COVID-19, i bambini ti guardano.

Il bel contributo di Valerio Cappozzo, Assistant Professor of Italian e Direttore del programma di Italianistica dell’University of Mississippi (U.S.A.). «Bisognerebbe ascoltare e imparare a intendere i messaggi dei bambini per capire meglio, specie in momenti drammatici come questo, che cosa stia succedendo.» Per la rubrica Tempi di Covid-19 #iorestoacasa.

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i Bambini ti guardano Altritaliani
Disegno di Elda, Ph. Valerio Cappozzo

Una delle prime cose che mi ha colpito dell’America è che tutto, ma proprio tutto, è “Made in China”. Tavoli, bicchieri, vestiti, le buste del supermercato, le tende e i giocattoli. Mia figlia, quando aveva cinque anni, finendo di bere il suo bicchiere di latte, lesse nella trasparenza del vetro: “Made in China»” e mi chiese perché fosse tutto “Made in China”. La sorella, che oggi ha cinque anni, mentre disegnava con un inusuale vigore fino a spuntare il pennarello verde, ha rappresentato con più evidenza di quanto possano fare mille parole il reticolato che il “virus cinese”, così definito dal presidente degli Stati Uniti, ha stretto intorno a tutti noi.

Come suggeriscono i film neorealisti, dove proprio i bambini sono il simbolo della speranza, bisognerebbe ascoltarli e imparare a intendere i loro messaggi per capire meglio che cosa stia succedendo. Mi vengono in mente I bambini ci guardano, una delle pellicole che ha segnato il cambiamento del cinema italiano, la concentrazione sul dramma della gente visto attraverso Pricò, un bimbo di cinque anni che assiste, capendo tutto nonostante la dissimulazione degli adulti, il disfacimento familiare, sociale, epocale. O il finale di Roma città aperta, dove la giovanissima brigata torna sconsolata verso Roma dopo l’uccisione di Don Pietro (Aldo Fabrizi). O ancora Ladri di biciclette che in chiusura mostra la stretta di mano del piccolo Bruno al padre, Antonio Ricci, restituendo quello che per tutta la durata del film è mancato, la fiducia incondizionata.

I bambini ti guardano-Altritaliani
Pricò (Luciano De Ambrosis) in una scena del film « I bambini ci guardano » (Vittorio De Sica, 1943)

Ma i piccoli non trovano posto nel lungo racconto della storia, se non in qualche frase quando vengono trucidati, segregati, o trafficati; non rimane documentata la realtà vissuta con i loro occhi. E se non ne troviamo traccia è perché i bambini usano grammatiche diverse da quelle imposte dalla logica degli adulti, di fronte alla quale il loro linguaggio sembra non valere nulla, essere solo un blaterare di sensazioni, impressioni che attraverso la maturazione potranno essere espresse correttamente. Invece no. Andare avanti nel cammino della vita comporta una diminuzione drastica della spontaneità e un progressivo senso di repressione delle sensazioni, dei sentimenti che devono, per essere espressi, passare al vaglio di categorie razionali e riconosciute.

Poi basta un disegno, un sorriso, uno sguardo, una corsa a braccia alzate per riproiettarci con energia verso quel mondo iniziale che sentiamo perduto, remoto, evaporato. Di fronte ai bambini, oltre a una tenerezza che può essere sconfinata, proviamo protezione, calore che emaniamo attraverso la voce rauca dell’adulto, ma perdiamo – soprattutto in momenti drammatici come questo che stiamo vivendo – la possibilità di considerare loro, e non noi, i custodi naturali dell’onestà umana, dell’integrità morale ed espressiva.

E una donna che stringeva un bambino al seno disse:
“Parlaci dei Figli”.
 
E lui disse:
I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la Vita
ha di se stessa.
 
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi.
E sebbene siano con voi, non vi appartengono.
 
Potete dar loro il vostro amore,
ma non i vostri pensieri.
 
Perché essi hanno i loro pensieri.
 
Potete ospitare i loro corpi, ma non le loro anime.
 
Perché le loro anime dimorano nella casa dei domani,
che voi non potete visitare, nemmeno in sogno.
 
Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercare
di renderli simili a voi.
 
Perché la vita non procede all’indietro,
né indugia nel passato.
 
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce
viventi, vengono scoccati in avanti.
 
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito
e vi tende con la Sua potenza affinché le sue frecce
siano veloci e vadano lontano.
 
Affidatevi con gioia alla mano dell’Arciere
 
Perché come ama la freccia che vola,
così ama la fermezza dell’arco.

In questa poesia dal titolo Sui figli, contenuta nel libro Il Profeta del 1923, lo scrittore libanese Khalil Gibran (1883-1931) cambia il punto di vista dell’adulto che si considera il creatore di una creatura che in realtà è essa stessa a creare la possibilità dell’adulto di imparare, di fare esperienza profonda della vita. Tratteggia in questi versi le caratteristiche dei piccoli profeti di cui noi dovremmo saper interpretare i messaggi, e non viceversa.

Oggi, in questo periodo storico così tremebondo in cui la parola “futuro” suscita più di prima incertezza, negli occhi dei bambini si possono scorgere le più veraci riflessioni di questo lungo e globale periodo di reclusione. Dai loro gesti, dalle loro parole come dai disegni, si possono apprendere con più chiarezza i nostri stati d’animo, le nostre paure. Per rendercene capaci dovremmo saperci trasformare, decrescere, accantonare per un attimo le convinzioni, le stratificazioni di senso che l’esperienza ci ha dato e ridirigerci verso quel momento iniziale di vita. In questo modo forse potremmo percepire meglio il nostro presente, trattarlo con maggiore cura senza vergognarci dei moti dell’animo che ci portano al pianto, allo sconforto e, a volte, al voler gridare la verità di cui spesso non ricordiamo neanche più come si pronuncia.

Egon Schiele, « La morte e la fanciulla », 1915

I resoconti delle molteplici pandemie di cui è piena la storia, non ci raccontano nel dettaglio come i bambini abbiano affrontato o percepito il male che imperversava. Dalla Peste di Atene (430-426 a.C.), descritta da Tucidide, passando per la Peste di Giustiniano (541-542 d.C.) raccontata da Giovanni da Efeso e da Procopio di Cesarea, alla Peste nera (1347-1353) resa in letteratura da Giovanni Boccaccio e presente in diverse cronache come in quella di Giovanni Villani, per arrivare alle epidemie che hanno interessato direttamente i più piccoli, come la Peste dei bambini (1360-1363) o le tante che si sono alternate tra il Cinquecento e il Novecento, la voce dei più piccoli non è stata conservata.

Ma se non sappiamo come i bambini abbiano veramente vissuto le pandemie e la sensazione anzitempo della fine, in fondo è perché la loro storia non è narrabile come facciamo con la nostra. Non lo è – lo abbiamo detto – perché usano grammatiche diverse per esprimere le loro sensazioni, le loro idee. Ciò che non può essere segnato su carta o consegnato agli archivi del tempo, in questo caso, ha un valore in realtà supremo, e sta alla capacità dei grandi il saperlo notare, codificare e così renderlo comprensibile. In questo periodo di isolamento forzato, più alto del rischio di essere contagiati è per loro quello di non essere ascoltati, di non essere considerati parte attiva e cosciente di tutta questa situazione.

Anche qui negli Stati Uniti le scuole sono chiuse da qualche settimana, ma l’urgenza ora non è di certo la sospensione delle attività, che grazie a un’efficiente struttura telematica è stata affrontata, ma il problema della carenza di cibo per tanti bambini poveri in giro per il paese che riuscivano a mangiare solamente nelle mense scolastiche. Nella scuola delle mie figlie, come al supermercato o anche all’università, si fa continua donazione di alimenti destinati alle numerose famiglie senza mezzi, ma ora è tutto bloccato.

Il “virus cinese”, così denominato dalla Casa Bianca, sta sollevando un problema che non sembrava possibile nella nazione simbolo del capitalismo occidentale. Una mancanza, quella del cibo per i piccoli, che ha radici nel sistema velenoso di questa società che si è sempre vantata dell’eccellenza economica, politica, militare, ma alla quale sono bastati i primi aliti di questo vento pandemico per rivelare il proprio vero volto, che non ha niente a che fare con la fisionomia di un cinese.

Valerio Cappozzo

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Valerio Cappozzo
Valerio Cappozzo è professore di letteratura italiana all’University of Mississippi e direttore del programma di Italianistica. Specializzato in filologia materiale e critica letteraria è autore del "Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari" (Leo S. Olschki 2018) e di vari saggi sulla poesia medievale. Studioso anche di poesia italiana moderna e contemporanea è membro del comitato scientifico di diverse collane e riviste letterarie e filosofiche, della Fondazione Giorgio Bassani, presidente dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, vice-presidente dell’American Boccaccio Association e co-direttore della rivista «Annali d’Italianistica».

2 Commentaires

  1. Come sembra bello e strano sentire la voce di un uomo, e non più di una macchinetta che ripete le frasi convenute e memorizzate.
    Un uomo, che parla di bambini, come di persone vere.
    Grazie.

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