Da “L’ultimo viaggio”
Pubblicato per la prima volta nel volume dei Poemi Conviviali (1904), L’ultimo viaggio, suddiviso in XXIV canti (come l’Odissea) per un totale di 1211 versi, racconta l’ultimo periodo della vita di Odisseo: dopo essere tornato ad Itaca e aver vissuto per nove anni nella sua isola sognando continuamente il mare, l’eroe omerico decide di abbandonare la sua casa, la moglie, la terraferma dove presto lo raggiungerà la morte, per riprendere il viaggio, insieme ai suoi vecchi marinai, che da tempo aspettano il momento di salpare. Questo ultimo viaggio, però, avviene sotto il segno della disillusione: Odisseo ripercorre rotte già battute (l’eroe pascoliano «non ha per meta il futuro, ma il passato», ha scritto Giuseppe Leonelli), ma non incontra più Polifemo e i ciclopi, Circe o il canto delle Sirene, tanto da pensare che tutte le avventure trascorse siano soltanto il frutto della sua immaginazione. Incontrerà solamente la dea Calipso: il cadavere di Odisseo, dopo il definitivo naufragio, sarà infatti trasportato dalle onde presso la sua grotta, in un’isola lontana e solitaria.
Riportiamo qui di seguito le ultime due parti del poema. La prima è incentrata sull’avvicinarsi di Odisseo all’isola delle Sirene: le Sirene, al contrario di quanto è avvenuto nel passato, non intonano più i loro canti, ma restano immobili e mute: non solo non risponderanno agli interrogativi esistenziali di Odisseo, che – personaggio classico caricato di una sensibilità contemporanea – ha smarrito il senso del suo cammino e ha perduto la sua identità; ma contro di loro, trasformate in scogli, si infrangerà la sua nave. La seconda, che chiude il poema, racconta l’arrivo del corpo di Odisseo all’isola di Calipso e si conclude con una riflessione che condensa l’angoscia esistenziale di Pascoli e che recupera la massima del pessimismo radicale, già presente in testi classici, nel biblico Ecclesiaste e nel Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. La massima, messa in bocca a Calipso, afferma che per l’uomo sarebbe meglio non nascere e restare per sempre nel nulla, piuttosto che conoscere la lacerazione della morte.
Il poema, che recupera da Dante l’immagine di un Odisseo che preferisce il «folle volo» verso la conoscenza rispetto ad una tranquilla vecchia ad Itaca (Inferno XXVI), contiene un imponente sistema di rimandi ai testi classici e, in particolare, all’Odissea. Ma Pascoli, rispetto alle sue fonti, non esita ad aggiungere note che rendano il testo vicino alla propria sensibilità. Se Omero, per esempio, raccontava che la nave si approssimava all’isola delle Sirene grazie ai rematori che, con la loro fatica, vincevano l’inerzia della bonaccia, Pascoli fa sospingere l’imbarcazione da una corrente marina (ed anzi ripete quattro volte, come un ritornello, i versi «E la corrente tacita e soave / più sempre avanti sospingea la nave») e, così facendo, «allude simbolicamente all’attrazione irresistibile che la ricerca della verità esercita sull’anima umana» (come ha scritto Giuseppe Nava). Oppure, per citare un altro esempio, rende più tetra l’isola di Calipso rispetto alla fonte omerica, aggiungendo particolari lugubri e inserendo, tra gli animali che popolano questa terra nel centro dell’Oceano, anche i gufi con il loro canto luttuoso.
Metro. Endecasillabi sciolti.
XXIII
Il vero
Ed il prato fiorito[1] era nel mare, nel mare liscio come un cielo; e il canto non risonava delle due Sirene, ancora, perché il prato era lontano.[2] E il vecchio Eroe sentì che una sommessa forza, corrente sotto il mare calmo, spingea la nave verso le Sirene e disse agli altri d’inalzare[3] i remi: «La nave corre ora da sé, compagni! Non turbi il rombo del remeggio[4] i canti delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto placidi udite, il braccio su lo scalmo».[5] E la corrente tacita e soave più sempre[6] avanti sospingea la nave. E il divino Odisseo vide alla punta dell’isola fiorita le Sirene, stese tra i fiori, con il capo eretto su gli ozïosi cubiti,[7] guardando il mare calmo avanti sé, guardando il roseo sole che sorgea di contro; guardando[8] immote; e la lor ombra lunga dietro[9] rigava l’isola dei fiori. «Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi vi cerca il sole tra le ciglia molli. Sirene, io sono ancora quel mortale che v’ascoltò, ma non poté sostare». E la corrente tacita e soave più sempre avanti sospingea la nave. E il vecchio vide che le due Sirene, le ciglia alzate su le due pupille, avanti sé miravano, nel sole fisse, od in lui, nella sua nave nera. E su la calma immobile del mare, alta e sicura egli inalzò la voce. «Son io! Son io, che torno per sapere! Ché molto io vidi, come voi vedete me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo, mi riguardò;[10] mi domandò: Chi sono?». E la corrente rapida e soave più sempre avanti sospingea la nave. E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,[11] presso le due Sirene, immobilmente stese sul lido, simili a due scogli. «Vedo. Sia pure. Questo duro ossame cresca quel mucchio.[12] Ma, voi due, parlate! Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto, prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!».[13] E la corrente rapida e soave più sempre avanti sospingea la nave. E s’ergean su la nave alte le fronti, con gli occhi fissi, delle due Sirene. «Solo mi resta un attimo. Vi prego! Ditemi almeno chi sono io! chi ero!». E tra i due scogli si spezzò la nave. |
XXIV
Calypso
E il mare azzurro che l’amò, più oltre spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana,[14] alla spelonca,[15] cui fioriva all’orlo carica d’uve la pampinea vite.[16] E fosca[17] intorno le crescea la selva d’ontani e d’odoriferi[18] cipressi; e falchi e gufi e garrule[19] cornacchie v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno, né dio né uomo, vi poneva il piede. Or tra le foglie della selva i falchi battean le rumorose ale,[20] e dai buchi soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi, e dai rami le garrule cornacchie garrian di cosa che avvenia nel mare. Ed ella[21] che tessea dentro cantando, presso la vampa d’olezzante cedro,[22] stupì,[23] frastuono udendo nella selva, e in cuore disse: – Ahimè, ch’udii la voce delle cornacchie e il rifiatar[24] dei gufi! E tra le dense foglie aliano[25] i falchi. Non forse[26] hanno veduto a fior dell’onda un qualche dio, che come un grande smergo[27] viene sui gorghi sterili[28] del mare? O muove già senz’orma[29] come il vento, sui prati molli di viola e d’appio?[30] Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto![31] In odio hanno gli dei la solitaria Nasconditrice.[32] E ben lo so, da quando l’uomo che amavo,[33] rimandai sul mare al suo dolore. O che vedete, o gufi dagli occhi tondi, e garrule cornacchie? – Ed ecco usciva con la spola in mano, d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori del mare, al piè della spelonca, un uomo, sommosso[34] ancor dall’ultima onda: e il bianco capo accennava di saper[35] quell’antro, tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio pendea con lunghi grappoli dell’uve. Era Odisseo: lo riportava il mare alla sua dea: lo riportava morto alla Nasconditrice solitaria, all’isola deserta che frondeggia[36] nell’ombelico[37] dell’eterno mare. Nudo tornava chi rigò di pianto le vesti eterne che la dea gli dava;[38] bianco e tremante nella morte ancora, chi l’immortale gioventù non volle.[39] Ed ella avvolse l’uomo nella nube dei suoi capelli; ed ululò sul flutto sterile, dove non l’udia nessuno: – Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più! –[40] |
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Testi e note tratti dall’antologia poetica “Giovanni Pascoli” (Firenze, Le Monnier-Univerità, 2011), di Giovanni Capecchi.
L’antologia di Giovanni Capecchi su Giovanni Pascoli si propone di dar conto dell’importanza e della complessità dell’opera pascoliana, prestando la dovuta attenzione alle raccolte poetiche “principali” (da Myricae ai Primi poemetti, dai Canti di Castelvecchio ai Poemi conviviali), senza trascurare le poesie giovanili – analizzate mettendo in evidenza elementi di continuità con la produzione successiva e aspetti originali e unicamente legati ad una stagione vitale e a tratti goliardica – e il lungo tramonto da poeta bifronte, “vate ufficiale” che canta il Risorgimento nazionale ma anche uomo che sperimenta la solitudine di fronte alla morte che incombe e la vanità di tutte le cose.
LINK AL DOSSIER TEMATICO ALTRITALIANI DEDICATO A “GIOVANNI PASCOLI”
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[1] prato fiorito: nell’ Odissea si parla del luogo dove vivevano le Sirene come di un «prato fiorito» (vedi anche, qui di seguito, il v. 16).
[2] perché… lontano: si riferisce qui il pensiero di Ulisse, secondo il quale non si ode il canto delle Sirene perché sono ancora troppo lontane. In realtà, come verrà detto dopo, le Sirene sono chiuse in un atteggiamento muto e non fanno udire la loro desiderata voce.
[3] d’inalzare: di sollevare.
[4] il… remeggio: il rumore dei remi.
[5] scalmo: la caviglia a forcella alla quale viene assicurato il remo.
[6] più sempre: sempre più (anastrofe).
[7] cubiti: gomiti (letterario).
[8] guardando… guardando: la triplice anafora del verbo sottolinea l’immobilità delle Sirene, ma anche il loro atteggiamento muto: non cantano, come avrebbe desiderato Ulisse, ma guardano impassibili.
[9] dietro: alle loro spalle (le Sirene hanno il sole in faccia).
[10] mi riguardò: mi guardò a sua volta.
[11] un… intorno: Ulisse vede intorno alle Sirene un mucchio di ossa umane, sopra le quali si è raggrinzita e seccata la pelle.
[12] Questo… mucchio: queste mie dure ossa accrescano quel mucchio.
[13] acciò… vissuto: in modo che la vita abbia avuto un senso.
[14] all’isola lontana: è l’isola della ninfa Calipso.
[15] spelonca:grotta.
[16] cui… vite: attorno alla quale, sull’orlo dell’apertura, si stendeva rigogliosa una vite piena di grappoli. Pampinea: carica di grappoli (latinismo).
[17] fosca: scura.
[18] odoriferi: odorosi, profumati.
[19] garrule: che non smettono di gracchiare.
[20] ale: ali (forma letteraria).
[21] ella: Calipso.
[22] presso… cedro: accanto al fuoco sul quale bruciava un profumato tronco di cedro.
[23] stupì: si meravigliò (uso assoluto del verbo, già presente in Dante).
[24] rifiatar: soffiare.
[25] aliano: battono le ali, volano.
[26] non forse: forse (equivale al latino nonne).
[27] smergo: uccello marino.
[28] Sterili: calco dell’aggettivo omerico riferito al mare, che significa sia instancabile, sia (e in questo secondo senso viene ripreso da Pascoli) infecondo.
[29] senz’orma: senza lasciare orma, perché il dio vola.
[30] di… appio: sono i prati dell’isola di Calipso.
[31] Ma… detto: formula di scongiuro omerica (che allude al fatto di non voler sentire una notizia, implicitamente cattiva).
[32] Nasconditrice: il verbo greco kalypto significa nascondo.
[33] l’uomo… amavo: Ulisse.
[34] sommosso: mosso.
[35] accennava… saper: faceva cenno (con il tremito tipico dei vecchi) di conoscere.
[36] frondeggia: perché ricca di boschi.
[37] nell’ombelico: Omero dice che l’isola di Calipso si trova proprio in mezzo all’Oceano.
[38] chi… dava: allude al pianto con il quale Ulisse, nella precedente visita a Calispso, bagnava le vesti che la dea gli donava.
[39] chi… volle: Ulisse aveva infatti rifiutato il dono dell’immortalità che Calipso gli aveva offerto.
[40] Non… più: meglio non esser mai nati (e quindi rimanere nel nulla), piuttosto che conoscere il dolore della morte (ma meno morte), il passaggio dalla morte alla vita (non esser più).
Nota 40 : »…il passaggio dalla morte alla vita (non esser più). »
Spero si tratti di un lapsus, ma cose strane si ostinano a far capolino tra I chierichetti.
il commento che lascio è che l’Odissea consta di XXIV canti e non XIV. vi prego di correggere
grazie
Infatti! Grazie mille per la segnalazione di questo refuso.
[…] l’uomo a peccare di superbia. Suggestivo è anche il racconto che ne fa Giovanni Pascoli ne L’Ultimo viaggio, un piccolo poema in quattordici canti contenuto all’interno dei Poemi Conviviali del 1904. Qui […]