Eravamo ebrei è una lunga intervista, in ‘stile indiretto libero’, che una nipote, Ester Mieli, fa al nonno, ALBERTO MIELI, uno degli ultimi sopravvissuti ai lager nazisti ancora vivente.
Praefato da Padre Federico Lombardi, si avvale della postfazione di Riccardo Di Segni, rav capo della Comunità ebraica di Roma, e di un’affettuosa, nota finale – imprescindibile chiosa al testo – della nipote stessa.
E’ un dolce, spontaneo ‘sermo familiaris’, il linguaggio letterario scelto per narrare esistenza ed atrocità vissute da Alberto, a volte, quasi, percorso da semi-dialettismi.
Ma questo rende ancor più immediato e commovente il racconto di una vita così sofferta prima, e poi, così ben spesa.
«Non c’è ora del giorno o della notte in cui la mia mente non vada a ripensare alla vita nei campi, a quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere» – ammette Alberto.
Oggi – ma lo fa da tempo – Alberto ‘tramanda’ le sue memorie, i suoi ricordi, nelle scuole, alle generazioni future, per non dimenticare di ricordare, perché i giovani che non ‘sanno’, non abbiano un giorno a ‘negare’ – come è BEN già successo – che tutto quanto non sia stato, ma che E’ accaduto per davvero e come direbbe Primo Levi:
« Meditate, che questo è stato ».
A tratti il senso del racconto viene dolcemente interrotto dai commenti affettuosi, evidenziati in corsivo, della nipote Ester che ne ha coordinato la stesura.
Ma è stato un modo, per lei, per avvicinare anche i suoi figli al suo caro nonno che è riuscito a diventare pure bisnonno: sì, perché la vita, dopo la sofferenza, gli è stata donata dalla sua famiglia, a cui è potuto tornare dopo il campo di concentramento e da quella di oggi, quella delle generazioni che stan crescendo e che dovranno, a loro volta, tramandare queste memorie perché ciò che è ‘stato’ – ancora una volta è giusto ribadirlo – non abbia a ripetersi, mai più.
Maria Cristina Nascosi Sandri
DESCRIZIONE DELL’EDITORE :
Alberto Mieli dopo settant’anni racconta per la prima volta alla nipote Ester la sua infernale esperienza da deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Ricorda la vita in una Roma nazifascista, le leggi razziali e il giorno in cui è stato portato via dalle SS, dopo il tragico 16 ottobre 1943. Rivive, ancora con le lacrime agli occhi, l’arrivo nei campi, l’odore acre dei corpi che bruciavano nei forni crematori in funzione tutti i giorni. Parla del lavoro giornaliero e stremante, dei corpi senza vita ammassati gli uni sugli altri, della stanchezza e della fame continua e cieca che pativa, fame che ha portato alla pazzia e poi alla morte migliaia di deportati. Fame di cibo, di vita, di libertà. «Ad Auschwitz ho visto l’apice della cattiveria umana.» Con queste parole Alberto Mieli racconta, con dolore, aneddoti e luoghi, parla delle torture subite. Ridisegna volti di gente incontrata e poi persa, spiega come sia riuscito a convivere tutta una vita con questa doppia cicatrice: una alla gamba, causata da una granata lanciata dagli Alleati esplosagli troppo vicino e che a volte ancora sanguina, e una più grande nel cuore.