Dove comincia e finisce Milano

“Viaggi nello straordinario dell’ordinario”.  Altritaliani vi propone un nuovo racconto “psicogeografico” e breve di Ennio Cirnigliaro, archeologo e storico genovese. Dopo Genova, Parigi e la sua banlieue di Clichy, ci parla di Milano. Ma quale Milano? E dove comincia e finisce?

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Milano dalle terrazze del Duomo – Foto FB di Antonio Coti Zelati

Cercare la fine (o l’inizio) di una città è come tratteggiarne il profilo, definirne il corpo, la testa, gli arti, la dimensione, tanto da dare una forma concreta e tangibile al toponimo. Questo ci permette, a sua volta, di conoscerne il volto, la fisionomia, i tic, i tratti distintivi, i pregi e i difetti, di odiarla, amarla, di provare, come spesso avviene, sentimenti contrastanti, di ricavarne in certi casi benessere o angoscia, speranze o delusioni.

In questo senso, l’archeologia e la topografia, il sottosuolo e il soprasuolo, divengono letteralmente la biografia di un essere collettivo, con la sua nascita, la sua crescita, talvolta la sua contrazione o la sua morte. In certi casi, poi, quelli nei quali una città, per ragioni spesso incomprensibili ci risulta necessaria, così da creare una dipendenza che ci spinge a voler percorrere quella strada, quel viale, quel vicolo, essa si fa specchio di noi.

A me, da un po’ di tempo a questa parte, succede con Milano (cosa alquanto strana per un genovese): ci sono giorni in cui mi prende un bisogno fisico di quel paesaggio, solo quello, e, sino a quando non mi ci immergo, nasce in me una sensazione analoga a quando si ha fame o sete: la città diventa in quei momenti un bisogno primario, e dunque irrazionale, quasi erotico verrebbe da dire, scomodando i più triti luoghi comuni di chi cita Freud senza aver mai letto una riga del viennese.

Milano, dunque. Parlerò di Milano, meta consueta, perciò esotica di quel particolare esotismo che nasce dal voler guardare quello che si vede.

Quando pensiamo a Milano, siamo soliti, in realtà, pensare a tanti fenomeni che si sovrappongono: c’è la Milano del centro città, coi suoi triti aperitivi, il quadrilatero della moda, il centro storico per nulla conosciuto dai residenti gentrificati (perdonatemi il terribile neologismo dagli ascendenti anglosassoni) e da quelli periferici, i navigli con la movida e il casino e una pletora di eccetera lunga come un tuttocittà.

Altritaliani

Solitamente, a quella Milano prelude la Milano sotterranea, reticolare, attraversata dalle linee metropolitane che la congiungono a quella all’aria aperta (si fa per dire, dati i noti problemi di inquinamento), la quale nella nostra mente sinestetica assume l’aspetto di una linea rossa, una verde e una gialla ( a breve si fisserà nel nostro immaginario anche la lilla, ma è ancora presto): la linea rossa è il centro, quella verde il quasi centro, quella gialla un qualcosa di più distante, per chi è abituato a prendere “la Uno” come principale mezzo di teletrasporto fra la finis terrae di Bisceglie e il centro città.

Oltre a queste Milano, abbiamo poi la grande Milano di chi si muove in auto, corrispondente al perimetro delle tangenziali ovest, nord ed est ( già dalla disposizione dell’elenco si capisce come guarda la città un genovese: la vede da sud verso nord per poi buscar el levante por el ponente scendendo da est).

Infine (infine?) abbiamo la vastissima area metropolitana che risale la Brianza sino a lambire le Prealpi comasche e lecchesi, la terra di Gadda, delle villette in stili improbabili, dei capannoni, delle capitali del mobile, dei Suv lampeggianti e degli autovelox implacabili, attraversata da due arterie veloci: la Milano-Meda (ex statale dei Giovi) e la Monza- Lecco (la Statale 36), vere e proprie spine dorsali di questo crogiuolo medievale di province (se ne contano ben quattro: Milano, Monza e Brianza, unite a dispetto dei due nomi, Como e Lecco). In tutti i casi citati appare arduo, e forse inutile, definire un confine netto, tanto che il susseguirsi di comuni e toponimi appare più un commovente ricordo di un passato rurale dei tempi in cui Don Lissander, al secolo Alessandro Manzoni, si recava in villeggiatura in quel di Brusuglio, che è un dato reale. Ad esempio, esiste un punto, proprio in zona manzoniana, nel quale in pochi chilometri sei a Milano, per poi passare a Cormano e ritrovarti a Paderno Dugnano senza che nulla ti faccia notare la differenza.

Nonostante tutto questo, anche Milano ha un confine netto, nitido e tangibile, direi quasi drastico per lo stacco emozionale che crea; un confine che sa di ponti levatoi, di mura, di “dentro o fuori”, di dialettica città/campagna: il Parco agricolo sud, dizione un po’ burocratica che rimanda però ad un territorio miracolosamente (avverbio da approfondire) intatto. Dizione burocratica, dicevo, ma anche fuorviante: il termine “parco”, infatti, richiama ad aiuole, aree attrezzate, panchine e giochi per bambini; nulla di tutto questo è il Parco agricolo sud; al contrario, esso è campi, canali, naviglio, cascine, paesi ben delineati e separati l’uno dall’altro entro una maglia insediativa che le suddivisioni agrarie a lotti regolari e la toponomastica ci fa cogliere come di origine romana, come si evince dai caratteristici i toponimi di proprietà terriera con suffiso -ano: Trezzano, Gaggiano, Muggiano, e con significative sopravvivenze di relitti toponomastici di origine celtica, aventi le classiche terminazioni in -ago e in -ate: Cusago, Assago, Rosate, solo per citare a memoria.

Di notte, soprattutto, la differenza si fa ancora più netta, quando nelle sere estive ci si trova a percorrere la tangenziale ovest, il cui percorso segna la linea di confine fra città e parco, a parte uno “sconfinamento” lungo la direttrice per Vigevano dai due opposti lati del Naviglio Grande, lungo i quali si sviluppano gli insediamenti di Trezzano sul Naviglio e Gaggiano, senza soluzione di continuità con la città che si diparte da Via Lorenteggio.
Durante questi tragitti notturni, da farsi preferibilmente col finestrino aperto, in aperta sfida alle zanzare in perenne pattugliamento, si potranno scorgere da un lato, omogenee, le luci dei quartieri che danno sulla tangenziale, il Gallaratese con l’orrenda ciminiera fallica dell’inceneritore, poi San Siro (le cui luci sono citazione obbligata), Baggio, Olmi, Muggiano e, sullo sfondo, la Torre di Rozzano, vero e proprio faro terrestre che, con il suo fungo illuminato a giorno da luci intermittenti, e dunque ancora più vive, mostra ai notturni naufraghi della provincia, e di mille storie raccontabili e no, dove inizia la città, mentre dall’altro lato scorre il buio avvolgente e rassicurante della campagna, la tenebra rigeneratrice che purifica i cervelli dalle impurità del giorno.

Ma, ancora di più, stando col finestrino aperto nella disfida di cui sopra, quello che si distingue nettamente è la differenza fra gli odori: da un lato, la melassa degli odori urbani, che non sono sempre e necessariamente puzze, sia ben chiaro: gomma bruciata, arrosti e grigliate di sagre o cene private, sudori rappresi dopo giornate di lavoro o non lavoro, elettricità e gas di scarico mescolati ad omelette e tigli; dall’altro, l’odore buono e intenso del fieno, dei prati, l’umido refrigerante dei canali e dei boschi, il profumo del letame, che solo i fighetti chiamano puzza (non a caso, il termine ha la stessa radice latina di laetus,“felice”), che si concentra nei pressi di una cascina quattrocentesca a ridosso dell’ultimo edificio urbano, un hotel “Holiday in” dall’aria sgasata come gli spumanti di terza categoria alle 5 del Primo Gennaio in un centro anziani, entro un’area di sosta della tangenziale, che a me piace tanto (mi perdonino i puristi d’ogni specie), con quell’aria liminare da custode di storie. E soprattutto l’odore del lontano; il lontano, la quarta dimensione che, di fronte ad uno spazio dilatato, ancora meglio se notturno e buio, ti fa presentire luoghi sempre al di là e ipotesi di viaggio, di scoperta, di incontro, e la pianura si fa steppa infinita, orizzonte da percorrere, possibilità senza il ricatto della certezza, altro-da-sé che ci rende familiari a noi stessi. In quelle strane notti milanesi, mentre lo spazio e il tempo si incontrano sulle tre corsie della tangenziale ovest, nulla è più vicino del battito del cuore di Milano, nulla è più lontano di Abbiategrasso.

Ennio Cirnigliaro

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Ennio Cirnigliaro
Ennio Cirnigliaro è nato a Genova nel 1974. Archeologo per professione e vocazione, militante politico di lunga data, indaga il presente con quella particolare chiave di lettura “stratigrafica” propria di chi ha l’abitudine di inserire i fenomeni singoli in un più ampio contesto. Ha pubblicato su riviste varie articoli specialistici nel suo ambito, oltre che testi politici e sociali aventi come denominatore comune l’antifascismo, l’antisessismo, l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’ecologia sociale. Ha pubblicato per Prospero editore “Medioevo digitale. La storia contemporanea attraverso i social network”, 2021.

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