Immaginiamo che in tutti questi anni la sua anima ci abbia sorvolato, legata al filo di un palloncino rosso, come il colore della sua sciarpa.
Il suo genio non ci ha mai lasciati, né abbandonati: vent’anni sono tanti per poterlo dimenticare o per ritrovare le sue tracce dentro e fuori di noi. Vent’anni fa Federico Fellini lasciava questa terra. Un critico allora scrisse che adesso avrà più tempo per dirigere film, potrà scegliere nuovi sceneggiatori mettendo all’opera Cervantes, potrà operare su macchine per la scenografia utilizzando il genio di Leonardo, e per la fotografia e i colori Michelangelo, Tiziano e Picasso, suo prediletto, per le musiche ci sarà sempre Nino Rota: chissà quanti film avrà girato finora al cospetto di Dio.
Quanto a noi ci lascerà per sempre lo stupore di quelli che vanno in barca per vedere da vicino il maestoso Rex di “Amarcord”; e sempre di quel film il suonatore cieco di fisarmonica dalle note tristi; e il bambino curioso con un padre irascibile e socialista, in pieno fascismo; e la Gradisca e la tabaccaia tettona, orgogliose e fiere delle proprie forme. E siamo dentro gli occhi arguti di Casanova (Sutherland) e nel viso angelico di Marcello Mastroianni incantato davanti alle grazie di Anita, in quella Fontana di Trevi candida nel bianco e nero. E voliamo spinti su quell’altalena in braccio allo Sceicco bianco col viso giovane di Alberto Sordi, e in quell’auto che fa il gestaccio agli operai sulla strada dei Vitelloni; e siamo dentro la tromba che suona Zampanò (Antony Quinn) e nelle scarpette di Gelsomina (la sua Giulietta Masina) de “La strada”: saranno gli acrobati di piazze o i circensi a tenerli in vita per sempre. Siamo il resoconto finale di “Otto e mezzo” nel quale il geniale regista si confronta con la giostra che da un senso ad ogni cosa. I suoi sogni e la sua ricchezza saranno patrimonio che altri autori potranno pure rinverdire.
Di omaggi, in questi decenni, il genio felliniano li ha ricevuti, soprattutto in celluloide, da Scorsese a Woody Allen, da Kusturica a Tim Burton: la conclusione di “Big Fish” di Tim Burton ci rimanda al carosello finale di “Otto e mezzo”. Nel rumoroso e onirico “Underground” Emir Kusturica ci fa volare sulle ali di quella sposa; “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino ci richiama il crepuscolo senza esiti della Dolce Vita romana; e la lode circospetta e bizzarra è nella fuga finale da questa vita inseguito dai gendarmi come in Pinocchio: è il film “Che strano chiamarsi Federico”, l’appassionante ricordo del suo amico e collega Ettore Scola, che lo ha presentato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia.
Federico Fellini ci aveva lasciati pochi mesi dopo esser stato premiato da Marcello Mastroianni con l’Oscar alla carriera, la sua quinta statuetta ricevuta dall’Academy dopo le quattro vinte per il miglior film straniero: “La strada” (1954), “Le notti di Cabiria” (1957), Otto e mezzo” (1963) e “Amarcord” (1974). E fra i tanti meritatissimi riconoscimenti la Palma d’Oro per “La dolce vita” (1960) e il Leone d’Oro alla carriera tributatogli dalla Mostra di Venezia nel 1985.
Una vita da sogno, impareggiabile; mentre noi saremo ospiti invisibili de “La nave va”, nonostante il futuro possa incombere invadente come la sfera scaraventata nella stanza di “Prova d’orchestra”.
Armando Lostaglio
(CineClub “V. De Sica”)