In questo articolo la raccolta poetica «Blu» di Serena Maffia pubblicato da Marco Saya Edizioni che, attraverso il rovesciamento di certi canoni di scrittura femminile estrema – laddove la relazione madre-figlia è un nodo doloroso dell’autobiografia – propone la maternità come una bandiera che incentiva la propria creatività, restituendo al lettore un’autrice-madre-figlia, fiera e fragile, ma vera come l’esperienza raccontata.
Serena Maffia, calabrese trasferita giovanissima a Roma con la famiglia, è stata condirettore della rivista “Mosaico” Rio de Janeiro (Brasil) e direttore della rivista “Polimnia”; è docente di Creative writing, Organization shows e Metodologia della progettazione allo IED di Roma, Direttore artistico del CRS Centro Ricerca Spettacolo e Presidente del Centro Poesia di Roma.
Giornalista, è stata addetto stampa in Campidoglio del Presidente del Consiglio Comunale e di maggioranza, inviata per Rai3, Rai Educational con la trasmissione GAP, su Italia1 con il programma “Voglia”, sceneggiatrice e script analyst per la Medusa-RTI Mediaset.
Di lei sono stati pubblicati i romanzi “Sveva va veloce” (Roma 2009), “Le passioni di Ginevra” (Roma 2010), “Giangurgolo” (Reggio Calabria 2011), “Meglio grande” (Reggio Calabria 2012), « Edith Piaf, la leggenda dell’amore » (Roma 2013); le raccolte di poesia: “Il ragazzo di vetro” (Lucca 2005), “Sradicherei l’albero intero” (Roma 2006, – Premio Cultura Donna in Campidoglio – Premio Approdi d’autore – Premio Giuseppe Sunseri – da cui il Film-corto omonimo Regia Fabrizio Portalupi interprete Elisabetta Coraini), “Le carte volano” (Firenze 2011, – Premio Mons Aureus); le opere per il teatro: “Ma che bella compagnia” (Lucca 2002), “Lezioni di fotografia” (Roma 2003), “La casa di gesso” (Roma 2004) -Premio Cultura del Consiglio dei Ministri-, “Il giardino del mago” (Roma 2005), “Ilaria vuole” (Roma 2008), “Scheletri nascosti” (Roma 2008), “Il tirchio” (Roma 2008), “Processo a Jim Morrison” (Roma 2009), “Peace frog” su Jim Morrison (Roma 2011), “Ostinato e contrario” su Fabrizio De Andrè (Roma 2012), Adele Alba (Cagliari 2014).
Sue opere sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo e polacco.
Le ultime raccolte di poesia sono “Blu” edita da Marco Saya (Milano 2016) e “Roma mi somiglia” edita da Passigli (Firenze, 2017).
Conosco Serena Maffia da diversi anni, si può dire da quando era una bambina. Bambina prodigio, bambina già adulta anche da bambina, con quegli occhi spalancati sul mondo – che ora si ritrovano negli occhi della figlia – e la voglia di esplorare, di imparare, di stupirsi e ritrovarsi in quello stupore. I capelli e il volto di Madonna, sorridente ma con un velo di tristezza dentro, come se a rimuginare continuamente sull’esistenza e sulla consistenza delle cose fosse anche fatica e dolore oltre che gioia.
La sua biografia, così ricca, in un’età ancora molto giovane, la dice lunga sull’impegno e la realizzazione di tanti progetti che l’hanno vista, e la vedono tuttora impegnata in diversi ambiti artistici. Il suo capolavoro sembra però essere la figlia Ginevra, un capolavoro a cui dedicare poesie, belle poesie, poesie vere, cariche d’amore materno ma non solamente, cariche anche di riflessioni sullo scorrere del tempo e sulla nostalgia, sui desideri e sui credi, sull’amore universale che, passando dalla figlia, porta l’autrice ad amare il mondo stesso e la vita tutta e ad esprimere questi sentimenti attraverso l’arte.
BLU
Non vorrei dare la sensazione, raccontando il mio pensiero su questo lavoro in poesia, dal cortissimo ed emblematico titolo Blu, di Serena Maffia, di ritornare sull’annosa questione della diversità – se pur nell’assoluta equivalenza – della scrittura di genere, riflettendo anche su tale riscontro in poesia, che tanto e forse troppo è stato scritto.
Eppure un passaggio conviene farlo, è quasi inevitabile. Perché, questo libro, è incentrato sul rapporto – innegabilmente al femminile – madre-figlia, dove la madre-figlia-autrice è capace di far emergere, in molte delle sue sfaccettature, la dimensione peculiare delle vicende che lo generano, lo alimentano, lo contraddistinguono con tutta la forza e la valenza del suo esistere. Serena, andando a indagare tutta la gamma non solo dei sentimenti – che sarebbe abbastanza normale incentrare su questa sfera la riflessione – ma anche quelle, altrettanto vere e plurime, offerte dalla gestualità, dalla ritualità, dalla sincronia con cui si accompagna la storia del rapporto in questione, e che si perpetua nel tempo, se pur trasformandosi dalla vicenda vissuta nel momento a quella del ricordo, riporta il proprio essere madre inevitabilmente al proprio essere/essere stata figlia, il rapporto con la figlia a quello con la madre, in un concatenarsi di eventi e in un ripetersi di passaggi connaturati, spesso, nell’oggettività dei ruoli. E tutto questo ha valore, ha senso, può esistere solo in una scrittura femminile.
Del resto, non è un caso se, in un articolo del 1929 forse datato ma, tuttora, significativamente valido, intitolato Le donne e il romanzo, Virginia Woolf scriveva: “Se […] volessimo cercare di riassumere le caratteristiche della narrativa femminile oggi, potremmo dire che è coraggiosa, che è sincera, che aderisce a quello che sentono le donne. Che non è acida. Che non insiste sulla propria femminilità. Allo stesso tempo però i libri di una donna non sono scritti come li scriverebbe un uomo”. E questo, a mio avviso, può ritenersi vero anche per la poesia laddove, la sintesi immaginifica dell’incantamento pone accenti forti, regala istantanee e penetranti visioni di quadri e sentimenti a essi legati, con tutta l’energia e l’empatia che ne scaturisce, e che il lettore ben sa cogliere, ricollegando le vicende – come nel caso dei testi della Maffia – alle proprie.
Scritto, dunque, nel nome della figlia Ginevra – che l’autrice avrebbe voluto chiamare Blu, forse a ribadirne le vicine origini, le profonde radici nel rapporto con i colori di quel mare di Calabria che vide lei stessa nascere e crescere bambina – il libro si snoda come in una sorta di intreccio vitale, fresco e assolutamente positivo, di gesti e rituali, a cui sopra accennavo, che riproducono lo scorrere dei giorni scandendolo – dal risveglio al nuovo sonno – proprio con ciò che viene donato alla madre dalla figlia, nell’assoluta necessità di questi doni: mi cerchi nel letto per sentirti sicura/ […] amore stammi vicina, perché io/non senta mai la paura […]; […] capita che io sia bella/ma raramente/quando gli occhi si bagnano di figlia; […] che voce confortante/a rompere l’incanto della quiete[…] mi preparo all’abbraccio del mattino/a braccia tese verso la sua stanza/da quando c’è i soli cantano; […] e mi sbriciolo in madre/mi rimpasto di terra e di acqua/ritrovo me stessa più grande/in quelle piccole mani in cerca di baci […].
In questa direzione presa dall’autrice sta, certo, il rovesciamento di certi canoni di scrittura femminile estrema laddove la relazione madre-figlia è proprio un nodo dell’autobiografia e della scrittura, confortato da testimonianze che lo riassumono come un luogo fatto solo di conflitti e sofferenza, che hanno poi dato origine al modello dell’annullamento del proprio io, senza spazi ulteriori per desideri, progetti, ambizioni…
La Maffia rifugge dell’idea di maternità come trappola biologica e, al contrario, ne fa una bandiera che incentiva la propria creatività consapevole e ne detta le regole per rielaborazioni poetiche pienamente soddisfacenti, ne dispone la cifra stilistica colloquiale e quotidiana, ricca di immagini metaforiche, di simboli archetipi che restituiscono al lettore una madre fiera di esserlo, eppure impaurita da questa fierezza che è al tempo stesso fragilità, una madre che si sente appunto essa stessa figlia.
Ed è l’occasione per riappropriarsi dei ricordi legati al proprio essere figlia, al legame con la propria madre, rinverdito da quello con la propria figlia grazie alla mediazione della poesia stessa: Ritrovare i gabbiani/negli occhi di mia madre/questa è poesia/[…] Mia madre che ha sempre amato l’orizzonte/il nero del buio, il pieno del vuoto […]/era felice una volta/quando correva a piedi nudi sulle scale di casa/e per la strada fino al mare/quando le pietre erano fiori e la spiaggia un giardino/e nei capelli c’erano rose e alghe al litorale.
Versi dunque, che rincorrono l’alternanza tra passato e presente ma che sono tutti tesi a riconoscere – e a far riconoscere – l’importanza vitale e intima che la madre sente nel rapporto con la figlia non già dai primi gesti ma, immediatamente, dai primi suoni, dalle prime sillabe ripetute in un’interazione inizialmente solo sensoriale ma che diventa, col passare del tempo, un vero e proprio contesto relazionale legandosi – così come ci ricordano anche gli studi sullo sviluppo del linguaggio tra gli anni ’70 – ’80 – alla specificità della comunicazione linguistica materna che tende non tanto a parlare ai bambini ma con i bambini.
Serena Maffia sembra ricordare, parlando della figlia e alla figlia, quello che Luisa Muraro dice nelle sue riflessioni sulle mistiche del ‘300 che scrivono le loro opere in quella lingua volgare, che è quella della madre: «[…] la lingua delle donne, […] la lingua dell’infanzia e della vita quotidiana […] della poesia popolare, dell’amore e dei sogni […] era una lingua a sua volta specializzata: specializzata nei rapporti umani, nella significazione del vissuto, lingua codificata, ma secondo le istanze più rispondenti all’esperienza che alla sua rappresentazione (Lingua materna…). »
E se la poesia è tale, solo quando nasce da un’esperienza vera, possiamo essere certi che questo dialogo tra Serena (madre-figlia) e Ginevra (figlia) non potrà che portare a un rigenerarsi di scambi che tra affetti, radici, creatività apriranno le porte al mondo e alle esperienze che la figlia e la madre continueranno a fare insieme, a condividere, a scambiarsi anche quando la vita le porterà lontano. In questo senso, possiamo dire che, questo libro della Maffia, può essere considerato una sorta di trait d’union tra generazioni di madri e figlie che sicuramente potranno sentirsi accomunate all’autrice e al suo vissuto.
Qualche testo da: Blu
Di me resta l’infinito
Sembro ancora bambina
dai fianchi stretti e i seni scomposti
il viso nascosto, le mani sfuggenti
le gambe sottili le spalle incassate
ancora bambina dai capelli lunghi e fiori di campo
che mia figlia mi infila dietro le orecchie
bambola dei giochi più belli
bionda di sorrisi, di gesti, d’applausi
che il pubblico son le mie mani
e i miei abbracci e i miei morsi che
tutta è petalo di rosa e profumata
e ha una mamma ancora bambina nella speranza e nei sogni
come se il tempo non lavorasse, come se mia figlia fosse forza
che risucchia forza ma che non lascia il vuoto
perché immediatamente si rinnova germe ed esplode in fiore
tra fiori di fiori e cascate di petali io bevo alla fonte dell’eternità
e guardo il futuro negli occhi del mondo che resta
resta la gioia, resta l’amore, di me resta l’infinito.
*****
Ho bisogno di un arcobaleno
Ho bisogno di un arcobaleno
ho bisogno di un cielo
di un uomo saggio
di una preghiera
di una mano soltanto
del suo calore accanto
che la serenità mi culli
arresa alle brutalità del forte
mi sento acqua che trabocca
che scolora il petto
l’angoscia del presentimento
l’amore che non basta a fare il meglio
che la felicità mi avvolga
anche i bambini dovrebbero scegliere
contro la brutalità dei padri non c’è ancora rimedio
figlia che oggi piangi, domani sarai donna
figlia che oggi subisci perdonami l’angoscia e lo sconforto degli
alberi
andiamo un po’ più in là dove la pioggia ci accoglie
lasciamoci portare via dal fiume
in una radura incontaminata.
*****
Agave innamorata dei fiori
– Io non voglio la luna, voglio il sole mamma
e si alza dal letto per un abbraccio, la cingo forte
come una noce ma per amarla
sempre neonata al mio petto
lei chiude gli occhi mi stringe beata
l’ho vista sbocciare dal ventre rotondo
l’ho vista sorridere, l’ho vista guardare
mangiare, toccare, camminare, protestare
l’ho vista correre sempre più forte e a volte cadere
da quando c’è lei la letizia mi è cara
finalmente felice, fra tralci di salice come festoni
donna allegra dal canto fasciato di viti
e farfalle sul prato, vini e sapori di risa
tra mani allegre d’un cuore appagato
e mi ritrovo daina che salta a primavera
agave innamorata di fiori.
*****
Madonna di luce e di capelli
Ogni capello bianco è un’albicocca matura, una pesca sfatta
la polpa staccata dal nocciolo
le dita impiastricciate da leccare, zazzere da pettinare
quando il sole mi sveglia e m’incorona
madonna di luce e di capelli
che più il tempo passa più sono belli
e grossi e sbiechi come corde di violino allentate
da mani di bambini, vaga di carezze
non più mani pelose e presuntuose
ma branchi di sorrisi e dita curiose
che intrecciano fiori a crini, ricordi a dispiaceri.
*****
Credo
Credo nell’amore come picco
come goccia sulla erra arida
che germogli di primordiali odori
di gesti concreti, di rassicurazioni
amore, amore, amore
di adrenaline incontrollate
di sfumature di rosso, di gioie insensate
credo nella poesia, nell’universale
nel principio dell’esistenza, di temperanza
credo in mia figlia Ginevra
con la bocca colma di «mamma»
che mi tiene tra le mani:
io piccola, lei grande
e nelle mani che mi hanno nutrita
negli occhi dell’amore
che hanno lievitato buono e odori
e le mie radici, i miei fiori
iridescente d’estasi e di stupori.
Cinzia Demi
Bologna, maggio 2017