I giorno del Covid-19 #iorestoacasa con Bianca Silvestri, scrittrice, da Roma.
Prendo l’ultimo aereo per tornare a casa, prima della chiusura dell’aeroporto di Ciampino. Venti passeggeri seduti lontani gli uni degli altri in un aereo che ne potrebbe contenere più di 200.
Per telefono mio fratello scherza: “l’ultimo aereo, come in Casablanca”.
Replico: “Peccato che non sia venuto Humphrey Bogart a salutarmi”.
Ultimamente buttiamo tutto sullo scherzo.
È una difesa psicologica scherzare quando un pericolo incombe.
Cerchiamo di ritardare la presa di coscienza drammatica. Il male fa paura.
La realtà mi costringe a considerare che il problema sia serio. Prima di uscire dall’aeroporto, un uomo con maschera e guanti mi chiede: “È italiana? Documento”. Un altro: “Si fermi dove c’è il segno. Dobbiamo prendere la temperatura”.
La tassista, con mani plastificate dai guanti, guida veloce sull’Appia, strada della mia infanzia, mai vista così poco trafficata.
Non dice una parola, non risponde nemmeno alle mie domande. Chi parla emette vaporizzazioni che possono contenere il pericoloso virus corona che ci sta cambiando il modo di agire.
Roma è deserta, rari passanti ripiegati su se stessi, sembrano zombi in una città da giorno dopo la catastrofe.
Il centro non è mai stato così innaturalmente silenzioso.
Un rintocco lugubre di una campana mi ricorda che la città dalle mille chiese si è fermata, attende spaurita il passaggio del morbo.
Le chiese sono chiuse, le campane non suonano. Mi manca il festoso rincorrersi da un campanile all’altro dei loro rintocchi. Un solo unico suono vola nell’aria come esile respiro di moribondo.
E i gabbiani dove sono finiti? Non si sente nemmeno uno dei loro invadenti garriti.
Silenzio!
Siamo in primavera, lo si nota dagli alberi in fiore. Perché non ci sono uccelli che cinguettano?
Uno strano senso d’angoscia m’invade.
Nessun inquilino nel mio palazzo. Finestre, portoni sbarrati.
Sto forse dentro un incubo?
È sabato, negozi chiusi, bar, cinema, ristoranti.
Spariti i turisti. E i romani dove sono?
Ubbidiscono alle consegne e restano chiusi in casa.
Per fortuna, a sera, mi affaccio alla finestra. C’è luce in alcune case. Qualcuno è rimasto. Chi ha la fortuna di avere una seconda casa al mare, in campagna o in montagna ha preferito fuggire la città, allontanarsi dagli altri diventati improvvisamente pericolosi: da fuggire come appestati.
Le immagini del telegiornale rimandano una periferia che reagisce con più vigore. Non si lascia prendere al laccio della diffidenza. Gli abitanti, abituati a vivere in palazzi affollati, si aprono più facilmente alla comunicazione.
Alle sei in punto del pomeriggio si affacciano alle finestre e cantano l’inno di Mameli. Non permettono all’isolamento di influire sui loro rapporti.
Dopo il canto, le risa, la conversazione e la gioia di vivere tengono in alto il morale. Poi d’improvviso una chitarra e un brusio di voci. Corro alla finestra. Allora non sono sola! Poche finestre aperte del palazzo di fronte bastano a disperdere quell’oppressione che mi si era insinuata nel cervello.
“Come state?”.
Mai quella frase retorica ha avuto un impatto così gioioso su di me.
Persone vicine da anni che erano lì proprio di fronte alle mie finestre, mai incrociate per la strada, mai viste affacciate alle finestre ed ora ci parliamo come se fossimo amici da sempre.
C’è un tramonto strano di un rosso violaceo. Si respira un’aria come sospesa, in attesa di qualcosa di tremendo che ancora non è arrivato, che non vediamo, ma si sa che c’è.
“Oggi è il mio compleanno” dice la signora del quinto piano, e tutti le fanno gli auguri.
Qualche facezia, qualche commento. Poi il commiato: “A domani” per l’appuntamento delle sei, per confortarci con un minimo di socializzazione.
Molte finestre non si sono aperte, eppure sono illuminate! Chi vi abita? Perché non vogliono socializzare? È difficile capire. E il senso d’angoscia riprende.
“Dove sono finiti i gabbiani?”
Poi l’alterco. Una signora del secondo piano del palazzo accanto al mio, non sopporta i canti, le battute gioiose che ci scambiamo da una finestra all’altra. “Ci sono dei morti, c’è gente che soffre, mio cognato è all’ospedale e voi cantate? Vergognatevi! Non avete vergogna? Non c’è pietà in voi?”.
La ragazza sul balcone, vestita da clown, volontaria dell’ospedale oncologico dei bambini, cerca di farle capire che cantare, ridere, sorridere aiuta a superare il dolore, che bisogna, proprio in momenti come questo, non lasciarsi abbattere, il buon umore vince tutti i mali, non c’è mancanza di rispetto per la sofferenza altrui, per aiutare gli altri ci si deve sentir bene. Ridere, far sorridere un bambino ammalato, un genitore sgomento significa dargli speranza, alleviarlo, distrarlo dal dolore. La gioia, anche se non fa guarire, ti fa stare meglio.
Ma la donna del secondo piano non sente ragione vuole covare, alimentare il suo malessere per sentirsi più vicina a chi soffre, odia i nostri volti sorridenti e i nostri canti spensierati.
Invano la ragazza clown cerca di farla ragionare, di strappargli almeno un sorriso.
Le giornate passano nell’attesa delle ore diciotto quando posso sentirmi parte di una comunità che vuole vivere. La presenza delle persone alle finestre mi conforta. La loro vicinanza mi fa sentire meno sola. La loro solidarietà mi è indispensabile.
Poi d’improvviso la mattina del mio terzo giorno di clausura, il canto di un cuculo è risuonato nell’aria per annunciare la fine dell’inverno e la primavera ormai prossima. Canto che mi ha sempre ricordato il potere benefico del rinnovamento e della guarigione.
Bianca Silvestri (Da Roma)
LINK INTERNO: Bianca Silvestri e « L’odore del mosto », il suo ultimo romanzo. Articolo a firma di Carla Cristofoli