Ho sognato una strada, e quella strada era rue Nicolas Appert, a Parigi, nell’XI arrondissement. Non è un posto da frotte di turisti. È un luogo dove si può cercare, nel silenzio di strade deserte, uno degli indirizzi di casa che Simenon attribuisce a Maigret: il 132 Boulevard Richard Lenoir. E da lì scendere sul boulevard che ricopre, in parte, il canale Saint Martin, in direzione di Place de la Bastille e del porto dell’Arsenale, dove il canale riemerge e si tuffa nella Senna e Parigi sembra, per qualche attimo, in certe mattinate luccicanti di sole, una città di mare. Ma prima di arrivare alla Bastille, sulla destra c’è una stradina ancora più grigia e silenziosa. Si chiama Allée Verte, memoria di tempi campagnoli, ma di verde non ha più niente, solo case su case catrame e cemento, e cosa sei venuto a cercare qui? Niente e così sia.
A metà dell’Allée Verte, sulla sinistra, c’è rue Nicolas Appert, una transenna, due poliziotti appoggiati alla loro automobile, il numero dieci: la redazione del settimanale Charlie Hebdo. Qui, il 7 gennaio 2015, in una mattina in cui Parigi si era svegliata nella nebbia, in un bicchiere di acqua e di anice, c’è stata una visita inopportuna. E da lì i morti (e poi le lacrime e le rotte parole di conforto e tutto il resto che so, che sapete).
Ora è un sabato, e sono arrivato qui, in visita, su una bicicletta. I poliziotti mi fanno segno di non scattare fotografie, si può fare ma dall’altra parte della strada, dove c’è un po’ di gente (chi manda un bacio, chi getta un fiore. Nessuno parla oppure sì ma a voce bassissima). E me ne vado per le strade tristi scure silenziose (vedo dietro le vetrate affacciarsi gemme e rose) dove ci sono mille scritte. C’è la prima pagina del Canard Enchaîné (altro storico settimanale satirico francese) dopo la strage, con quel titolo geniale: “Allez les gars, ne vous laissez pas abattre!”.
Un gioco di parole. Ne vous laissez pas abattre vuol dire “non scoraggiatevi”, “non buttatevi giù”; ma anche, più alla lettera, non fatevi abbattere, non fatevi uccidere. Una tipica battuta dei francesi quando servono da bere a qualcuno che appare un po’ recalcitrante: “Faut pas se laisser abattre!”, non bisogna buttarsi giù! Bicchiere pieno e via a ridere.
“L’heure est tragique, rions”, è il titolo dell’editoriale del Canard. L’ora è tragica, ridiamo. Un gioco: ma io non lo sapevo, che era una partita. In taglio basso, il titolo “A mourir de rire”: da morir dal ridere. Anche il Canard è stato minacciato; è il vostro turno, ha scritto qualche scemo, e stavolta non sarà con il kalashnikov (ha aggiunto lo scemo) ma a colpi d’ascia. Lascia l’ascia e accetta l’accetta, avrebbe risposto Jacovitti. Perché, davanti agli scemi, per quanto violenti e storditi siano, occorre conservare l’ironia e la voglia di ridere e la santa voglia di vivere, è chiaro.
Non dico di fare come San Lorenzo, che messo sulla graticola ardente, si era permesso di dire ai suoi carnefici: “da questa parte sono cotto, giratemi dall’altra”; ecco, magari sarebbe pretendere troppo, e poi lui poteva contare sull’aiuto di Dio. Ma è chiaro che se ci mettiamo a fare il muso, hanno vinto loro, gli scemi con il kalashnikov.
Oltre alla prima pagina del Canard nelle strade grigie e silenziose ci sono i fiori e le matite spezzate e mille scritte. Nell’Allée Verte, dove i due scemi armati di kalashnikov, nella fuga, hanno incrociato la macchina della polizia, ce n’è una in italiano, con tanto di autori della citazione : “Morire per delle idee (F.De André/G.Brassens)”. Proprio poco distante dalle parole di Paul Eluard sulla libertà («Je suis né pour te connaître / Pour te nommer»). I disegnatori di Charlie Hebdo sono morti per l’idea della libertà?
Forse sì, ma se sono diventati degli eroi, è stato davvero loro malgrado. E poi la canzone di Brassens, tradotta in italiano da De André, secondo me diceva tutto il contrario: e cioè che non ne vale la pena, di morire per delle idee. “Morire per delle idee, d’accordo, ma di morte lenta” (e aggiungeva: “gli apostoli di turno / che apprezzano il martirio / lo predicano spesso / per novant’anni almeno”). E ancora: “e voi gli sputafuoco, e voi i nuovi santi, crepate pure per primi – noi vi cediamo il passo”. Brassens, a suo tempo, per queste parole fu accusato di qualunquismo. Ho l’impressione che chi ha scritto quelle parole sul muro la canzone non l’abbia capita del tutto. Ma non importa, ora tutto questo è lontano e poi si sa, le parole sono fatte per fare mille giri e posarsi là dove non te le aspetti, proprio come i fiori sparsi sulla strada.
Leggo i nomi delle vittime e tra quei nomi quello del vecchio Georges Wolinski, ebreo mezzo polacco, mezzo tunisino, mezzo italiano e mezzo francese (fanno troppi mezzi, lo so), che io, ragazzo, leggevo su Linus, con le sue donne esagerate che indispettivano molti (a destra perché considerate oscene, pornografiche, immorali. A sinistra perché contrarie a certi stereotipi presunto-femministi, quindi per gli stessi identici motivi). Wolinksi non amava i clichés, amava le donne. E voleva vivere, non morire, per la libertà. È come se fosse un mio amico, anche se non ci siamo mai conosciuti. E quindi è a lui che porto un bacio – ma non mio: è un bacio femminile, che prendo a prestito, ed è il più bel dono che io possa fargli.
E adesso che sui miei quaderni di scolaro anch’io ho scritto il tuo nome (libertà), comincio a stare un po’ male, capisco che è ora di andarmene. Dal cielo diventato scuro potrebbe forse cominciare a piovere. Les roses étaient toutes rouges – ha scritto Verlaine che ha abitato da queste parti – ma l’edera tutta nera. Mourir pour des idées, d’accordo, perché no, meglio morire in piedi che vivere in ginocchio, certo, è vero anche questo, anche perché morir si deve. Ma farlo così, che brutto scherzo ragazzi.
E nella mia testa l’eco interminabile: “è l’Islam”, grida qualcuno, “e bisogna avere il coraggio di dirlo!”; ma sì, perché no, però l’Islam è una cosa grossa e in una cosa grossa ci sta di tutto, no? La meraviglia e l’orrore, così come per noi, da quel Cristo in cui io non credo nemmeno un po’, viene una cosa grande dove ci sono le cattedrali e gli angeli che fanno morire d’amore e d’angoscia, e però anche l’Inquisizione e i pazzi fondamentalisti e un sacco di cose bruttissime. “No, basta, brutto fascista, l’Islam non c’entra niente”, mi interrompe l’altro (anche François Hollande l’ha detto. Ah be’, se l’ha detto lui). Può darsi, perché no. Eppure gli scemi con il kalashnikov lo hanno rivendicato, l’Islam, hanno gridato il nome di Allah, no? E certi cattivi maestri che più o meno a denti stretti giustificano i massacri, e che dicono che quelli di Charlie se la sono cercata, di quel mondo si considerano i legittimi interpreti, non è forse così? E come è possibile tacere sulle inaccettabili, intollerabili condizioni delle donne in certe società che proprio ai valori dell’Islam affermano di fare riferimento?
E subito, nella mia testa, ricompare la voce del primo, “non è vero, brutto fascista che non sei altro, l’Islam non c’entra niente… E allora i morti causati dai bombardamenti occidentali?” (quei ragionamenti alla Massimo Fini, professione “uomo contro”, professione “tutti gli altri non capiscono una mazza e invece io sì”). Può darsi, perché no; però questi qui sono andati ad ammazzare dei disegnatori, dei vignettisti, gente di sinistra che per di più è sempre stata ultra-pacifista che più pacifista non si può. E a quanto posso capire io (cioè poco): il bersaglio degli scemi con il kalashnikov e dei tipi come loro non sono mica quelli che noi consideriamo, a torto o a ragione, i difetti della nostra civiltà.
No, il loro bersaglio, quello che li fa incazzare sono proprio le cose che a me sembrano le più belle e le più preziose, quelle che con tanta fatica abbiamo conquistato in capo a secoli e millenni. Una certa libertà di espressione; l’amore per l’ironia; il poter accettare il diritto ad esistere di cose od opinioni che magari non ci piacciono; l’idea che femmine e maschi abbiano assolutamente pari diritti e che una donna possa andarsene in giro come piace a lei, come le gira, con uno scafandro che la copre da capo a piedi oppure mezza nuda, e che possa pure provare piacere a farsi guardare dagli uomini se così le va.
Tutte cose che non sempre sono realizzate in modo perfetto, siamo d’accordo, ma che insomma più o meno fanno parte del nostro mondo e di cui non sarebbe male essere un po’ fieri e contenti. Insomma, restiamo ai fatti ragazzi miei, il fatto che un terrorista disgraziatissimo e criminale si proclami musulmano, islamista, non vi obbliga, non ci obbliga, a prendere una posizione univoca e definitiva su un miliardo e settecento milioni di persone (questo il numero stimato di musulmani al mondo) che manco sapete dove stanno di casa; ma non vi obbliga nemmeno a mettere dei cerotti e quindi a tacere il fatto che il suddetto terrorista abbia compiuto le sue cazzate gridando il nome di Allah. Insomma, non sempre bisogna mettere le cose dentro una casellina, non sempre quello che accade è conseguenza diretta matematica inevitabile e certissima di quello che è accaduto un secondo prima; non sempre il cuore di tenebra che c’è in noi e nell’universo mondo è riconducibile ad una causa “altra”, ad una causa prima. (“Il demonio”, per certi fedeli, “il capitalismo”, per gli ortodossi della sinistra durissima e purissima senza se e senza ma, e così via; ognuno, volendo, può trovare la causa di ogni male, la radice di ogni dolore in ciò che più asseconda i suoi stereotipi e le sue certezze).
Non cerchiamo certezze, ragazzi, perché se c’è una cosa davvero che porta poi all’orrore, è proprio quel dannato bisogno di avere certezze. Gli scemi con il kalashnikov (che, ci scommetterei, erano pieni di certezze) così come sono venuti, se ne sono subito andati e adesso siamo qui dove tutto è silenzio e le persone cominciano a partire, ed io con loro, e a pensarci che follia: che ragione c’era di morire così? Wolinksi, tu che amavi tanto le donne e ti piaceva metterti al tavolino dei bar, ai Deux magots o al Café de Flore a guardarle (e ti piaceva quando se ne accorgevano), dovevi proprio morire in questa brutta strada tra i palazzi, dove i turisti non verranno mai o forse adesso sì, e dove non c’è più traccia di niente, non c’è più sangue e non c’è più rumore e non c’è più nessun nemico?
Si tu n’as plus d’ennemi – ha scritto un poeta – c’est qu’il a vaincu.
Maurizio Puppo