Il primo ministro Conte nel suo recente discorso al Senato, per ricevere la fiducia del ramo parlamentare, ha avuto l’indubbio merito di sdoganare il populismo, togliendolo dalla sua dimensione lessicale peggiorativa ed accreditandola come la vera novità ideologica di questo nuovo millennio. Naturalmente, questo sdoganamento non è stata una boutade del generoso giurista, ma è stato condiviso con i veri leader del governo (Salvini e Di Maio) e vagliato, insieme al resto del discorso, da Rocco Casalino, superviser per la Casaleggio Associati. Conte ne ha rivendicato il valore ed il ruolo, sostenendo che il populismo è l’ascolto del popolo, è la risposta della politica alle sue domande.
Se andiamo a riavvolgere il film dei due principali partiti populisti, si evidenzia l’ambizione ad un superamento della democrazia rappresentativa. Casaleggio preconizzò una democrazia online, che superasse le rappresentanze. Più volte Lega e M5S in forme anche piuttosto violente hanno contestato la stessa legittimità dell’istituzione parlamentare quale assemblea di nominati, spesso corrotti, schiavi di lobby e di una mai chiarita finanza mondiale.
Appare perciò, al di là degli inevitabili tatticismi della dialettica politica, evidente come la contrapposizione tra il populismo e l’attuale modello democratico sia il tema di un confronto che, prima che ideologico e politico, è culturale. La messa in discussione di un valore che fino a ieri nel mondo libero era laicamente considerato sacro. Anche per questo il cambiamento è diventato il mantra del governo dei triumviri Di Maio, Salvini e Conte.
Nella sua esaltazione del populismo, Conte (e i suoi) sono arrivati anche a cercare una giustificazione storica, richiamandosi alla prima forma di populismo che fu in piena Russia zarista, un passaggio certamente superficiale del discorso, ma che ha denotato una precisa volontà di accreditare e dare una rinnovata dignità a quella ideologia.
L’altro e conseguente merito di questo sdoganamento è stato quello di ecclissare una volta e per tutte l’antica ed anacronistica divisione ideologica tra destra e sinistra. La divisione ideologica del nuovo millennio, che si è evoluta negli ultimi decenni, di cui abbiamo dato anche esempio con un recente articolo di Edmondo Berselli che abbiamo pubblicato, è quella tra populismo e democrazia.
Ed è bene dire che, anche in questo caso, come fu nella divisone tra destra e sinistra, non mancano sfumature e differenze. L’attuale governo è frutto di un contratto che ha fatto convergere due differenti populismi: quello leghista, più nazionalista in linea su alcuni valori conservativi con analoghe esperienze, che oggi troviamo nell’Ungheria di Orban o in Austria, l’altra, quella di M5S che si caratterizza per le sue forme spinte di giustizialismo, di lotta al precedente establishment, di avversione a qualsiasi ideologia che fu del Novecento, molto più mediatica e dominatrice, nello spirito di Casaleggio, della rete.
Gli avversari del populismo, sono i sostenitori della democrazia rappresentativa che, nello spirito della Costituzione, opera attraverso la mediazione dei partiti e attraverso il bilanciamento dei poteri delle istituzioni. E anche qui sono evidenti differenze e sfumature, tra forma più o meno liberali e con Forza Italia finanche liberiste, e chi guarda ai diritti civili e ancora alla lotta alle diseguaglianze come nel caso del PD. Lo stesso sociologo Luca Ricolfi, nel suo recente “Sinistra e popolo”, ricordava del resto come esistessero non più una destra e una sinistra ma due o più. Una frammentazione che, insieme a processi di trasformazione globale del mondo, è stata propedeutica all’affermazione dell’ideologia antipolitica e populista.
Questo è un conflitto ideologico, che sempre più coinvolgerà le masse o per dirla con i populisti, la folla, il popolo, diventando strumento di dibattito, di scontro, di divisione. Il punto è vedere quali sono i concetti, i principi, gli strumenti, direi i linguaggi, che dividono queste due ideologie.
Tutto parte dalla convinzione dei populisti che non esistano popoli, ma un popolo e quando essi assumono una posizione politica non lo fanno nel nome di una parte, ma di tutti. Da qui la vocazione, caduta poi nei fatti, movimentista più che partitica. La loro voce ambisce a sovrapporsi, a coincidere con la voce di tutto il popolo, il che già mette in discussione l’idea di rappresentanza politica, che naturalmente nelle sue diversità è espressione di idee ed interessi che riguardano categorie, un tempo si sarebbe detto classi, aree geografiche, pezzi della società, nello sforzo di coniugare le differenti voci in una sintesi che sia comune e condivisa. Questo porta ad una semplificazione anche del messaggio politico, una cosa che si contrappone alla complessità, anche comunicativa, che è tipica delle democrazie occidentali.
Diversamente dalle forze democratiche, che innescano un dialogo anche conflittuale con il popolo e parti di esso, magari contrapposte, cercando una sintesi, una mediazione, i populisti sono una formidabile macchina del consenso, riuscendo ad intercettare i desideri e le rabbie popolari, canalizzando di volta in volta, la propria offerta a questi. Non sono avanguardie che devono anticipare i temi della lotta, ma sono un contenitore che raccoglie la media delle richieste popolari. La loro si è rivelata una prassi travolgente nella fase di contestazione al sistema, ma che prospetta dei limiti nel momento in cui queste forze dalla contestazione, nel loro nuovo ruolo di governo e non di opposizione, devono passare alla proposizione.
Certamente, nel dibattito politologico e culturale di questi decenni, il primo segno di diversità tra forze populiste e democratiche, con tutte le differenze già ricordate e su cui non torneremo, alla luce della spinta della globalizzazione determinatasi dalla caduta dei blocchi politici, militari ed economici del fine Novecento, si è manifestata sul concetto di mondo “aperto” o mondo “chiuso”. Le forze democratiche, con sfumature e obbiettivi diversi e forse in alcuni casi con un eccesso di ottimismo, salutarono la fine dei blocchi geopolitici come un’opportunità per andare verso un superamento degli egoismi nazionali a vantaggio di un mondo “patria” che avrebbe dovuto concedere opportunità a tutti, con un apertura insperata ed accelerata degli sviluppi tecnici e informatici, che avrebbe dato occasione per un progresso economico e sociale diffuso, con nuove occasioni di lavoro e conoscenza che avrebbero aperto all’umanità insperati orizzonti. In realtà, come ha ricordato il già citato Ricolfi, effettivamente le diseguaglianze mondiali si ridussero specie a vantaggio di quei paesi emergenti che uscivano dalla catastrofe comunista o da altre soffocanti dittature e che si aprivano alla competizione. È stato il caso della Cina, dell’India, del Brasile, di paesi come il Viêt Nam, la Turchia, la Corea del Sud ed altri ancora. Ma la globalizzazione, nel ripartire in modo nuovo la torta dell’economia, ha evidentemente svantaggiato quelle potenze economiche europee e nord americane, che si sono trovate in un mercato non regolato a fronteggiare una concorrenza che si muoveva su livelli salariali, burocratici e democratici ben differenti.
È chiaro che questa divisione tra chiuso e aperto, sottintende due diverse visioni ideologiche che non hanno solo un valore geopolitico. Faccio un esempio, forse banale, se oggi Basaglia proponesse la chiusura dei manicomi, che è stata considerata una conquista di civiltà per il nostro paese diventando un fatto esemplare nel mondo, troverebbe difficoltà finanche maggiori di quelle incontrate a suo tempo, e questo perché nella convinzione semplificata di parte del popolo, almeno quello che si riconosce nei populisti, un tale evento costituirebbe una minaccia alla serenità dei cittadini comuni e probabilmente, anche se poi l’esperienza ha dimostrato il contrario, quella legge non avrebbe attuazione.
L’irrompere della globalizzazione è stata alla base della destabilizzazione di queste democrazie, inclusa la nostra. L’obbiettivo del malcontento, della rabbia, dell’astio da parte delle fasce più deboli delle società sono tutti i soggetti che vengono identificati con l’establishment che ha voluto, o almeno non ha regolato, tutto questo. Da qui la volontà delle nascenti forze populiste di contrapporre a quel mondo aperto un mondo chiuso, nazionalista, protezionista, con modelli come Trump in America: “America first”; le simpatie verso il nazionalista Putin in Russia o verso la Le Pen in Francia, il che rivela anche tutto l’anacronismo della vecchia divisione tra destra e sinistra.
Queste contraddizioni i populisti le hanno coltivate proprio montando il rancore di gran parte delle masse contro il potere democratico semplificato (la banalizzazione è il segreto del successo populista) nell’establishment, contrapponendo a chi considera un bene la globalizzazione, l’idea di un recupero sovranista di un presunto interesse nazionale da proteggere, considerando che prima di tutto vanno difesi e protetti i cittadini del paese, da noi gli italiani, con le loro abitudini e i loro interessi.
Questo determina un’ulteriore differenza tra forze democratiche e populiste. Proprio ascoltando il popolo, come rivendicava Conte, è emerso che queste ultime forze hanno raccolto ed implementato ulteriormente, l’odio verso la competenza e quella élite che la detiene, l’avversione verso qualsiasi classe dirigente che si ponesse al di sopra del popolo.
Questo concetto è espresso benissimo dal M5S con una delle sue parole d’ordine di maggiore efficacia mediatica: “Uno vale uno”. Quindi, almeno in teoria non ci si puo’ affidare alle competenze, all’esperienza, alla conoscenza (che non avrebbe protetto i suoi figli, nella loro considerazione). Ancor più perché i populisti nel loro storytelling, del mondo e per quello che ci riguarda dell’Italia, hanno contrapposto (anche ideologicamente e proprio con Casaleggio) alla realtà numerica, fredda ed oggettiva dei dati statistici la post-verità, che vuol dire la verità percepita. Per cui non conta se i crimini nel paese sono diminuiti o meno, contano le mie paure per quanto irrazionali fossero. Dal oggettività storica, razionale, economica, sociale, si passa alla soggettività irrazionale, al dato empirico, per cui tutto è rivedibile, nulla è certo tranne che, finché dura, la guida populista.
Questa differenza è proprio nella valutazione oggettiva dei fatti storici. Per i democratici la storia va interpretata, analizzata, cercando poi di modificarne il corso per aumentare quegli elementi di libertà individuali e collettive, per avvicinare le diversità della società cercando di creare un’osmosi che renda più solido e vivibile il consesso sociale. In tal senso le forze democratiche, chi più o chi meno, considerano importante la diversità che, come ricordava in una sua opera l’antropologo Aime, è il fattore determinante del progresso culturale di una società. Questo spiega anche, insieme alla nostra storia, una certa indulgenza verso i fenomeni emigrativi.
Ovviamente, il concetto di pluralismo e diversità, quindi di complessità, contrasta nettamente con un’ideologia che enuncia che “uno vale uno”. Perché per i fautori della democrazia, questa deve favorire ed alimentare, come ricorda anche la nostra Costituzione, proprio la realizzazione individuale e poi collettiva degli uomini e delle donne. Per cui è inconcepibile l’uno vale uno, che oltre a delegittimare qualsiasi classe dirigente fa venire meno lo stesso presupposto di questo, ovvero il merito.
Per chi è democratico esiste una classe dirigente, che certo va rinnovata adeguata, esiste il merito, esiste la diversità. Il populismo non parla di individui e nemmeno di soggetti, bensi parla di un soggetto, visto indistintamente, che è il popolo, ogni diversità costituisce per questo popolo (sovranismo) un pericolo, una minaccia.
Naturalmente in questo rapporto tra popolo e populisti diventano essenziali le semplificazioni delle “parole d’ordine”. Chi non è contro alla corruzione? Chi non è favorevole a ridurre le tasse? Chi non è favorevole ad opporsi alle delocalizzazioni delle industrie? Il punto è come combattere la corruzione senza scardinare lo stato di diritto, come ridurre le tasse senza creare diseguaglianze, certo difendere le industrie, ma occorre non abbandonare per questo il consesso internazionale ed in particola l’euro e l’Europa. Ma su tutto questo, la prova del governo suonerà decisivo anche sul futuro, almeno in Italia, della loro ideologia.
Ulteriore elemento di scontro, figlio dell’Uno vale uno, determinato dal riconoscimento dato alla post verità è il confronto sul valore della scienza. La diversità è profonda e fortemente ideologica. Le conquiste della scienza sono state forse uno dei punti principali di successo delle democrazie da almeno un secolo a questa parte. Il vaccino è stato lo strumento che ha salvato milioni di vite, specie dei ceti più poveri, avvicinando le quote di benessere tra quelle che erano le differenti classi sociali, lo sviluppo tecnico ha favorito la possibilità di conoscenza e di partecipazione dei cittadini, un tempo esclusi da ogni informazione e spesso anche dalla possibilità di avere una sia pur sommaria acculturazione. I trasporti sono cambiati avvicinando i popoli, rendendo più semplici, rapidi ed economici gli spostamenti delle persone.
La diffidenza verso le classi dirigenti, non solo quelle squisitamente politiche, il diffidare dal valore degli esperti, ha rimesso in discussione conquiste che apparivano indubitabili, fino alla creazione di veri e propri movimenti anti-vaccino e nelle forme più isteriche alla costituzione di gruppi che mettono in discussione finanche conclamate realtà storiche (si è arrivati a negare che ci sia mai stato l’allunaggio, oppure a negare l’esistenza dei campi di sterminio nazisti).
Come sommariamente si è potuto denotare, le differenze ideologiche sono diverse, ma a sovraintendere tutto questo vi è un approccio, forse in ogni caso irrazionale. Da una parte l’eccesso di ottimismo e dall’altra l’assoluta diffidenza verso tutto e tutti e il pessimismo.
Confesso che mi seduce di più la positività direi “illuminista”, di chi aspira ad un mondo aperto, che dà, anche epidermicamente, il senso della luce, dell’aria piuttosto che un mondo chiuso che suscita l’immagine dell’oscurità, del soffocante, anche se certamente dà, allo stesso tempo, il senso della protezione. Lo psicologo Recalcati direbbe che la crescita, l’evoluzione individuale e quindi di un popolo passa in vero, proprio dall’uscire verso il mondo assumendosi responsabilità anche a costo di rischi ed errori. In questo senso emerge dunque un’ulteriore differenza tra l’idea di protezione del popolo e quella di emancipazione del popolo e degli individui che che lo compongono.
E questo innesca un’altra differenza che contrappone la semplificazione (rappresentata dal sentimento popolare) e la complessità (che sarebbe considerata di élite). La semplificazione è sempre una buona cosa ma a condizione che non scavalchi la realtà delle cose e della vita delle persone. Se ne sta accorgendo Trump, che pur godendo di congiunture economiche favorevoli (la ripresa, finalmente) vede quello che lui ha considerato popolo come qualcosa di diviso e non uniforme. Si pensi ai dazi doganali sull’alluminio e l’acciaio, che stanno scuotendo e preoccupando anche molte imprese americane che gli sono state vicino, si pensi alla querelle sul diritto al possesso di armi, con il tasso di morti innocenti che quasi settimanalmente determina, che sta inducendo tanti ragazzi, mamme e papà a manifestare contro di lui, dopo magari averlo sostenuto nel voto.
All’utopia dei democratici, di un mondo globalizzato ed esultante, si oppone ora l’illusione populista di poter rappresentare il popolo, dimenticando che essi non rappresentano che, semmai, il rancore del popolo, un rancore da loro aizzato e spesso determinato, che è cosa ben diversa.
Se un tempo uno di destra, come diceva Pasolini, lo riconoscevi dagli occhiali scuri e la giacca di pelle ed un di sinistra dall’eskimo e i capelli lunghi oggi un populista lo riconosci dalla rabbia, dal pessimismo e dal disincanto verso tutti ma anche dal fuoco quasi religioso con cui sostiene di opporsi all’establishment, un democratico lo riconosci dall’essere positivo (a volte anche troppo), dal battere sulla realtà dei dati, dalla fiducia nell’Europa, nelle opportunità offerte dalla globalizzazione, dal suo cercare costantemente di essere politically correct, retaggio (temo sbagliato) di una tarda sinistra.
Entrambi partono da una premessa che va corretta, una visione eccessiva e non realista del dopo caduta dei blocchi. La cosa paradossale è che i populismi italiani, specie quello di Grillo, ha costruito la sua fortuna sfruttando per decenni l’antiberlusconismo, che era teso proprio al contrasto di colui che era stato il precursore del populismo in Italia con le sue parole d’ordine: “Meno tasse per tutti”, “A scuola la regola delle tre i – Impresa, Inglese ed Internet”, colui che era riuscito a canalizzare quella insofferenza verso la partitocrazia che era maturata fin li dalla fine degli anni di piombo e che ricordava Edmondo Berselli in un suo articolo che abbiamo riproposta di recente nel nostro sito.
Quello di oggi, che si accinge, vedremo con quali effetti, a governare il Paese, è il frutto di un parricidio, piaccia o no agli attuali interpreti di quel populismo, di quella antipolitica.
Nicola Guarino