In attesa di una primavera italiana, che fine ha fatto quella araba? Ripercorriamola attraverso due autorevoli esperti come Bernardo Valli e Michele Tito. Dal Maghreb e dalla Tunisia arrivando lungo il nord Africa fino alla Siria dove infuria ancora sanguinosa la guerra. Storia di un mondo che cambia e che ci è molto vicino.
Primavera smarrita e rivoluzione rubata nella ricostruzione che Bernardo Valli fa dell’attuale momento politico che stanno attraversando Tunisia ed Egitto. Primavera smarrita conseguenza della ruberia operata ai danni della rivoluzione da quella che da sempre rappresenta la palla al piede dei paesi a maggioranza musulmana, l’islamizzazione del potere politico incapace di distinguere e tenere separata la politica dalla religione.
Un ostacolo che impedisce di trasferire nella modernità i paesi oggetto della protesta, e stando alla ricostruzione che l’autorevole inviato fa sulle pagine de “La Repubblica” per andare alle cause, esse sono da ricercare nel fatto che, contrariamente a quanto si possa pensare, in Tunisia l’espressione “laico” è stata bandita dal linguaggio politico e nessun partito di governo o d’opposizione osa rivendicare quella identità, perchè laicità ed ateismo sono sinonimi.
In Egitto invece l’islamizzazione del potere operata dai fratelli musulmani è stata favorita dal movimento insurrezionale di piazza Tahrir, democratico e progressista.
La forza dominante dei fratelli musulmani, uscita vittoriosa dalle elezioni, si è impadronita della rivoluzione, dandole ritmi ed obiettivi diversi, appoggiata nell’ascesa al potere dall’esercito, il quale invece di difendere la rivoluzione ed i suoi promotori al fine di mantenersi al potere, si è preoccupata di tenere all’inpiedi il vecchio ordine, favorendo l’ascesa alla massima carica dello Stato di un fratello musulmano. Risultato, conclude Valli, che da piazza Tahrir è nata una democrazia di stampo militare. Ma seguiamo la riflessione di Bernardo Valli che, pur legata alla Tunisia, è da attribuire allo stesso Egitto, due nazioni entrambe soffocate da rivelazioni religiose le cui radici vantano un millennio e più di arretratezza.
Neppure il laico Chokri Belaid, diventato l’eroe nazionale dopo la morte, si definiva tale, benchè lo fosse. E’ come se essere ateo più che un peccato fosse un crimine. Nessun politico accenna a una separazione tra Stato e religione, anche se il problema è al centro della contesa. Nessuno rivendica la laicità, neppure nell’opposizione di sinistra. Tutti sono musulmani ed è nell’ambito musulmano che si svolge il dibattito. Sia pure da posizioni profondamente diverse. E’ questa l’islamizzazione galoppante, ritmata dall’affannoso tentativo di adeguarla ai problemi concreti della società tunisina, una delle più avanzate del mondo arabo.
Certamente la Tunisia rappresenta il paese più avanzato del mondo arabo se si pensa che nel ’56, prima ancora dell’ufficialità dell’indipendenza e prima che venisse varata la Costituzione, Bourghiba, presidente e fondatore della repubblica tunisina, promulgava il Codice dove dichiarava l’uguaglianza tra uomini e donne, nel ’59 riconosceva ad esse il diritto di voto e la possibilità di ricorrere alla contraccezione e all’aborto.
Ma dopo la scomparsa del padre della repubblica tunisina, il fondamentalismo più integralista ha preso il sopravvento, come non esitato a riprenderlo dopo piazza Tahrir e fino a quando la legge coranica condizionerà il potere politico la strada verso la modernizzazione si allungherà all’infinito, allontanando sempre più la speranza non solo di una democrazia tunisina di fatto, ma anche il passaggio indolore e senza ulteriori spargimenti di sangue dalla dittatura coranica ad una versione quantomena accettabile di democrazia.
Allargando la riflessione all’intera area del Maghreb, il giudizio non cambia se pensiamo alla situazione dell’Egitto e della Libia. Rivoluzioni, che richiedevano democrazia, primavere rubate, che hanno visto scorrere fiumi di sangue e che rischiano di smarrirsi nel nulla, per non parlare della Siria, dove, pur dopo interminabili massacri, il rischio è di ritrovarsi l’integralismo di nuovo al potere.
Andando indietro con la memoria provo a ricostruire il periodo dell’esperienza algerina dell’inizio degli anni Cinquanta, dalla rivolta fino all’indipendenza attraverso le corrispondenze di un grande giornalista del Novecento Michele Tito, all’epoca corrispondente da Parigi de “Il Messaggero”, trasferitosi ad Algeri ai primi segnali di guerra.
Da grande giornalista, lettore intelligente degli avvenimenti, Tito trascura i fatti bellici, inoltrandosi da Algeri verso l’interno del paese, per andare alla ricerca delle cause della rivolta e delle ragioni che ostacolavano il processo di modernizzazione dell’Algeria. C’è da chiarire che nel caso dell’Algeria lo scontro riguardava un nemico esterno, la Francia, mentre nel caso della Tunisia e dell’Egitto d’oggi il nemico da combattere viene dall’interno e configura nei portatori di quei valori che fanno riferimento alla legge coranica, l’ostacolo che tiene legato il paese ad un passato senza sbocchi ne politici e tantomeno sociali.
A sessant’anni di distanza dalla guerra d’Algeria, oggi come allora, a frenare il cammino verso la modernità, sono le stesse forze nazionaliste. Ma è interessante seguire la ricostruzione che Michele Tito fa di quei momenti drammatici, ripercorrendo i fatti salienti.
La vicenda algerina durava da più di due anni, erano esplose almeno ottomila bombe ed erano stati arrestati almeno un migliaio di ragazzi di età inferiore ai diciotto anni con l’accusa di terrorismo…ma passati alcuni mesi di quei ragazzi non si parlava più, marcivano in carcere e leggevano Victor Hugo e Chateaubriand. Chateaubriand più di Hugo.
Era in questo modo che si perdeva il senso delle prospettive e, per elevare un ragazzo incosciente al rango di grosso e maturo protagonista di una vicenda alla quale in realtà era estraneo, ci si allontanava dalle masse musulmane e si commettevano errori su errori. Perchè quei ragazzi non rappresentavano, neppure come fenomeno isolato, la rivolta algerina. Essi ne erano soltanto il travestimento. I ribelli veri non leggevano Hugo e Chateaubriand, ma leggevano il Corano e lo interpretavano secondo una forma di luteranesimo musulmano che mirava a far piazza pulita di ogni tentazione di progresso materiale come di ogni superstizione pagana. I ribelli delle montagne non piangevano, come facevano i ragazzi borghesi, davanti alla palma della libertà.
I ribelli veri non uccidevano gratuitamente i francesi ed i musulmani, perchè essi avevano molte probabilità di guadagnare alla loro causa numerosi coloni francesi che ora erano più arabi degli arabi e che, attaccati alla loro terra, non avevano altra patria che l’Algeria. I ribelli veri, continua Tito, non erano in contatto con gli americani, che erano pur sempre cristiani. I ribelli veri non rimproveravano ai francesi la miseria dell’Algeria e la mancanza di luce, di strade o scuole, rimproveravano ai francesi esattamente il contrario, di imporre una civiltà che distruggeva le tradizioni islamiche, di aprire strade turbando il ritmo di vita patriarcale che consentiva ai pochi musulmani capaci di leggere e scrivere, di vivere da parassiti sulle masse contadine, di moltiplicare le scuole ove si insegnava la storia della civiltà occidentale.
L’amministrazione francese poggiava su questi parassiti credendoli semplicisticamente amici, mentre erano nemici per il fatto stesso che temevano il progresso…Queste famiglie che possedevano terreni sterminati, avevano accettato per molto tempo il compromesso proposto dai francesi. Una parvenza di legalità in cambio di una sicura salvaguardia dei loro interessi fondamentali e, soprattutto, della loro ortodossia religiosa…Le ricche famiglie dell’Aures avevano fornito fondi ai ribelli, i quali si riportavano alla predicazione degli ulema per un rigorismo musulmano, una forza armata retriva per la difesa di un sistema feudale che i francesi con le loro riforme e le loro leggi minacciavano di far crollare.
Era incredibile che una grande potenza europea, nel momento stesso in cui si accingeva a sconvolgere un sistema riformandolo in senso progressista, non avesse avvertito la necessità di entrare in contatto con i veri interessati alla realizzazione delle riforme, appoggiandosi invece sui notabili che avevano ogni ragione di opporsi alla modernità.
Nel caso algerino non pare che i ribelli abbiano mai creduto seriamente all’indipendenza, conclude Tito, che rappresentava una richiesta massima che i cervelli della rivolta facevano per ottenere alla fine uno statuto che consentisse l’arrestarsi del processo di evoluzione del mondo musulmano, la cristallizzazione del potere e del prestigio di alcune caste, quelle che avevano armato e pagato la rivolta per tenere ferma l’Algeria al MedioEvo.
A distanza di sessant’anni dalla rivolta algerina, le cause che impediscono a paesi come l’Algeria, la Tunisia, l’Egitto e la stessa Libia di avviarsi lungo la strada della modernità sembrano sussistere, da Michele Tito a Bernardo Valli, una società sembra essersi pietrificata come in preda alla paura nell’affrontare il nuovo. Fino a quando non saranno in grado di separare la vita religiosa da quella dello Stato in nome della laicità ed evitare che l’oscurantismo s’impossessi dei momenti più significativi della vita morale e civile, per questi popoli non ci sarà speranza che il sangue versato per la libertà trovi la giusta ricompensa, lasciando ancora ampi margini di manovra a chi si propone nemico della civiltà, appropriandosi di una rivoluzione che non gli appartiene, cancellando in tal modo una primavera che è costata lutti e dolori a chi è pienamente legittimato a rivendicarla.
Raffaele Bussi