Ha ragione il Presidente Mattarella a dichiararsi esterrefatto perché in Italia, dopo i negazionisti del Covid 19, oggi esistono quelli che negano il cambiamento climatico.
Si tratta di un dato di fatto che non può essere materia di confronto ideologico. I danni mostruosi che sta subendo il nostro paese (e il mondo intero), non sono figli di una cultura di destra o di sinistra, gli errori e le sottovalutazioni anche politiche di un fenomeno non improvviso sono frutto trasversalmente di tutti i sistemi e ordinamenti politici. Ci si può dividere sulle ragioni di questo cambio climatico che è palpabile anche per noi non climatologi ma comuni mortali, certamente il tema della sopravvivenza del pianeta è un tema che deve unire e non dividere.
Domando a chi è della mia generazione: Ricordate qualcosa di simile cinquanta anni fa? Uragani improvvisi su Milano o giorni e giorni di caldo con temperatura tra i 45 o il 47 gradi nel sud Italia? Personalmente ricordo che ci si divertiva a leggere di temperature estreme sui quotidiani di allora e si scopriva che nientedimeno La Mecca aveva 42 gradi e noi a sentirsi fortunati di vivere nel temperato Mediterraneo.
Lo scorso anno invece Parigi ha registrato 41 gradi record assoluto per la città. Ma del resto la desertificazione delle aree subsahariane dice tanto di questo cambio di clima.
Il fenomeno di tropicalizzazione del Mediterraneo che spiega le sconcertanti e impreviste condizioni meteorologiche attuali, ha ulteriormente diviso in due il nostro amato stivale.
Bufere con venti a 217 chilometri orari hanno portato via interi boschi, distrutto vigneti e campi agricoli seppellito le strade delle città sotto il peso di alberi che dopo secoli di vita hanno ceduto di schianto a qualcosa di assolutamente nuovo e anomalo. Danneggiato il Castello Sforzesco a Milano così come il fuoco ha incenerito a Palermo una bellissima chiesa del Quattrocento.
A morire non sono solo le campagne, i boschi, i campi agricoli, le nostre rive un tempo pescose, a morire ormai sono le città, divorate dal fuoco, annegate dalle acque.
La cronaca tragica di questo mese di luglio e non solo in Italia (si pensi alla Grecia, la Spagna ma anche alla lontana Cina o al Canada, per citare solo qualche esempio), porta a una riconsiderazione geopolitica che dovrebbe imporrebbe una maggiore e più solidale considerazione sulle sfide prossime dell’umanità. Che fine ha fatto il trattato mondiale di Parigi? Davvero vogliamo ridiscutere la direttiva europea sull’obbligo di fermare la produzione di veicoli inquinanti entro il 2035?
Non si può escludere, date le straordinarie capacità adattive della nostra specie, che magari ne verremo fuori anche questa volta, ma per farlo occorre radicalmente modificare il pensiero e la comunicazione politica. Occorrono visione e proiezione sul futuro anche per cercare di prevenire e governare i prossimi sconvolgimenti storici. Serve una rapida presa di coscienza dei cittadini del pianeta, chiamati anche a fare la loro parte specie in materia di consumi e di riciclo dei materiali anche per favorire un’economia circolare che limiti il consumo di materie prime, peraltro sempre più scarse.
Dopo oltre quarant’anni di fenomeni emigrativi causati prima da conflitti politici e bellici, poi dalla trasformazione del mondo, con la fine della politica dei blocchi, e infine con l’intervenire di fenomeni drammatici come la siccità, ormai una costante per vaste aree del mondo proprio a seguito dei cambi climatici, non si può più ragionevolmente parlare di emergenza immigrazione, si tratta di un fenomeno stabile e che va crescendo anche per l’assenza di soluzioni a questi fenomeni globali.
Gli esodi sempre più massicci, come sempre e da sempre, sono determinati in primo luogo dalla trasformazione del clima e dalla conseguente trasformazione orografica dei suoli, le crisi umanitarie che possono essere affrontate solo trasversalmente e da istituzioni sovranazionali. Il che impone anche una trasformazione dell’interpretazione interna giuridica delle convenzioni e dei trattati internazionali.
Non è più il tempo della retorica sui blocchi navali e sull’aiutiamoli a casa loro. L’esodo è un fatto e occorre misurarsi con la realtà, non con altro. In tal senso, ad onor del vero, in Italia la nostra premier ha sul tema radicalmente cambiato opinione rispetto a qualche tempo fa.
Cercare di risolvere temi globali, che attengono all’insieme del mondo, con soluzioni, a volte anche giuste e sensate, ma solo nazionali, è segno di miopia politica e di mancanza di senso della realtà.
Limitandoci ad una visione solo parziale del fenomeno, possiamo dire che le masse in fuga dall’Africa o da depresse aree mediorientali, non possono essere arginate o peggio respinte, vanno semmai governate e, per fare questo, penso all’Europa, ma il tema investe l’insieme delle Nazioni Unite, non ci si può affidare unicamente alla sensibilità di qualche nazione componente, occorrono regole condivise e una disponibilità dell’intera comunità europea.
Ciò impone in Europa: il superamento di mezzi tecnici quali il potere di veto ed un’accelerazione nel processo di unificazione del continente. Gli egoismi sovranisti di alcuni paesi, le furberie di taluni altri paesi, rischiano col passare vano del tempo conseguenze che dire drammatiche è un puro eufemismo.
In particolare, a rendere di tutta evidenza il dramma che è in corso basti il solo dato che l’umanità dalla sua nascita al 1920 era arrivata ad un miliardo e trecento milioni di abitanti, nel solo ultimo secolo la popolazione mondiale è cresciuta fino a sfiorare gli otto miliardi di abitanti.
Un dato che imporrebbe di rivisitare tutta la filosofia demografica fin qui difesa e sostenuta, sull’importanza della procreazione, di garantire la crescita e lo sviluppo demografico, una cosa che il pianeta non può più sopportare e permettersi. Si tratta di un gatto che si morde la coda, per contrastare la fame di una tale popolazione, tema per altro della recente riunione della FAO a Roma, sotto la presidenza italiana, si sono prodotti qualcosa come 15 miliardi di polli, mentre sono cresciuti e industrializzati allevamenti di ovini, bovini e suini, il tutto in condizioni, il più delle volte, assolutamente insane e non ecologiche, ma la stessa agricoltura imporrebbe un saccheggio di suolo a squilibrio ancora una volta dell’ecosistema.
Si tratta di scelte a volte dolorose ma è evidente, fuori da ogni ipocrisia, che i prodotti della terra non sono più sufficienti per l’intera popolazione umana. Va ripensato tutto: dall’arredo e dai giardini delle città, Milano dimostra che occorrono ormai altri tipi di piante ed alberi se si vuole dare del verde, quelli storici sono stati spazzati via in pochi secondi di tempesta.
Vanno ricostruiti i corsi di acqua e le rive della infinita costa italiana, per tornare ai problemi di casa nostra, questo anche a costo di togliere strade e abitazioni costruite con troppa superficialità, speso speculando sull’assenza o la carenza, specie nel sud, di piani regolatori.
Occorrono pene durissime nei confronti dei tanti piromani che forti della calura eccezionale e spesso anche dei forti maestrali, hanno in Puglia come in Sicilia, Calabria e Sardegna, come in Grecia, innescato devastanti incendi.
Per l’Italia in particolare occorre un lavoro culturale ed educativo attraverso le scuole ma anche i social e i media per creare un sentimento di difesa diffuso dei nostri territori, di un patrimonio paesaggistico, agricolo e culturale di inestimabile valore e che è la base stessa della nostra storia, delle nostre tradizioni. Perché sicuramente la battaglia contro il cambio climatico, per l’organizzazione delle nostre risorse, per uno sviluppo di nuove strategie tecnico-scientifiche è una battaglia che richiede un impegno complessivo in primis dei “grandi della terra” ma è anche una battaglia culturale, che richiede una maturazione delle coscienze civili, che riporti ad un amore per i propri luoghi, per il territorio con la difesa dei suoi requisiti e caratteristiche, una passione per il vivere del proprio tempo senza del quale nessuna battaglia potrà essere vinta. Si tratta di accelerare su questi temi per i quali, viva Iddio, le nuove generazioni sembrano fortemente motivate. Non sarebbe un male se, almeno per una volta, questi ragazzi fossero ascoltati.
Sul piano operativo qui nel vecchio continente, occorre un coordinamento europeo per la gestione del territorio, come in Francia lo scorso anno, quando innanzi ad incendi ormai fuori controllo arrivarono protezione civile e pompieri da gran parte dell’Europa. Questo impone una riconsiderazione anche tecnica sui sistemi del monitoraggio e controllo dei territori e ripeto una ben più agile e capace possibilità di prendere decisioni senza dover attendere ogni volta summit della Commissione europea, realizzando finalmente istituzioni europee capaci di decidere anche a maggioranza e senza l’unanimità.
Anche perché paradossalmente i cambi climatici si stanno dimostrando più veloci delle stesse scelte politiche mondiali ed europee del terzo millennio.
Nicola Guarino