Si può affermare che il vincitore morale di Cannes 2019 sia Dolor Y Gloria, scritto e diretto da un crepuscolare Pedro Almodovar. Non è soltanto un film: è un caleidoscopio intimo fra dolori fisici e morali sulla via di una gloria chissà quanto ambita davvero. Un capolavoro che sa essere autoanalisi e libera confessione, testamento e riconoscenza verso il Cinema, un atto d’amore per un’arte cui molti cineasti prima o poi fanno i conti, e sanno rendere omaggio.
Ma questo è piuttosto un personale atto di dolore che meglio non poteva incarnarlo che l’alter ego del settantenne regista spagnolo, ossia Antonio Banderas: immensa, ardente e tormentata la sua interpretazione; una parafrasi che in gesti misurati va oltre l’umana visione dell’universo interiore. La prima immagine del film è l’immersione in piscina nella quale è il suo corpo in apnea a darci il benvenuto su questo sentiero fra la gloria e l’angoscia: un taglio ricucito sul ventre può evocare quelli artistici di Fontana.
È l’arte nelle sue forme ad accompagnarci, fra presente e passato: una infanzia da bambino prodigio che sa cantare e soprattutto leggere e scrivere, in quei paesini assolati nei quali regna l’analfabetismo. Grazie alle scuole dei preti impareranno a socializzare e ad istruirsi. Gli occhi vispi di Salvador iniziano a guardare il mondo e a guardarsi dentro, negli impulsi sessuali e di crescita verso i colori della vita. Prende corso infatti il suo mondo d’arte come sarà la sua cromatica casa museo dove Salvador vivrà da regista apprezzato nel mondo, ma nella quale concentra le frustrazioni fisiche ed interiori che non gli permettono di creare opere nuove. “Senza girare un film, la mia vita non ha senso …” confesserà alle poche persone che gravitano intorno alla sua esistenza che appare sempre più chiusa. Eppure, analizzando a distanza di trent’anni il suo film più noto (ma che non ama), il suo attore gli indicherà: “Sono i tuoi occhi che sono cambiati, il film non cambia.”
Salvador-Banderas insiste ad impartire lezioni: “Il vero attore non è chi piange ma chi lotta per trattenere le lacrime.” Fra concetti d’arte e misurate incursioni nel cinema, (Jean Cocteau e Picasso: “tutto ciò che puoi immaginare è reale” diceva) il tormento del regista si focalizza sui tanti dolori fisici, sulla difficoltà di rapportarsi con gli altri. Quando si inginocchia è sempre su un cuscino (come in chiesa), ma per adorare un dio blasfemo: l’eroina.
Il corpo sembra sia la prigione e la creatività sospesa nelle notti insonni fra terapie improbabili e ricorso alle droghe.
Delicate sono le musiche di Alberto Iglesias, con la canzone di Mina “Come sinfonia” (scritta da Pino Donaggio) che ondeggia nel finale; la fotografia raggiante che rimanda alla poetica andalusa; il candore del bambino e la castità alla scoperta del proprio sesso: poesia pura è lo svenimento davanti ad un adulto nudo. L’amore materno, la dedizione verso di lei anziana, che pur non ha mai accettato un “figlio così”.
Almodovar depone anche un omaggio al teatro con il suo contatto diretto col pubblico, evocandolo proprio nella carnalità di quest’opera: una essenza primordiale che l’autore asseconda nel mettere in scena l’ampiezza del suo cinema.
Per realizzarlo, Almodovar si rifugia nei suoi attori di sempre, oltre a Banderas: Penelope Cruz (è la mamma del regista da bambino) esemplare nelle sue movenze; e poi Asier Etxeandia e Leonardo Sbaraglia, pregevoli. Banderas, premiato migliore attore a Cannes, interpreta il cineasta Salvador Mello; l’attore spagnolo ha espresso la più matura delle sue prove, entrando nei panni reali, con abiti e scarpe prestati dall’amico regista.
Intanto, il film da subito non offre un’immediata compiacenza: odora di un fisiologico fastidio, ma nei solari rimandi al passato prende corpo e vitalità. Questo, come gli ultimi film del maestro spagnolo, sono rivolti alle radici della provincia, al passato sospeso fra nostalgia ed espiazione; le donne con le quali è cresciuto e i mancati amori, la “mala educacion” . Eppure, chi ama il cinema non può fare a meno di imbattersi in questo suo ultimo dolente affresco, persino livido, ma che ci rende manifesta la vigorosa poetica della vita.
Armando Lostaglio