Ripercorrendo il libro di Gaetano Savatteri, “I siciliani” la cui prima edizione fu nel 2005.
Richiamando le “corde” evocate da Pirandello e poi Sciascia: “la seria, la civile, la pazza”, l’autore, nel presentarci storie e personaggi noti e meno noti, ci introduce nel grande mistero Sicilia, una piccola patria senza patria, dove la vita scorre spesso tra simulazioni e dissimulazioni, tra il nefando e l’eroico e dove, sembrando impossibile arrivare ad un comune senso civico, si forma nelle sue contraddizioni una cultura unica ed incomparabile.
Con grande acume, rifuggendo dai luoghi comuni – comprese le indulgenze magico-romantiche cui la Sicilia tanto si presta – Gaetano Savatteri ne « I siciliani » (Laterza, 2005) offre al lettore una serie di chiavi interpretative per capire quest’isola che è quasi un mondo a se stante. Universo complesso la Sicilia; i cui abitanti presentano amplificati, nel bene e nel male, alcuni aspetti fondamentali dell’identità italiana, e con certi « tratti di carattere » che sono dovuti alla sua storia particolare di terra di approdo di civiltà e culture venute da lontano, scrosciate su di essa a guisa d’onde che si sono poi ritirate lasciando negli animi echi, frammenti e residui, senza nulla veramente cambiare (questo almeno è il leitmotiv…).
Di qui anche l’incapacità dell’isola di partecipare ad un vero progresso immettendosi nel flusso della storia, e il persistere tenace di un nocciolo oscuro di feudalesimo e di « non civismo » su cui prospera il fenomeno tremendo e vergognoso della mafia; antitesi assoluta di una modernità basata su un progetto comune di società che ponga al centro l’interesse e il bene collettivo. Valori quest’ultimi che eludono, in verità, un po’ tutto il Meridione, e ugualmente, anche se in maniera meno grave, il resto d’Italia…
La Sicilia sono i siciliani. Ed è su di loro che il giornalista-scrittore Gaetano Savatteri pone il suo perspicace sguardo alla ricerca di chiavi interpretative capaci di farci accedere all’anima isolana. La Sicilia è un universo complesso e anche contraddittorio, non riassumibile in facili slogan, ci avverte Savatteri, autore veramente notevole per onestà intellettuale, metodo, capacità analitica, e scrittura accorta, gradevole, efficace.
La Sicilia si presta fin troppo bene al culto del misterioso – vedi Cagliostro – dell’esotismo, anche hollywoodiano – il « Godfather » – e del poetico: « Ride la gazza, nera sugli aranci… » È vero: è quasi impossibile resistere al fascino delle immagini fantasiose della metafora, dell’affabulazione e dei miti: Trinacria, le zagare, i filosofi greci, Mondello, Taormina, il « Gattopardo », Monreale, i giardini di Palermo, l’Etna, i palazzi nobiliari, il barocco degli esterni ma anche delle anime, il cuscus… Perché anche tutto questo è Sicilia. Ma la Sicilia è tanto di più… è intelligenza, genialità, tenacia, capacità d’amicizia profonda, senso delle alleanze, generosità, io ipertrofico, familismo esasperato, protagonismo, furbizia, diffidenza, fatalismo, impostura, inerzia, culto del potere e del rispetto… Vi è poi – Pirandello insegna – il fortissimo condizionamento sociale che spinge gli individui ad assumere il ruolo che gli altri si aspettano da loro e che essi stessi, quindi, sono convinti di dover assumere. Dopo tutto in quest’isola gli stessi mafiosi sono mafiosi perché la gente intorno li consacra tali…
Savatteri individua e analizza i canoni e parametri culturali dell' »universo Sicilia ». Lo fa presentandoci una serie di personaggi dell’isola, noti e meno noti, di cui scruta la vicenda umana; e non solo l’abito esterno, ma anche, quando è possibile farlo, le pieghe dell’anima. Questo autore non è certo il primo studioso ad esaminare il fenomeno della « sicilianità » o « sicilitudine » (Giovanni Gentile usò invece il termine « sicilianismo »), ossia i modelli di comportamento, i valori, gli atteggiamenti tipici di questo mondo quasi a se stante. Che si pensi, ad esempio, alle analisi della Sicilia e dei siciliani fatte da Pirandello e Sciascia, per non nominare che costoro. E difatti l’autore del libro ci presenta le teorie interpretative di altri che sono giunti a formule, metafore, slogan atti a spiegare la « sicilianità », come ad esempio l’immagine delle tre corde vibranti nell’animo dei siciliani: « la seria, la civile, la pazza », offertaci da Pirandello e ripresa da Sciascia.
Grazie alla ricchezza e alla pertinenza delle chiavi interpretative che Savatteri offre al lettore in questa sorta di « trattato-racconto » sui siciliani, il lettore stesso – mettiamo: uno come me – si sente stimolato a fare da sé e a proporre a sua volta le proprie interpretazioni di questo mondo complesso e contradditorio che ha espresso uomini di grandi virtù e altri, invece, di grandi nefandezze.
I tratti dell’animo siciliano, come abbiamo già visto, sono molteplici, poiché “le Sicilie sono tante”, e ambivalenti: generosità, profondo senso dell’amicizia, furbizia, duplicità, familismo, personalizzazione eccessiva, protagonismo, senso delle strategie e delle alleanze, culto del potere (il proprio e quello degli amici-alleati), un realismo alquanto cinico sul mondo, visto come un territorio ostile, e scetticismo e diffidenza nei confronti di una concezione moderna della società vista come fonte di obblighi e di regole valide per tutti in nome del bene collettivo (l’impegno civico insomma)…
In Sicilia – ci avverte Savatteri – prospera da sempre l’impostura, la menzogna. Che si pensi all’infame menzogna mafiosa che « attribuisce la qualità di uomini d’onore ad assassini senza alcuna dignità ». L’autore ci racconta del mitico impostore Balsamo-Cagliostro, e di Giuseppe Vella, falso « grande erudito » e « linguista », « scopritore » di codici e testi storici da lui inventati, e, grazie sempre ai suoi inganni, divenuto un’autorità, con tanto di cattedra, della lingua araba, lingua che in realtà non conosceva.
Tra gli impostori che vivono e agiscono sotto mentite spoglie motivati dal lucro troviamo anche i frati di Mazzarino, d’osservanza francescano-mafiosa ; e troviamo Giovanni Sucato che faceva raddoppiare i capitali con il sistema della catena di Sant’Antonio; e Antonino D’Acquino, omicida evaso dal carcere che assunse una nuova identità e divenne devoto frate carmelitano…
Continuando nella nostra analisi de « I siciliani » ci imbattiamo nell’idea-immagine delle tre corde. « Abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza » dice un personaggio di Pirandello. La metafora delle tre corde, ripresa da Sciascia e da altri compreso l’autore del libro in esame, è una formula esplicativa che s’inserisce in un ricco quadro di frasi, d’immagini, di simboli, riservati alla Sicilia e ai siciliani. Vitaliano Brancati tira in ballo invece la vicina Africa: « Una corrente alternata di pensiero attraversa la Sicilia: una, europea, raffinata, in discesa; un’altra, barbara, africana, in salita. »
Abbiamo già visto che l’impostura ha una forte presenza nell’isola. Vi è poi una forma particolare, meno cruda, d’impostura isolana: un’eccentricità snobistica, spinta all’estremo e rivelante in certi casi – io direi – una vena anarcoide e anche nichilista. Anche questa – ci dice Savatteri – è una manifestazione della « corda pazza » siciliana. Corda pazza rivelantesi ad esempio nella storia dell’assurda accademia del Parnaso e delle gesta del barone La Lomia, suo eccentrico animatore; o nelle idee dell’enigmatico Ferdinando Francesco Gravina, Principe di Palagonia, « il principe che creava mostri », creatore di un parco incantato all’insegna dell’orrore.
Se la corda pazza è quella dell’eccentricità, del gusto del paradosso e della provocazione, o della vera e propria follia, in Sicilia lo stesso impegno civile quando spinto al limite, diviene una « corda pazza », perché la normalità, in quest’isola – ci dice l’autore – può essere vista solo come pazzia. Savatteri: « Giovanni Falcone aveva dentro di sé, caricata a molla, la corda pazza. La pazzia, per dirla in parole semplici, di chi vuol credere che la mafia non sia invincibile. » E così l’aveva Paolo Borsellino. Ma anche Libero Grasso, cittadino normale, siciliano perbene, che si ribellò senza retorica, con semplicità, modestamente ossia senza aspirare – lo disse chiaramente – ad essere considerato un eroe o un martire, può al limite essere considerato un pazzo, ossia un anormale rispetto alla maggioranza, per il suo rifiuto di accettare le regole imposte dal più forte; che in questo, come in molti altri casi, è la mafia.
Un posto di rilievo nel libro di Savatteri occupa, appunto, la mafia con i suoi personaggi storici, i suoi capi, i suoi soldati, i suoi pentiti veri, i suoi pentiti falsi, i suoi intrecci familiari e di clan… L’autore ci racconta di mafiosi storici come Vito Cascioferro, l’uccisore del famoso detective italo-americano Joe Petrosino, e di altri che hanno invece combattuto la mafia, finendo quasi sempre uccisi; ad esempio Peppino Impastato…. e Mauro De Mauro… e Salvatore Carnevale… e altri, compresi i commercianti – pochi in verità ma i cui ranghi si stanno finalmente infoltendo – che hanno deciso di opporsi alla legge del pizzo.
L’autore considera « l’impostura » una delle principali strutture di sostegno della vita e della scena siciliana. Ma la menzogna quasi sempre non è allo stato primitivo e crudo – alla « Balsamo-Cagliostro » per intenderci. Molto diffusa nell’isola è la finzione esistenziale, ossia una dissimulazione spesso « autenticamente » vissuta… Che si pensi al gioco delle parti, così presente sull’isola, imposto dal culto delle apparenze che obbliga ad interpretare, con grande impegno, se stessi. Savatteri ci dà questo esempio: « Raimondo Lanza di Trabia si presta al gioco di somigliare, dell’apparire, dell’interpretare se stesso. » Ragion per cui si rende protagonista di episodi in cui interpreta se stesso « con una naturalezza interamente costruita ».
E così, altri siciliani mostrano di essere fortemente condizionati dalle esteriorità, dal ruolo, dalla faccia, dal rispetto: che si pensi a quelli della nobiltà decaduta che continuano a interpretare con dedizione il proprio personaggio. Altre volte la persona non può incarnare il personaggio desiderato, come fu il caso di Franca Florio, donna d’indiscussa bellezza ammirata anche da D’Annunzio, ma che « si rammaricò sempre di non poter incarnare l’ideale di bellezza fragile e romantica, che gli scrittori del tempo decantavano » poiché lei invece era di « bellezza tipicamente siciliana, capelli scuri, carnagione olivastra ».
Il protagonista del romanzo « Il fu Mattia Pascal » di Pirandello giunge all’apice di questa dissimulazione riuscendo a reinventare se stesso. Il forte condizionamento del giudizio altrui sul siciliano, « sempre in bilico tra l’essere e il dover essere, ossessionato da sé e dall’immagine di se stesso », lo ritroviamo anche in tanti personaggi di Pirandello. Questo condizionamento può essere espresso così: si diviene, in sostanza, ciò che gli altri si aspettano che noi siamo. Lo stesso Pirandello, da buon siciliano, fu fortemente condizionato dalle convenzioni sociali, ad esempio dall’idea della famiglia come istituzione da salvaguardare ad ogni costo, e a cui appunto egli rimase fedele malgrado che sua moglie fosse diventata pazza e che il loro matrimonio fosse stato un matrimonio arrangiato.
La stessa mafia trae alimento e sostanza dalla rigidezza di questi ruoli che sono assegnati per una sorta di volontà comune: si è mafiosi dopotutto perché si è considerati mafiosi dagli altri. L' »uomo di rispetto », che si ergeva a paciere e giudice nella Sicilia di un passato feudale non lontano, di cui permane una tenace traccia ancora oggi, era tale appunto perché la gente gli attribuiva questo ruolo, rivolgendosi con deferenza a lui in caso di bisogno; e volgendo invece le spalle alle autorità istituzionali poco presenti o lontane, e assai estranee al sentire della gente anche perché sinonimo soprattutto d’imposizioni, balzelli, doveri.
Vi è un giudizio globale sulla Sicilia e i siciliani, detto e ripetuto con insistenza, secondo il quale in quest’isola anche quando sembra che tutto cambi in realtà nulla cambia. È il giudizio reso celebre dal discorso amaro e fatalista che il Principe Salina del « Gattopardo » fa a Chevalley. Gaetano Savatteri nel suo « I siciliani » (Laterza, 2005), consacrato appunto al « mistero » Sicilia, non dimentica di citare questo disincantato parere, approfondendolo.
Sonno, inerzia, non adesione intima ai cambiamenti, virus del potere, protagonismo, culto delle forme, trasformismo, scetticismo, furbizia, familismo, arabismo, fatalismo, mafia… tantissimi sono i termini e le formule che vengono associati a questo sonno, a questa inerzia, a quest’«accidia» (termine di Pirandello). Andando diritti all’essenziale, la causa principale di tante disfunzioni e distorsioni della società isolana può essere additata nella carenza di una cultura civica capace di alimentare la nozione di interesse collettivo, di bene comune, ossia l’interesse e il bene della società isolana e nazionale. Il rispetto per le regole astratte, le regole che si applicano a tutti prescindendo dall’utile particolare di individui e di gruppi, non nasce spontaneo né in Italia né in Sicilia. Di qui il nero alone di non modernità degli animi, di non civismo, da cui continua ad essere afflitta una parte del nostro Paese. Non mancano però le eccezioni eroiche a questa abdicazione all’idea di un bene comune da far prevalere ad ogni costo. Gli esempi di Falcone e Borsellino ne sono magnifica testimonianza. Ma anche comuni cittadini hanno mostrato di possedere, nell’isola, questa coscienza civica che si traduce in altruismo e partecipazione al destino comune isolano e nazionale. Gaetano Savatteri li ricorda e onora.
La serie dei personaggi emblematici dell’universo Sicilia, presentatici in questo libro ad illustrazione dei meriti e demeriti che fioriscono nell’isola, è inevitabilmente incompleta, e l’autore all’inizio del libro previene il lettore circa l’inevitabile non esaustività della propria disamina. Assente – noto io – è Giovanni Gentile, il cui esempio attesta che un tentativo d’innalzamento e di riscatto dei localismi, campanilismi e particolarismi antinazionali, presenti sia in Sicilia sia in altre parti d’Italia (e che si rivelano con virulenza, oggi, nel razzismo antitaliano della « Lega »), fu fatto anche nel passato. E in quella stessa epoca il famoso prefetto Cesare Mori agì con grande efficacia contro il potere alternativo antinazionale, tribale, criminoso costituito dalla mafia. L’autore ci parla di Mori, evitando con sensibilità ed intelligenza di ripetere le spiegazioni e gli slogan caricaturali cui molti tendono a ricorrere, oggi, pur di negare l’evidenza storica stessa, ossia l’efficace, dura lotta che lo Stato-Nazione, in quell’epoca, condusse contro la mafia.
Savatteri ci spiega che vi sono « i siciliani di scoglio »: quelli che non riescono ad uscire dalla loro « sicilitudine »; e « i siciliani di mare aperto »: quelli che evadono, si allontanano, e che se anche ritornano nell’isola rimangono, nell’animo, fuori dello stretto orizzonte siciliano. La distinzione – ci ricorda Savatteri – è di Vittorio Nistico, direttore dell' »Ora« .
Alcuni tratti della cultura e della personalità dei siciliani sono, almeno in parte, condivisi dagli abitanti di altri paesi mediterranei, oltre beninteso che dagli abitanti del resto d’Italia. Ma la loro forte presenza in questo piccolo popolo, che ha espresso in tutti i campi personaggi di grande rilievo, rende tali tratti culturali degni di menzione e di analisi anche per una certa loro specificità; analisi condotta con chiarezza e pacatezza dall’autore di questo veramente ammirevole saggio. Il sentimento insulare del siciliano ha un’altra particolarità rispetto al sentimento di altri popoli insulari: tra gli abitanti della Sicilia vi è scarsa omogeneità, e scarsezza di quei sentimenti di solidarietà « siciliana » atti a suscitare civismo e rispetto del « bene comune » nell’ambito dell’isola stessa.
Le Sicilie, dopotutto, sono tante. Gesualdo Bufalino chiama la Sicilia « isola plurale ». Secondo me, forse anche per questo il suo popolo ha mostrato finora di essere incapace d’innalzare l’isola a « piccola patria » di tipo quasi statuale, ossia suscitatrice di obblighi e doveri sotto un’autorità responsabile ed efficiente. Questo sentimento di altruismo e di fedeltà e lealtà, verso la società siciliana nel suo insieme, avrebbe compensato per la debolezza cronica del sentimento nazionale italiano, nell’isola e nel resto d’Italia.
In altre parole la Sicilia, nella sua insularità e a causa della sua storia che vide, ad esempio, un’influenza araba molto più forte in alcune zone rispetto ad altre, e a causa del campanilismo, del feudalesimo, delle baronie locali e delle tante altre vicende, non si è mai elevata a piccola patria coesa, da onorare e rispettare. Il potere sotterraneo che è riuscito ad imporsi è stato, purtroppo, il potere di mafia; accanto, beninteso, a quello partitocratico. Torno a ripetere: la corda civile, meglio « civica », non ha mai vibrato con forza sufficiente a creare quella meravigliosa finzione che è la « società civile », con le sue regole che s’impongono ad ognuno prescindendo dai meriti di nascita, dai privilegi ereditati, e da quelli conquistati con l’astuzia e la paura e la violenza.
Savatteri ci presenta il momento simbolico in cui fu girata una pagina epocale per dare inizio a un nuovo capitolo di storia. Ciò avvenne con lo sbarco degli americani in Sicilia nell’estate del 1943. La scena immortalata dal famoso fotografo Robert Capa, reporter di guerra, e che Savatteri diffusamente commenta, è questa: il vecchio anzi « antico » – per espressione, fattezze, cultura e valori – contadino siciliano indica al giovane, vigoroso Marine la strada da seguire per continuare nella sua conquista della Sicilia e del resto d’Italia. Peccato solo – il giudizio è unicamente mio – che questa scena simboleggi anche la cessione di una parte delle autorità istituzionali dell’isola all’autorità dei mafiosi, preziosi alleati degli americani.
Non si dimentichi che in Sicilia sorse un movimento separatista antitaliano che proponeva addirittura di far divenire l’isola territorio americano. Lo stesso Salvatore Giuliano (il « bandito Giuliano »), braccato dalle forze di polizia, sperò fino all’ultimo di potersi rifugiare negli USA, questa patria ambita da molti secessionisti.
In un’altra parte di quest’opera veramente ammirevole per profondità ma anche per pacatezza di analisi, Savatteri ci racconta con dovizia di particolari il ritorno di Frank Capra in Sicilia. Un ritorno scevro di rimpianti e sentimentalismi. Al contrario di tanti altri « emigranti » e figli di « emigranti » (per usare il termine che in Italia usano al posto del più logico « emigrati ») Capra era un critico sarcastico della ricerca delle « radici ». Del passato siciliano non ricordava nulla e nulla sembrava interessarlo. Giunto giovanissimo in America, era divenuto non solo americano ma, attraverso i suoi film, aveva costruito in immagini il destino americano, basato sull’ottimismo, sui buoni sentimenti, sulla giustizia, sulla lealtà… Ma è soprattutto l’idea del destino nazionale, del destino comune, che Capra seppe vivere nell’intimo e celebrare sullo schermo, che a me interessa qui sottolineare.
L’idea di patria insomma. E la patria americana aveva a suo fondamento il mito del futuro e non il culto del passato. Era quindi incompatibile, anche perché « terra del futuro », con la Sicilia, isola ancorata al passato. Capra aveva completamente perduto la cultura isolana familiare e non spiccicava una parola né di dialetto né d’italiano. Non aveva, invece, completamente perduto certi tratti di questa cultura Frank Sinatra, che è stato accusato di aver fraternizzato con gli ambienti della mafia italo-americana. Ma anche lui seppe innalzarsi sul familismo e sul tribalismo, aderendo, come tutti gli altri americani, all’idea dell’onore e del rispetto da tributare alla patria, al popolo, all’insieme del Paese dove si è nati, ossia agli Stati Uniti d’America. Entrambi insomma, perché « americani » avevano assunto i valori dell’identità nazionale americana. Se fossero rimasti in Sicilia – se è lecito ragionare sui « se » – sarebbero mancata loro, come manca a tantissimi nello Stivale, un normale senso altruistico di patria, bene comune.
Claudio Antonelli, da Montreal
I siciliani, di Gaetano Savatteri. Nelle “corde” della Sicilia.
Un articolo intenso ed interessante.
Consiglierei all’ottimo Gaetano Savatteri di recarsi, almeno una volta, a Gaeta e prendere parte, magari anche da semplice uditore, all’annuale Convegno di Studi storici che ha luogo in quella città da diversi anni, abitualmente agli inizi del mese di febbraio (da un ven. pomeriggio alla dom. successiva). Attualmente è organizzato dal magistrato Edoardo Vitale.
Sarebbe un’esperienza sicuramente indimenticabile e per niente superflua, della quale l’ottimo e simpatico Gaetano non avrebbe certo a dolersi. Con stima. Aldo Cianci