I Martiri molisani della Resistenza e un ragazzo del 2020

Il 25 Aprile, Festa della Liberazione, una foto ha emozionato il web ed è diventata virale sui Social, una del reportage realizzato da Flavio Brunetti quella mattina a Campobasso, nel Molise: un ragazzo, Michele, senza fanfare e senza comizi o ricordi, ha onorato, con fiori e il tricolore Italiano, i Martiri molisani della Resistenza. Un gesto luminoso sbocciato nell’atmosfera spettrale che attanaglia da mesi e in questi giorni, di vertiginoso aumento dei contagi, la città e l’intera regione nell’epidemia. Ecco il racconto di quel momento pieno di bellezza e speranza.

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I MARTIRI MOLISANI DELLA RESISTENZA E UN RAGAZZO DEL 2020

 

flavio brunetti

L’angoscia aveva rapita la città.
Non ne avevo voglia, sarei rimasto volentieri lontano da questa sofferenza che ancora ci tormenta, ma sentivo l’istinto di doverla raccontare. E allora mi misi a camminare, nelle strade straziate dalla paura, per incontrare l’angoscia. Di colpo non c’era più nemmeno una macchina, nemmeno un bambino, nemmeno una persona. Solo, invisibile, c’era la paura. E camminavo, i giorni e le sere di una primavera di morte, a cercare quel dolore, strisciante, velenoso e silenzioso, che ancora avvolge l’intera città.

brunetti flavio

Raccontare l’angoscia è difficile. L’angoscia è viscida, è sfuggente. Lenta e incessante conquista e opprime anche l’anima di chi vorrebbe narrare di essa. L’angoscia è un olio nero e denso, un olio pesante, che cola lentamente nelle ultime fessure dove filtra ancora un po’ di luce, vi cola pazientemente, e fa marcire la speranza. L’angoscia è una rete invisibile che non si strappa, circonda, avvolge, non lascia spazio, è cadere nel buio, è precipitare, a lungo, a lungo, in un interminabile pozzo senza vie di uscita, senza un tiepido raggio, senza il canto.
Ardua impresa è incontrarla negli sguardi di volti nascosti da pezze bianche, nei passi indecisi dei vecchi, nei piccioni a passeggio, nei viali immensi di solitudine.
L’angoscia è padrona dei giorni di pioggia, dei giorni di sole, dei giorni di neve.
L’angoscia è padrona dei mattini, delle sere, delle notti, delle aurore.
È padrona dei giorni che non si può più uscire per andare al lavoro o per fare qualcosa.
È padrona dei nostri affetti, dei nostri parenti, dei nostri amici.
È padrona dei sabati e delle domeniche.
È padrona dei nostri giorni di festa, è padrona della Primavera e dei fiori. Padrona del volo delle rondini.

Flavio Brunetti

Azzurrava un cielo di sole la mattina della Festa della Liberazione, il 25 Aprile, e mi stavo preparando al mio triste impegno, quando vidi qualcuno che, in mezzo alla strada deserta, si era arrampicato su una scala e puliva qualcosa.
– I vetri delle finestre del piano terreno di quella casa? – mi chiesi e incuriosito mi avvicinai.
Su quella scala c’era un ragazzo, che, col sapone, un secchio e uno straccio, puliva una lapide su cui c’era il nome di quella via:
Via Martiri Molisani della Resistenza”.
Una scritta incisa nel marmo, che la coltre di sporcizia, mai tolta per anni, aveva nascosto. Insieme al ragazzo non c’era la fascia tricolore del Sindaco, né la fanfara o fosse anche solo una tromba, non c’erano gli alti gradi dell’Esercito o dei generali dei Carabinieri, non c’era il Prefetto. In quell’angoscia mattutina, nella strada più breve e appartata di questa città, intitolata ai Martiri della Resistenza Molisana, c’era solo quel ragazzo. Aveva sfidato l’epidemia e i divieti di uscire imposti dal Governo, aveva portato con sé una scala presa da casa sua, un secchio, il sapone e gli stracci per pulire quel marmo fino a far leggere il nome. Quando il nome si lesse per bene, dalla scala scese giù a terra e prese ancora una cosa dall’auto. La spiegò: verde, bianca e rossa. Era una bandiera, il tricolore Italiano.
Si arrampicò di nuovo verso quel marmo e, al vento della mesta primavera, distese i colori della nostra nazione liberata dal giogo.

flavio brunetti

Poi ancora riscese. Andò alla sua auto. Lì dentro aveva anche un piccolo mazzo di fiori. Li aveva raccolti nei campi per donarli ai Martiri della Resistenza caduti più di settantacinque anni orsono per questa nostra misera terra di Molise e, a quel marmo, quei fiori depose.
Io fotografavo tutta quella bellezza, tutto quell’amore, tutta quella consapevolezza, tutta quella speranza, raccontata da due occhi profondi e veri, gli occhi di un ragazzo con un fazzoletto rosso al collo.
– Come ti chiami? – gli chiesi.
– Michele – mi rispose.
– Ora pubblico queste foto su Facebook, ma se mi dici la tua mail te le mando.
– Va bene – annuì e aggiunse – la mia mail è ….
Fu così che quel piccolo, immenso gesto d’amore di Michele, un ragazzo campobassano, nella strada più nascosta e sconosciuta di questa città, divenne, attraverso quelle foto, notizia condivisa da migliaia e migliaia di persone.

Commentarono in tantissimi quel gesto d’amore e di riconoscenza. Tra i molti, anche un vecchio partigiano, Gilberto Fazzini, si complimentò con Michele e lo abbracciò da lontano.
Gilberto è di Camerino. Aveva sedici anni quando lassù in montagna, sui Sibillini, vide il cadavere martoriato di suo fratello di soli diciannove anni, trucidato dai nazi-fascisti. Il fratello si chiamava Gianmario. Lo avevano ucciso fucilandolo alla schiena. Così facevano i Fascisti quando catturavano i Partigiani.

Li fucilavano alla schiena perché dicevano che erano traditori. Il padre dei due non resse allo spietato scempio e in poco tempo morì di dolore. Poi Gilberto decise di venire a vivere qua, a Campobasso, e a suo figlio, lui e sua moglie, dettero il nome del fratello che lui, a sedici anni, aveva visto straziato: Gianmario. Il nome che, già allora, i suoi compagni della Resistenza avevano dato alla loro formazione armata dopo il supplizio del fratello: “Brigata Gianmario”.

La foto di Michele, che deponeva i fiori ai martiri, continuava a viaggiare sui social, quando giunse un altro inatteso commento:
ROSSANA CERVI. Un forte abbraccio a Michele. Grazie, grazie! da una nipote di Alcide Cervi.”

Alcide Cervi, il padre dei fratelli Cervi.
Il loro martirio, uno dei più conosciuti tra gli eccidi fascisti, uno dei primi crimini orrendi contro la Resistenza.
I fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore. I genitori, Alcide Cervi e Genoeffa Cocconi, erano contadini. Alcide, il padre, era iscritto al Partito Popolare dal 1921 e, come i figli, era un antifascista. Il più impegnato dei figli era Aldo, il terzogenito. Egli, dopo l’Azione Cattolica, si era avvicinato al Comunismo. Tutti i figli di Alcide studiavano e leggevano libri. Non erano contadini e basta. In quella magione c’era desiderio di cultura.
La casa di Alcide Cervi divenne un punto d’incontro per chi aveva idee contrarie al Regime e, in poco tempo, un nascondiglio per i ricercati, per i renitenti alla leva della Repubblica di Salò e per i perseguitati politici stranieri.
Poco alla volta i fratelli Cervi sposarono gli ideali dei GAP, le formazioni combattenti partigiane, ma il 25 novembre 1943 la loro casa fu circondata da uno squadrone fascista di più di cento soldati. Tentarono di difendersi, ma furono arrestati insieme agli altri partigiani e al padre. I figli furono incarcerati tutti nella stessa prigione, il padre, invece, in un’altra galera lontano dai figli.  Era passato poco più di un mese ed erano i giorni di Natale, il 28 dicembre, quando i sette fratelli Cervi furono torturati e poi tutti fucilati.

La famiglia Cervi con il padre, Alcide, la madre, Geoneffa Cocconi, e i loro figli

Il padre, Alcide, nell’altra galera, seppe della morte di tutti i suoi figli solo l’otto gennaio, quando quel carcere in cui era recluso fu bombardato.
Un gesto semplice, un gesto d’amore e di riconoscenza, un ragazzo sincero e dolce, una scaletta per i vetri di casa, un secchio, uno straccio, un po’ di sapone, un fazzoletto rosso al collo, una bandiera e un mazzo di fiori di campo hanno risvegliato in migliaia di noi tutti questi ricordi e quella strada, Via Martiri Molisani della Resistenza, piccola e sconosciuta e con il nome quasi sparito per l’ingiuria del tempo e l’incuria degli uomini è diventata all’improvviso la strada della speranza.

Un ragazzo, una mattina di questa primavera prigioniera del male, una mattina piena di sole e di fiori, ha scacciato così la paura e l’angoscia, e ci ha regalato ancora la voglia di rinascere e vivere.

Testo e foto ©Flavio Brunetti

LINK INTERNI: “La città e gli spettri” delle stesso autore e QUI altri contributi e racconti a sua firma su Altritaliani.net

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Flavio Brunetti
Flavio Brunetti vive a Campobasso nel Molise. Vince, come cantautore, l’edizione del ‘93 del Premio Città Di Recanati con la sua canzone Bambuascé, e incide negli anni successivi gli album TU TU TTÙ TU e FALLO A VAPORE (ediz. BMG – Musicultura – CNI) delle sue canzoni. Scrive, dirige e interpreta numerose opere teatrali e musicali tra le quali Storia del Clandestino, L’angelo mancino, Frusta là, Lullettino e Lull’amore. I suoi reportage fotografici hanno meritato esposizioni in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile e in Ungheria. Ultime sue pubblicazioni editoriali sono: “Non aprire che all’oscuro”, racconto e catalogo dell’omonima mostra. "Il tempo delle tagliole", romanzo che narra della vita in seminario negli anni ’60.

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