.
Un primo luogo comune è quello che il bicameralismo perfetto o integrato, comunque sia definito, fosse stata una pacifica conclusione a cui arrivarono i partiti che avevano concorso con il loro antifascismo, alla caduta della dittatura. In realtà, quel bicameralismo, fu frutto di una complessa elaborazione politica, ricca di contrasti e contraddizioni, di prove di forza e compromessi, fortemente legata alla congiuntura politica del tempo a quel presente del dopoguerra ricco di incognite e paure.
Prima della Costituzione ci furono le elezioni per la Costituente che registrarono il successo della DC con il 35,2%, tuttavia la somma tra i voti del PCI e quelli del PSI sfioravano il 40%. Seguirono le amministrative con la débâcle della DC che a Roma arrivo’ al 20,3% a Napoli al 9,2% a Torino passava dal 27,4% al 18,6% perdendo consistenti quote di consensi anche a Genova, Firenze, a Palermo, Bari, ovunque.
Le “politiche” erano previste per il 1947 e l’allarme su un probabile successo del fronte popolare (PCI e PSI insieme) erano consistenti. C’era stato il viaggio in America di De Gasperi, il piano Marshall che in Francia ed in Italia aveva significato la rottura definitiva tra centro e sinistra. Con quest’ultima costretta all’opposizione. Nasceva la Cortina di ferro, finiva l’alleanza che aveva messo insieme forze politiche diverse nel nome dell’antifascismo e dell’antinazismo.
Tutto questo peso’ enormemente nell’elaborazione della seconda parte della Costituzione. Come peso’ la consapevolezza in Togliatti di essere ad un soffio dal successo elettorale che avrebbe aperto ai comunisti italiani le porte verso i “compagni” sovietici. Togliatti dirà all’Unità: “Noi non possiamo ispirarci a un sedicente interesse ristretto di classe, o a un sedicente interesse di partito”. Parole che inquietano ulteriormente la Democrazia Cristiana, la quale tuttavia punta ad un bicameralismo non paritario.
L’intento iniziale è di avere un Senato espressione del mondo del lavoro, che raccolga rappresentanti dei mestieri e delle professioni (la DC è fortissima sia nel mondo del cooperativismo, specie agrario, sia nella media borghesia) a questo si contrappone un modello che vorrebbe il Senato frutto delle realtà locali e regionali, ma comunque con compiti diversi, frutto di un’elezione fatta con criteri diversi da quella della Camera dei deputati (è un’idea questa, che sarà presente anche nell’attuale riforma).
La sinistra è contraria al bicameralismo, si propone una sola Camera, cosa che preoccupa specie in considerazione della sua grande avanzata nelle amministrative. Il comunista Luigi Longo dirà all’epoca, come ricorda Crainz nel suo citato libro: “Occorre abbandonare il solo terreno parlamentare, senza spaventarci se vi saranno urti armati”. Togliatti negava questa ipotesi di insurrezione armata, tuttavia in antitesi sosteneva: “un comunista non puo’ escluderla in eterno” (Di Loreto 1991 e Caredda 1995).
La Costituzione prende forma in uno scenario lacerato dove contano i rapporti di forza e pesa certamente l’idea di una conquista della libertà, della democrazia, dove è forte la paura di ricadere in dittature. In quei mesi con un colpo di Stato, consumato a Praga, l’allora Cecoslovacchia passa al fronte sovietico.
Anche sulla preconizzata Corte Costituzionale, su cui spinge la DC, vi sono forti resistenze della sinistra, la quale non gradisce un contrappeso che non sia il popolo e i suoi rappresentanti. Il socialista Nenni dirà: “Non spendero’ altre parole per mettere alla berlina la Corte Costituzionale. Sulla costituzionalità delle leggi non puo’ deliberare che l’Assemblea nazionale, il Parlamento, non potendo accettarsi altro controllo che quello del popolo”. Togliatti rincara: “Si teme che domani vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese: e per questo si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nell’elaborazione legislativa e di qui anche quella bizzarria della Corte Costituzionale”.
Una delle testimonianze sul clima della Costituente la offre Giuseppe Dossetti: “Certe scelte costituzionali, soprattutto della seconda parte della Costituzione, che anche oggi […] hanno gravato sulla paralisi del nostro Stato, sono dovute al pensiero che si dovesse assolutamente evitare tutto quello che poteva facilitare l’accesso al potere di un partito che aveva intenzioni totalitarie e dittatoriali”. Da qui segue Dossetti: “una voluta intenzionalità nel delineare certe strutture non perché funzionassero ma perché fossero deboli […]: il governo innanzitutto[…]; quindi la doppia Camera, con una pari autorità ed efficacia, quindi un congegno legislativo che […] non poteva esprimere un efficienza qualsiasi”. Dossetti conclude: “la preoccupazione di De Gasperi era il fatto che il PCI potesse diventare maggioranza. Il carattere eccessivamente garantista della Costituzione è nato li”. (Dossetti 1996) in una nota Crainz ricorda che il costituzionalista Onida ha ricordato queste circostanze in un recente incontro pubblico nel giugno di quest’anno. In realtà lo stesso Dossetti aveva già riconosciuto nel 1951 che il bicameralismo integrato era superato.
Nel corso dei lavori della Costituente il giurista Mortati, i cui testi saranno largamente studiati all’Università, aveva sostenuto che la seconda Camera (il Senato) poteva avere tre funzioni: Una funzione ritardatrice della procedura legislativa; un’altra che era quella d’integrazione della rappresentanza ed infine una funzione di competenze specifiche. Mortati, di area cattolica, si spinge oltre arrivando a ritenere che la seconda Camera potrebbe essere eletta non dal corpo elettorale ma dalle categorie professionali oppure dai Comuni e dalle Regioni (cosa che oggi è proposta per l’elezione dei senatori della post riforma). Una cosa che proporranno anche i comunisti, che contrari all’ipotesi degasperiana del senato delle arti e mestieri, propongono un senato eletto per un terzo dalle Regioni e per due terzi dai Comuni.
Malgrado il favore anche dei repubblicani, la proposta Mortati viene respinta nel 1947 in un susseguirsi di colpi di scena. Alla fine il vecchio Nitti, che ben aveva conosciuto il totalitarismo fascista e Starnuti fanno prevalere il suffragio universale ma con il voto per il senato interdetto ai minori di 25 anni, si tratta di un compromesso dettato dalle reciproche diffidenze e paure (si temono i giovani, molti dei quali sensibili alla sinistra), e il suffragio universale (il voto delle donne, temuto dai comunisti, era viceversa, motivo di conforto per la DC e i moderati in genere).
Alla fine la paura prevale e il bicameralismo si delinea cosi come l’abbiamo conosciuto per quasi settant’anni. Ma i contrappesi per anni mancheranno. La Corte Costituzionale entrerà in funzione sola nel 1956. Altri contrappesi politici arriveranno solo molto dopo, come ricordano Crainz e Fusaro, le Regioni ordinarie e il referendum abrogativo vedranno le loro leggi di attuazione solo nel 1970.
Ma la seconda camera appare, come visto, da subito un inutile doppione, ma anche nei decenni successivi il tema si ripropone nel 1978 Umberto Terracini, rispondendo ad un’intervista di Pasquale Balsamo, che gli chiede come rendere più spedito il lavoro parlamentare, sarà deciso: “Abolire una delle due Camere. E’ l’unico modo per riuscire nello scopo, naturalmente il Senato che scaturisce da una base elettorale più limitata di quella della Camera”.
La preoccupazione di Terracini si fonda sulla complessità della democrazia italiana che ci ha portato ad avere 66 governi in 60 anni un record d’instabilità che ha danneggiato l’Italia anche oltre confine, mostrando la vulnerabilità di un paese incapace di avere solidità e stabilità.
Si ebbero cosi numerosi tentativi di riforma prima con la Commissione Bozzi, che cercherà vanamente di rendere i governi più capaci di decidere, poi le bicamerali presiedute dal democristiano De Mita e poi dalla comunista Iotti. Finita la prima repubblica e con la profonda trasformazione del paese, che abiura al proporzionale e che per referendum sancisce, tra il 1991 e il 1993, il maggioritario e la fine delle preferenze, si propone la bicamerale di D’Alema che si apre per le riforme a Berlusconi, che “regnerà” in Italia per 20 anni. Una bicamerale che servirà solo al cavaliere per far tacere la sinistra sui suoi perenni conflitti di interessi ma che non porterà a nulla per la riforma costituzionale.
Il “regno” di Berlusconi durerà incontrastato, con una sinistra incapace di proporre alternative e anche quando nel 2013 la destra perderà sei milioni di voti, neanche uno di questi andrà al PD di Bersani che anzi perderà a sua volta tre milioni e quattrocentomila voti che in gran parte faranno la fortuna di Grillo e del suo movimento.
Eppure la svolta di mani pulite aveva offerta un’occasione unica per modificare il sistema, per semplificarlo e per rendere il paese più stabile. Dopo i referendum di Segni il quadro politico era profondamente cambiato, tuttavia non si colse l’occasione, innanzi a tanti cambiamenti, per modificare ed adeguare il titolo secondo della Costituzione. Cosi Edmondo Berselli in un suo articolo nel 1997 segnalava come un periodo che poteva rivoluzionare il paese stava sfiorendo: “il federalismo depotenziato, il bicameralismo moltiplicato, la legge elettorale ulteriormente complicata. Probabilmente il nostro paese ha perduto il momento magico in cui, nella fase di massima crisi dei partiti, sarebbe stato possibile restituire la sovranità al popolo e costruire un’architettura istituzionale innovativa e nitida”.
Eppure proprio Occhetto, traghettatore dal Pci ad una nuova sinistra che avrà il suo culmine nel PD, proponeva un sistema che fosse a doppio turno, come prospetta l’attuale riforma, con un capo del governo che fosse una sorta di sindaco d’Italia, una cosa simile al “premierato forte” proposta dalla bicamerale di D’Alema, ma infine il prevalere della destra berlusconiana e la timidezza della sinistra impedirono di adeguare la Costituzione ai nuovi tempi.
Ma poi verranno invece create leggi come il “Porcellum” con il solo e dichiarato scopo di impedire la governabilità alla sinistra, un obbrobrio di sistema che tuttavia la sinistra non abrogo’ nemmeno nei due anni in cui fu al potere tra il 2006 e il 2008. Si dovrà attendere il governo Renzi per vedere tramontare la “porcata”, come fu definita dallo stesso autore, Calderoli.
Esiste, ed emerge dal libro di Crainz e Fusaro un filo rosso e storico che porta la nostra Costituzione alla necessità di un aggiornamento che renda più chiara la frontiera tra governo ed opposizione, che dia rilievo al valore democratico di una maggioranza che possa governare coerentemente e responsabilmente, che preveda un doppio turno (appare infatti impossibile in un sistema divenuto tripolare, che un partito al primo turno possa conseguire il 40% dei voti), e quindi la possibilità per gli elettori di scegliere chi governerà e di non vedere la propria scelta vanificata dai giochi politici dei partiti e dalla formazione di balbettanti coalizioni. Una conquista per gli elettori che andrebbe valutata nel solco di quei passaggi storici che si è cercato, sia pure in modo incompleto, di riassumere.
E’ evidente che oggi il quadro politico non è offuscato dalle paure e dalle contraddizioni dell’Italia del dopoguerra. La democrazia odierna, pur con i suoi limiti e difetti, appare ormai abbastanza solida per una scelta di maturità politica.
Nicola Guarino
Bel contributo… che condivido. Certo in direzione opposta e contraria… Giusto per riflettere insieme
La finanza internazionale e la controriforma costituzionale
di Guglielmo Forges Davanzati
“I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alle cadute delle dittature, e sono rimaste segnate da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste … I sistemi politici del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso basate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi” (J.P.Morgan, 2013).
Perché Matteo Renzi investe tutto il suo capitale politico per una riforma della Costituzione della quale, si può supporre, alla gran parte dei cittadini italiani non interessa per nulla? Perché lo fa in disprezzo del duplice fatto che la riforma è partorita da un Parlamento dichiarato illegittimo e del fatto che questo provvedimento non era nel suo programma elettorale? La risposta può rinviare a due soli ordini di ragioni: il primo, per così dire, psicologico; il secondo propriamente economico.
Il primo potrebbe riguardare il fatto che Renzi voglia, per così dire, passare alla Storia come “il grande riformatore”, “il costituente del XXI” secolo. Potrebbe essere. Ma pare davvero una motivazione molto parziale a fronte della quale si può contrapporre una interpretazione che, senza cadere in improbabili complottismi, metta assieme alcuni fatti che ci portano a pensare che la riforma della Costituzione italiana si renda necessaria come scambio politico fra questo Governo e la finanza internazionale. Sia chiaro che non si fa qui riferimento a una cospirazione occulta, e tantomeno a un progetto eticamente censurabile, ma a una sequenza di eventi che quantomeno fanno seriamente dubitare della narrazione governativa. Andiamo per ordine.
1. Nel 2013, J.P.Morgan pubblica un rapporto nel quale invita il Governo italiano a modificare la Costituzione vigente perché contiene “troppi elementi di socialismo”. In particolare, J.P.Morgan insiste sulla inopportunità di tenere in vita una Carta Costituzionale di matrice novecentesca, nella quale i valori fondanti riguardano la tutela dei diritti sociali, il fondamentale ruolo attribuito allo Stato nella programmazione economica, il richiamo alla democrazia economica. Per la finanza sovranazionale, la Costituzione italiana è da modificare radicalmente, come quelle degli altri Paesi mediterranei dell’Eurozona, ma lo è ancor più rispetto a queste esperienze: l’Italia diventa, per così dire, un laboratorio per sperimentare dettati costituzionali adeguati al XXI secolo, ovvero coerenti e funzionali ai processi detti di finanziarizzazione[1].
2. I rapporti fra Renzi e autorevoli esponenti di J.P.Morgan, in particolare con Jamie Dimon, sono ampiamente documentati ed è noto che attengono al salvataggio di alcune banche italiane, Monte dei Paschi di Siena innanzitutto per evitare effetti di contagio sull’intero sistema finanziario italiano[2].
3. J.P. Morgan, allo stato dei fatti, è interessata a ricapitalizzare il sistema bancario italiano, in particolare il Monte dei Paschi di Siena. La spesa sarebbe irrisoria, data l’enorme disponibilità finanziaria di J.P. Morgan, probabilmente si riuscirebbe anche a trarne profitto. Ma a condizione che il Governo italiano proceda a fare le “riforme” indicate.
Se questa ricostruzione è veritiera, si giunge alla conclusione che la riforma Boschi-Renzi costituisce uno scambio politico fra Governo italiano e finanza internazionale per un obiettivo del tutto contingente e, per certi aspetti, neppure di rilevanza tale da motivare il superamento sostanziale della Costituzione vigente: il salvataggio del sistema bancario italiano, e in particolare, del Monte dei Paschi di Siena. Evidentemente, il corollario riguarda il fatto che la politica italiana è in larghissima misura eterodiretta: cosa che, per molti commentatori, non è peraltro nulla di così nuovo, dal momento che già dall’insediamento del Governo Monti si fece esplicito riferimento, in quel caso, a una decisione di Goldman Sachs.
Vi è un passaggio successivo. La finanza sovranazionale chiede all’Italia di accelerare i tempi di decisione e ciò si rende necessario dal momento che, in un contesto di ‘globalizzazione’ (sebbene con forti controtendenze registrate dall’aumento delle misure protezionistiche), il turnover del capitale è notevolmente accelerato e le scelte di localizzazione degli investimenti sono profondamente influenzate dalla capacità del singolo Governo, in un contesto di competizione fra Stati, di creare un ambiente favorevole all’attrazione di investimenti (e/o alla non delocalizzazione).
In tal senso, l’invito di J.P.Morgan è pienamente ascrivibile a questa logica. Al di là del fatto che la nuova costituzione molto difficilmente porterà a un accelerazione dei tempi di decisione, in considerazione della sua farraginosità (come messo in evidenza ripetutamente dai sostenitori del NO al Referendum), la questione rilevante da discutere è se ammesso che questo risultato si produca (ovvero che i tempi di decisione si accelerino) ciò è un processo desiderabile o meno[3].
La risposta dipende in modo significativo dal modello di sviluppo dell’economia italiana che si intende promuovere o rafforzare. Per la seguente ragione. Con ogni evidenza, la finanza sovranazionale e le multinazionali che domandano la riforma costituzionale lo fanno per trovare in Italia un assetto istituzionale per loro più favorevole: bassi salari, risibile tutela dei diritti dei lavoratori, normativa trascurabile in materia ambientale, delineando un percorso di crescita in condizioni di ulteriore aggravamento delle diseguaglianze distributive e di ulteriore attacco al lavoro. Per chi ritiene che l’eventuale attrazione di investimenti non possa che avvenire sostenendo questi costi (inclusa la perdita della sovranità politica), il SI è una scelta scontata.
Per chi ritiene che le diseguaglianze siano un freno alla crescita, che la finanza sovranazionale non debba ingerire nelle decisioni di uno Stato sovrano; per chi ritiene che la globalizzazione debba governata e che la totale libertà di movimento dei capitali sia una delle concause della crisi in corso la risposta non può che essere decisamente NO. La posta in gioco è, dunque, la vendita della nostra carta costituzionale al miglior offerente: il tentativo estremo di provare a fuoriuscire da una crisi della quale non si vede una possibile via d’uscita.
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Gentile Delphine, come spesso capita in referendum cosi importanti, la polemica si fa aspra e spesso genera anche confusione, talvolta dei falsi storici. A tutto questo noto contribuisce anche il servizio pubblico che, invece di ascoltare le posizioni del Si e del No sul merito della riforma, divaga con sensazionalismi buttando il tutto nella più vacua polemica politica (Renzi si, Renzi no, una cosa che non c’entra nulla con i quesiti referendari), ma che fa comodo ad una classe politica che ha regnato per venti anni senza fare nulla di utile per il paese e che spera che il SI perda, perché solo cosi puo’ sperare di perpetrare se stessa. Viceversa io credo che il Si sia necessario per cambiare questo paese. Vengo a lei. Non è vero che ci sono altre cose più importanti di questa riforma e mi spiego. Per modificare lo Statuto dei lavoratori ed arrivare al Jobs act abbiamo atteso un terzo di secolo. Per avere i diritti per le coppie omosessuali abbiamo atteso 25 anni, per qualunque riforma in Italia ci vogliono ere geologiche, mentre nell’Europa i processi riformatori sono molto più rapidi perché non vi sono due camere che fanno le stesse cose e con maggioranze diverse. Avere una sola Camera consente di essere molto più rapidi e puntuali nell’intervento legislativo e nel dare risposte alle continue evoluzioni della nostra società. Significa uno Stato più efficiente e quindi minori costi per la società. Abolire il CNEL significa che noi contribuenti risparmieremo 20 milioni di euro all’anno, significa che non pagheremo uno stipendio di 180.000 euro all’anno al suo presidente. Faccio presente che dalla sua istituzione 1946 ad oggi il CNEL ha dato 50 pareri( meno di uno all’anno). Un ente inutile. Significa ridurre di numero i senatori che passano a 100 e che avranno solo lo stipendio di consigliere regionale o comunale senza ulteriori compensi (circa 300 milioni di euro risparmiati all’anno), significa abolire le Provincie definitivamente, avere un Senato che avrà compiti diversi dalla Camera e tante altre cose. Contesto anche il fatto che la Costituzione attuale fosse troppo socialista. La invito a rileggersi l’articolo e vedrà che storicamente la Costituzione è figlia di molti compromessi miranti a limitare le possibilità di un’affermazione socialista. Del resto la sinistra (oggi la minoranza PD e gli estremisti l’hanno dimenticato)era contro al bicameralismo e addirittura contro alla Corte Costituzionale. Era un altro tempo e proprio questo fa capire, se si è sereni, quanto sia necessario mettere mano alla seconda parte della Costituzione per renderla più vicina ai nostri tempi. Detto questo non la seguo sulla questione banche che con il tema referendario ci entra come i cavoli a merenda. Segnalo solo che sulle banche l’attuale governo è stato quello più sinistra di tutti. Non ricordo Prodi o D’Alema che abbiano alzato le imposte per le transazioni finanziarie in borsa. Il primo provvedimento fatto dal governo Renzi alla sua nascita fu questo. Renzi, come Draghi, spinge per una riduzione delle banche ed una razionalizzazione del sistema bancario italiano. L’Italia è primo per numero di banche tra i paesi europei, con una miriade di piccoli e fragili istituti che poi causano i drammi che abbiamo conosciuto lo scorso anno. Ebbene anche in quel caso il governo si è prodigato per difendere i posti di lavoro (che si sarebbero persi, con il fallimento di quelle)ha protetto i correntisti che avrebbero perso tutti i loro risparmi ed ha avviato un piano di sostegno e rientro per chi è stato truffato. L’informazione è materia delicata e va data correttamente, altrimenti si generano idee errate e falsate.
Tuttavia, insisto ma vedo in questo discorso sulle banche l’ennesima divagazione dai temi referendari. Comincio ad avere il sospetto che quelli del no, non gradiscano parlare del cambiamento e dei temi che questa riforma offre e preferiscano (forse per mancanza di idee) parlare di Renzi, del potere plutocratico delle banche, del padre della Boschi, manca solo il fatturato della Juventus. Perché invece di dire frasi fatte del tipo: « questa riforma è una svolta autoritaria », non diciamo che questa riforma aumenta le forme di democrazia diretta e partecipata obbligando il parlamento riformato a pronunciarsi sulle leggi di iniziativa popolare (cosa che oggi non avviene), perché non informiamo che con questa riforma finalmente si potranno avere anche referendum propositivi e non solo abrogativi e che per questi ultimi, a seconda delle firme raccolte, si abbassa il quorum per rendere valido il referendum? Faccio presente che il referendum sindacale contro il Jobs act ha raccolto un milione di firme, con il Si, a quel referendum basterebbe raggiungere il 35% dei votanti per essere valido. Le sembra una riforma autoritaria? Questa è una riforma che dilania il consociativismo dei partiti ed è per questo che si è arrivati al miracolo di vedere tutti insieme Berlusconi, Grillo Zagrelbeski, Salvini, Casa Pound e Travaglio, D’Alema e Brunetta. Ci faccia caso Delphine da una parte c’è la vecchia politica (protagonista di trenta anni di fallimenti e stagnazione) e il populismo, dall’altra parte c’è il cambiamento, ci sono il PD (nella sua stragrande maggioranza) e i radicali. Quella classe politica che oggi vota No è quella che non ha fatto nulla per venti anni che ha devastato il futuro di intere generazioni ed ora chiede il soccorso a quel popolo a cui danno ha campato, un popolo che in buona parte a questo gioco ci sta cascando. Mi creda l’antisistema oggi non sono né la Raggi e né Grillo. Sono certo che chi vuole cambiare questo sistema di inciuci e corruzione non puo’ non votare SI.
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Signor Guarino, a contribuire alla confusine è lo stesso Premier con articoli incomprensibili anche ai costituzionalisti più agguerriti. Ha visto cosa ha detto lo stesso Zagrebelsky, che non è certo l’ultimo venuto?
Non ci contano più le modalità di approvazione da parte del « nuovo » (si fa per dire) Senato ». C’è chi dice 6, 9, 12, 14.
Una cosa è la necessità di cambiare parti che necessitano una modernizzazione, un’altra è voler far passare per « storica » una riforma fatta con i piedi.
Sul merito è il governo che non vuole entrarci. E che dire dei senatori futuri. Renzi non voleva il Senato, ma lo ripropone addirittura non facendolo più eleggere ai cittadini. Ma le pare serio? 100 saranno scelti in liste bloccate dalle segreterie dei partiti e gli altri scelti dai Consigli regionali tra i sindaci e i consiglieri. Ma le pare democrazia diretta. Sapendo che è proprio nelle Regioni che si annida il massimo della corruzione e della cattiva scelta della classe dirigente. Non le pare che ci voleva un po’ più di vigilanza e lungimiranza? Lei non si affanna, perché è una persona equilibrata (almeno suppongo). Se n’è accorto anche il Financial Times che è ritornato suoi suoi passi. Legga l’articolo pubblicato ieri da Tony Barber. Cito : “contrariamente a quanto pensa lo stesso Renzi, le riforme costituzionali che propone faranno poco per migliorare la qualità del governo, del processo legislativo e della politica”. E ancora : il bicameralismo paritario “produce ritardi inutili che fanno zoppicare anche i governi benintenzionati come il suo, che vogliono mettere in atto riforme in grado di modernizzare il Paese. Eppure la storia dei governi del dopoguerra, compresa quella dello stesso esecutivo Renzi, smentisce la sua teoria. Il Parlamento italiano ha approvato anno dopo anno un numero maggiore di leggi di quelle passate in Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. Nonostante la mancanza di una maggioranza in Senato, il Partito Democratico di Renzi è riuscito a far passare i tagli delle tasse e la riforma del mercato del lavoro su cui si basa il suo programma”. Se fosse vero, la obbliga a correggere il suo excursus storico. L’Italia – si legge ancora nel FT – non ha bisogno di leggi approvate più rapidamente, ma di un numero minore di provvedimenti e di migliore qualità“. Leggi che “dovrebbero essere scritte con cura e applicate davvero, piuttosto che essere bloccate o aggirate da pubblica amministrazione, interessi privati e pubblici”. Capisce bene dunque che difendere il « principe » di Firenze è alquanto pericoloso. Un cordiale saluto
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Dopo controllo, questo messaggio è anche di Delphine Buratto
Bel contributo… che condivido. Certo in direzione opposta e contraria… Giusto per riflettere insieme
Gentile Delphine, probabilmente lei è francese e come io non conosco bene la Costituzione transalpina, egualmente lei ha poco chiare le idee sulla nostra bene amata. La nostra è una democrazia rappresentativa non diretta. I senatori in Germania, in Francia, in Inghilterra non sono eletti dai cittadini, ma dai Lander, dai Consigli regionali e cosi via. In realtà come avrà notato dall’articolo, se ha avuto la pazienza di leggerlo, storicamente la sinistra è sempre stata favorevole ad un Senato dei territori e in effetti l’intento di questa riforma era di avere una seconda camera non rappresentativa dei partiti ma delle realtà locali, il tutto con i congrui tagli sui costi della politica. Come per la Costituzione del ’48 anche questa dovrà essere integrata da alcune leggi costituzionali, per fortuna poche. Lei lo sa che dopo il ’48 si è dovuto attendere il 1953 per far vedere la luce alla prevista ma non istituita Corte Costituzionale? la cui prima sentenza data il 1956? Che per attendere l’istituzione delle regioni e dell’istituto referendario (solo abrogativo, diversamente dall’attuale riforma) abbiamo dovuto attendere il 1970? Le leggi attuative saranno fatte, se passa il Si, più rapidamente perché riguardano la nomina o l’elezione dei senatori. Un’ipotesi piuttosto congrua è che alle elezioni regionali (alle Comunali sono i sindaci di 21 città)i cittadini sceglieranno anche i loro rappresentanti al Senato, con ratifica del voto dell stesso Consiglio. Personalmente non trovo questa riforma scritta con i piedi. Intanto, perché come ha fatto notare lo stesso Benigni, non tocca i principi fondamentali, non tocca i contrappesi costituzionali della Corte Suprema e della presidenza della repubblica, non aggiunge poteri al presidente del consiglio (cosa aspramente criticata dal Financial Times), diversamente dalla riforma che voleva Berlusconi. Rende più responsabili il governo e le stesse opposizioni, garantisce stabilità una cosa, mi creda necessaria in Italia. Con il combinato della legge elettorale, consente agli italiani con il ballottaggio di scegliere il proprio governo (il famoso sindaco d’Italia, che quando era proposto da Veltroni od Occhetto andava bene, se lo vuole Renzi va male). Io sono d’accordo con il giornale economico inglese. Il punto non è solo la rapidità della legge ma la qualità. Guardiamoci negli occhi e chiediamoci, la qualità delle leggi in questi decenni è stata ottima? Oppure sistematicamente frutto di compromessi a ribasso, dove spesso partitini dal 2% di voti diventavano lo strumento di ricatto per impedire politiche chiare e riforme coraggiose? (Lei si ricorda che fine fece Prodi grazie a Bertinotti e Mastella e al loro 0,…). Questo è un paese bloccato da mille lobby e corporazioni, dove ogni partito grande e piccolo si muove su interessi di parte se non particolari. Avere un partito che vince e governa senza inciuci è garanzia di chiarezza e trasparenze è garanzia di responsabilità. Infine, Io l’ho visto Zagrelbesky e francamente non ho sentito una sola contestazione tecnicamente valida, al punto che da Repubblica, finanche Scalfari (che non è amico di Renzi, ma di Gustavo) ha dovuto riconoscere che quel confronto il premier l’ha vinto. Io credo che dovremmo liberarci dalle tifoserie, la questione non è la simpatia o antipatia di Renzi, la questione è il futuro dell’Italia, di aggiornare una Costituzione che in buona misura è bella e valida ma che nella parte seconda non è più attuale. Quella Costituzione si basava sul proporzionale, gli italiani lo dimenticano ma hanno scelto il maggioritario per referendum e con il 96% dei voti hanno detto no alle preferenze, che, paradossalmente e contro la propria storia, la minoranza di sinistra vorrebbe far rientrare. Il problema è che scorrettamente c’è chi cerca di usare questo importante, non so se storico, referendum, par farne un regolamento di conti generazionale e paraideologico (che tristezza queste dispute ideologiche senza ideologia). Teniamoci sul pezzo e parliamo della riforma.
Il 4 Dicembre referendum : Note sul suo percorso storico.
Forse cercare e pubblicare qualche parere diverso sulla riforma costituzionale non farebbe male a questo sito che non mi sembra brilli per articoli critici sull’operato di Renzi…qui sotto un link ma piacerebbe vedere pubblicati veri e propri articoli che illustrino compiutamente le ragioni del NO…
http://www.internazionale.it/notizie/2016/10/04/critiche-riforma-costituzionale
Il 4 Dicembre referendum : Note sul suo percorso storico.
Caro Lorenzo, noi siamo talmente democratici che la ospitiamo ancora una volta ed addirittura con un link di un sito concorrente (scherzo naturalmente). Guardi noi abbiamo invitato tanti che sono del no a scriverci (noi come sito non siamo schierati), lo siamo singolarmente nel senso che abbiamo le nostre idee. Purtroppo, non abbiamo avuto ancora riscontri ma non disperiamo. Poi in passato abbiamo avuto articoli come quelli di Stellon e di altri contro il Jobs act, io personalmente sono stato critico sulla politica estera dell’attuale governo. Poi che vuole dopo 20 anni di nulla e di sterile polemica su Berlusconi, utili solo ai suoi affari, vedere uno che in due anni e mezzo, fa la riforma del lavoro, la legge per le unioni civili, la riforma della scuola e quella della Costituzione, dargli molto addosso…diventa anche difficile.