Intenerisce questa pubblicazione per i bambini: «L’albero del riccio e altre fiabe per la buona notte», di Antonio Gramsci (a cura di Marcello Belotti con illustrazioni di Claudio Stassi, Icaria Editorial di Barcellona e Abbà Editori di Cagliari), uscito in quattro lingue: spagnolo, italiano, catalano e sardo. Non è la prima pubblicazione, ma una rinnovata con la consapevolezza del suo profondo significato. [Questo articolo è uscito su Altritaliani a gennaio 2018 ma riscontra sempre successo e interesse, quindi lo riproponiamo alla vostra lettura].
Gramsci scrisse queste favole tra il 1926 e il 1934, gli anni che passò nelle carceri fasciste. Le spediva per lettera ai suoi due figli, Delio, nato nel 1924, e Giuliano, nato nel 1926, che mai conobbe, e a sua amata moglie, Julca Schucht, violinista russa conosciuta qualche anno prima.
Noto per la sua profonda cultura, giornalista, polemista, scrittore, sfortunato padre e marito, tutto si può dire sulla sua relazione con il mondo dell’infanzia, tranne che sia vissuto in un mondo di favole o per raccontare favole. Proprio l’opposto.
Conobbe un mondo di voltagabbana, persecutori della giustizia, nemici della libertà e della giustizia, faziosi e spergiuri, interessati solo al profitto personale ed al raggiungimento del potere, ma si battè indefessamente con il suo altissimo testamento morale e storico dei Quaderni dal carcere, Lettere ed altri scritti per ristabilire la verità sua e per lasciare memoria ai suoi figli ed a tutti, di sé, della sua Sardegna e dell’Italia .
Gramsci dovette aver provato una grande dolcezza nello scrivere questi racconti per i suoi ragazzi intorno ai 10 anni, che egli vedeva solo con gli occhi della mente e che immaginava liberi ed aperti al mondo. Faceva di tutto per convincerli che era stato bambino come loro per donare quell’amore che non sapeva come altro dimostrare.
Parlava loro della sua esperienza precedente di bambino, di come si fosse occupato ed avesse allevato piccoli animali : falchi, barbagianni, cuculi, ricci, tartarughe, persino una serpicina.
Poi queste confidenze assumevano la veste di animali e di due bambini che sono i protagonisti di queste fiabe da leggere prima di dormire. Raccontano di ricci a caccia di mele, di secchielli con granchi e pesciolini, di battaglie tra corvi e gufi, di volpi furbissime alle prese con contadini e puledrini indifesi, di gioco della dama, di libertà nel disegno, di scuola e di figli che crescono, di uomini che cadono e risorgono, e fanno capire quanto sia importante lo studio della Storia e con essa della realtà e della Natura.
Spesso il racconto infatti si allarga ad apologhi, allusivi d’una grande saggezza, come quello dell’uomo caduto in un pozzo profondo che non riceve aiuto da nessuno, neppure da un ministro di Dio, ma che conta solo sulle proprie forze per salvarsi.
Le fiabe di questa nuova pubblicazione sono tratte da L’Albero del riccio, da Apologhi e raccontini torinesi e da Raccontini di Ghilarza e del carcere. Non sono favole fantastiche per allenare la fantasia, ma reali che preparano alla vita e mettono in guardia sulle sorprese del mondo. Conservano infatti qualche traccia di quel crudo realismo alla cui scuola Gramsci fu, nella descrizione della sanguinosa lotta tra gufi e corvi o della strana abitudine dei ricci di mangiare “pezzo per pezzo” la biscia e poi sparire nel cortile di casa, immaginando che qualcuno li voglia catturare per mangiarseli a sua volta. In guardia dunque dall’Homo homini lupus, adagio ripreso dalla lezione filosofica di Hobbes, per rimarcare l’istinto egoistico e di sopraffazione della natura umana.
Che dire poi della frase rivolta, in una lettera, al figlio minore?
“Caro Giuliano, hai visto il mare per la prima volta. Scrivimi qualche tua impressione”, per stimolare lo spirito d’osservazione del ragazzo e invitarlo a scrivere le sue emozioni, un po’ come si legge nel bellissimo brano raccontato da Carlino nelle Memorie d’un ottuagenario dell’italianissimo Ippolito Nievo, scrittore ottocentesco di quella letteratura italiana che certo egli aveva amato e meditato.
I figli crebbero in fretta, ma non ebbero la fortuna di conoscere il padre che li pensava sempre con molta commozione e che morì il 2 aprile del 1937 nella clinica privata romana Quisisana, appena uscito dal carcere.
Gaetanina Sicari Ruffo
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L’ albero del riccio e altre fiabe per la buonanotte
di Antonio Gramsci
A cura di: M. Belotti
Illustratore: Stassi C.
Data di pubblicazione: novembre 2017
pp.40, Euro 15
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Da: L’albero del riccio e altre fiabe per la buona notte
Caro Delio,
mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i fringuelli scappano dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi; occorre prenderli a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato molti uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci, delle tartarughe.
Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele. Una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due più grossie tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio più grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie.
Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno.
Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa.
Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano loro molto e così li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano più quando vedevano la gente. Avevano però molta paura dei cani.
Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambe ritte davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli.
Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc. ecc. Mi pare che tu conosca la storia di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di Rikki-Tikki-Tawi?
Ti bacio.
Antonio