Nuova sigla della 69^ Mostra – Fondamentalismi religiosi – Famiglia – Malick e De Palma tra le delusioni – Un focus sui film italiani di questa 69^ Mostra.
[*Nuova sigla della 69^ Mostra.*]
Un rinoceronte su una barca e un ragazzino che pesca. Erano i primi due soggetti che apparivano nella nuova sigla di 30 secondi preparata dal regista e illustratore italiano Simone Massi (Pergola 1970; vincitore del David di Donatello nel 2012 per il miglior cortometraggio) e che hanno sempre preceduto i film della 69^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La sigla, realizzata con 300 disegni fatti a mano è stata ideata, come un lungo piano sequenza, in omaggio ai Maestri del Cinema (Fellini, Anghelopoulos, Wenders, Olmi, Tarkovskij, Dovženko).
La prima immagine è una barca che sembra uscita dal finale di “E la nave va”: un bambino pesca immagini, visioni, ricordi cinematografici, stando accanto al rinoceronte felliniano. Da lì parte un movimento a precipitare dentro il sogno del cinema, tra figure e personaggi di L’eternità e un giorno, L’albero degli zoccoli, Il cielo sopra Berlino, Stalker, Arsenale. Immagini a cui Simone Massi è particolarmente legato, e che lui stesso omaggia, comparendo alla fine del film, mentre strappa il cielo-schermo e lo indossa come un vestito.
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[*Fondamentalismi religiosi*]
Alla Mostra del Cinema abbiamo visto film che hanno affrontato diversi temi: il fondamentalismo religioso nelle sue varie forme: dalla pellicola d’apertura The Reluctant Fundamentalist di Mira Nair (Fuori Concorso) con la frattura tra mondo cattolico e mondo islamico dopo l’11 settembre, a Paradise: Glaube di Ulrich Seidl (Venezia 69) sulla fede che diventa ossessione patologica, a Fill the Void di Rama Burshtein (Venezia 69) dove le tradizioni ebraiche possono condizionare le aspirazioni di una giovane ragazza, ed anche nel bel film di Hiam Abbas (l’attrice de Il giardino di limoni e L’ospite inatteso) Heritage (Giornate degli Autori) su una famiglia palestinese che vive al Nord della Galilea coinvolta nella preparazione del matrimonio di una delle proprie figlie mentre infuria la guerra tra Israele e Libano.
Di fede parla anche il complesso (e lungo) film di Terrence Malik To the Wonder (Venezia 69), con un sacerdote (interpretato da Javier Bardem) in crisi religiosa dinanzi a ciò che vede quotidianamente incontrando i propri fedeli. I pensieri del religioso su amore, miserie umane, tristezze, che gli pongono dubbi sul proprio essere testimone e portatore della parola del Signore.
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[*Famiglia*]
Sui matrimoni e la famiglia, possiamo citare la divertente commedia, presentata Fuori Concorso, della danese Susanne Bier Love is All You Need, che ha abbandonato per un momento le storie drammatiche (Un mondo migliore) per concedersi una “vacanza” a Sorrento con gli attori protagonisti Trine Dyrholm e Pierce Brosnan. Di famiglia e di affetti, i ricordi di una madre tenera e amante della vita, parla il film di Sarah Polley Stories We Tell (Giornate degli Autori), basata sui ricordi – anche visivi come i filmini in super 8 – di chi l’ha conosciuta in gioventù.
Famiglie come luoghi di conflitti e amarezze. Gli equilibristi di Ivano De Matteo (Orizzonti) parla di un fallimento di un matrimonio. Un marito e padre amorevole (Valerio Mastandrea) per un fugace tradimento perderà l’amore della propria moglie (Barbara Bobulava) e il mondo gli crollerà addosso. Gli resterà l’affetto dei figli per i quali, letteralmente, si toglierà il pane di bocca; in bolletta per pagare gli alimenti, finirà per andare a dormire in auto.
Scontri in famiglia anche in Blondie della svedese Jesper Ganslandt (Giornate degli Autori), con tre figlie belle e problematiche, con vita e amori indipendenti, che si ritroveranno a casa dell’anziana madre per la sua festa di compleanno. La rimpatriata sarà l’occasione per fare un bilancio, difficile, delle proprie vite ricche di successi e fallimenti.
Il desiderio di famiglia è anche presente nel film filippino di Brillante Mendoza Sinapupuan (Thy womb, Venezia 69), dove una coppia di pescatori musulmani, marito e moglie, non possono avere figli. La donna allora decide, dal momento che è possibile la poligamia, di trovare al proprio marito una giovane compagna in grado di dargli un erede maschio. La tradizione locale vuole però che alla famiglia della giovane sia offerta una cospicua dote, in base all’età e al livello sociale della ragazza. Tra incertezze e sacrifici, la coppia raggiungerà lo scopo, ma la prima moglie verrà poi ripudiata.
La famiglia, quella americana, di coltivatori di grano dell’Iowa, è presente anche nel film del 37enne regista Ramin Bahrani, At any Price. Il rapporto padre-figlio (la coppia Dennis Quaid-Zac Efron) il primo spera che il figlio prenda in mano il lavoro di famiglia, il secondo invece che vuole diventare un abile pilota professionista di auto da corsa. Un litigio, una rivalità tra famiglie, e scoppierà il dramma nell’assolata Midwest.
La propria famiglia è ciò che conta soprattutto al personaggio del film di Ariel Vromen Iceman (Fuori Concorso). Richard Kuklinski (interpretato magnificamente dall’attore Michael Shannon) era un marito amorevole, padre devoto e spietato killer professionista polacco che tra il 1954 e il 1985 ha ucciso più di 250 persone. Un uomo dalla doppia personalità capace di amare le proprie figlie quanto di uccidere con la più forte efferatezza.
La famiglia italiana siciliana Ciraulo è quella descritta da Daniele Ciprì nel film E’ stato il figlio (Venezia 69). Famiglia sottoproletaria di quartiere degradato, dove il riscatto alla miseria arriverà dalla morte della figlia più piccola, uccisa da una pallottola vagante per mano di un sicario. Con il denaro riscosso dallo Stato per le vittime di mafia, il padre di famiglia Nicola (Toni Servillo) acquisterà un’auto Mercedes; il riscatto sociale però sarà per la famiglia una grande maledizione che condurrà al dramma.
Famiglie proletarie sono quelle che lavorano nelle fonderie nel film Acciaio di Stefano Mordini (Giornate degli Autori). La storia è tratta dall’omonimo romanzo di Silvia Avallone. Due ragazzine adolescenti, Anna (Matilde Giannini) e Francesca (Anna Bellezza) vivono a Piombino, accanto alle acciaierie, dove lavorano i propri parenti. L’estate, la voglia di un viaggio all’isola d’Elba, gli amori, i bisticci, il desiderio di una vita diversa, mentre le fonderie sono lì, grigie, immense, pericolose.
Famiglie, a modo loro, sono quelle giapponesi yakuza presenti nel crudo film di Takeshi Kitano Outrage Beyond (Venezia 69) Seguito ideale di Outrage del 2010 sempre dello stesso regista; qui c’è un ispettore di polizia corrotto che per seminare zizzania tra famiglie, recupera un vecchio boss in prigione Otomo (lo stesso Kitano) e lo utilizza per liquidare le altre gangs con lo scopo di riportare la pace a Tokyo e ottenerne così i meriti di carriera. Ma Otomo, ritornato alla guida della sua vecchia banda, non cadrà nel giochetto, e compirà una propria personale vendetta.
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[*Terrence Malick e Brian De Palma tra le delusioni*]
Tra le delusioni di questa Mostra vi sono le opere in concorso di Terrence Malick e Brian De Palma. Il primo, con To the Wonder, ha realizzato una specie di prolungamento ideale di The Tree of Life. “Voce Off” della protagonista, la bella attrice e modella ucraina Olga Kurylenko nella parte di Marina, fidanzata con lo sceneggiatore Neil (Ben Affleck). Il film si apre con il viaggio della coppia in Francia, per raggiungere Mont Saint-Michel (anche conosciuta come “la Meraviglia”).
Con una fotografia sempre sublime e possente (merito di Emmanuel Lubezki) e le musiche solenni di Dvorak, Wagner, Berlioz. Malick rende i paesaggi sempre spettacolari e sublimi sia in Francia (la marea della zona, il cielo nelle sue sfumature, i protagonisti colti nei loro momenti di passeggiata e di intimità) sia in Oklahoma (le distese dei campi) dove Neil troverà lavoro come tecnico specializzato in inquinamento ambientale. Marina seguirà negli States, con la figlia adolescente, il suo innamorato. Dai momenti di felicità si passa ai dubbi, alle incertezze di Neil, fino ai momenti di silenzio e di incomprensioni della coppia.
Neil è quasi muto nel film; parlano sempre i gesti, le espressioni, gli slanci sia di passione che di rabbia. Quando Marina, anche a causa della scadenza del visto, è costretta a tornare in Europa, Neil riallaccerà un legame con una vecchia fiamma, Jane (Rachel McAdams). Marina, tornata di nuovo negli Stati Uniti, cercherà conforto nella parola di un sacerdote spagnolo, Padre Quintana, (Javier Bardem) che, però, è a sua volta entrato in crisi con la propria fede.
Anche il ruolo dell’attore spagnolo in questa storia risulta incomprensibile. La pellicola, nonostante il fascino, non riesce a reggere per 112 minuti l’argomento della storia. Tra pensieri d’amore (a volte troppo sdolcinati) e riflessioni sull’Amore in generale e sulla fede, la pellicola rischia (pregio o difetto dello stile di questo regista) di fondere aspetti documentaristici sulla natura e elevati intellettualismi. Non si comprende, inoltre, l’utilità della presenza di un personaggio, interpretato dall’attrice italiana Romina Mondello, nella parte di Anna, una conoscente in America di Marina, presente per pochi minuti nella pellicola, che, durante una passeggiata per le vie di Bartlesville, in Oklahoma, le dice: «La vita è un sogno e un sogno non puoi sbagliarlo». Oppure: «Io sono l’esperimento di me stessa. Voglio qualcuno che mi sorprenda».
La seconda delusione è stata il film in concorso Passion di Brian De Palma. La pellicola dell 72enne regista statunitense, remake del film francese Crime d’amour (diretto da Alain Corneau nel 2010, interpreti Ludivine Seigner e Kristin Scott Thomas) prometteva un torbido noir ad alta tensione condito con rapporto lesbico tra le due protagoniste, la bionda Christine (Rachel McAdams) e la bruna Isabelle (Noomi Rapace).
La storia è ambientata a Berlino nel mondo degli affari internazionali. Christine è una manager senza scrupoli, e Isabelle è una geniale creatrice pubblicitaria alle sue dipendenze. Le due formano una squadra e sono amiche; tuttavia un giorno Christine si impossessa di un’idea pubblicitaria della sua dipendente per il lancio di un nuovo cellulare. Ciò le permette di conseguire una promozione e un trasferimento negli Usa. Isabelle, intanto, va a letto con uno degli amanti di Christine e farà di tutto per riappropriarsi della campagna pubblicitaria che le è stata rubata. Poi una notte, Christine viene uccisa… La pellicola ha un inizio interessante.
Gli elementi e le atmosfere all’inizio ci sono tutte per creare ciò che il regista intende promettere; trascorsa una mezz’ora, invece, la storia si sfilaccia. Mentre Rachel McAdams ce la mette tutta per fare la manager seducente e perfida, Noomi Rapace non dimostra quell’aria di donna intrigata e conturbante che dovrebbe acquisire quando la vicenda si dovrebbe fare torbida. Usiamo il condizionale perché la storia non riesce a trasmettere quel pathos che il regista cercava.
Tutto è freddo, un po’ scontato, a volte insulso, dove nemmeno i giochi visivi di De Palma riescono a dare quegli effetti trovati in altre sue pellicole. A nulla riescono le trovate “deja-vu” dell’assassino mascherato, dell’elemento di prova nascosto, delle immagini riprese da un cellulare, il personaggio e il suo doppio, l’incubo e il sogno. De Palma qui gioca per l’ennesima volta al cinema alla Hitchcock, ma provoca solo qualche sbadiglio. Si salva solo la musica di Pino Donaggio, tornato a lavorare con il regista dopo un decennio, che con enfasi e coinvolgimento, cerca di tirare su una pellicola non riuscita.
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[*Le pellicole italiane*]
La valutazione sulle pellicole italiane presentate alle Mostra, tranne qualche eccezione, è stata la sufficienza. Delle pellicole in concorso, l’unica che spiccava per interesse e considerazione, è stata quella del regista Marco Bellocchio Bella addormentata.
Tralasciamo le polemiche post-Mostra sul cinema provinciale italiano, perché non hanno senso. Il nostro cinema, da sempre, quando si dimostra originale e ha qualcosa da dire, riceve il plauso e vince anche all’estero (vedi ad esempio Garrone, Sorrentino, Calopresti, Mazzacurati, Ozpetek, Vicari ecc.). Talvolta sono i gusti, le tendenze, le scelte di giurie più o meno competenti a valutare la qualità artistica di un film.
Tuttavia le pellicole vengono poi sottoposte al giudizio del pubblico in sala e dalla critica ed è questo ciò che conta. Se all’uscita dalla sala, un film lascia il segno e fa pensare, i meriti per vincere un premio passano in secondo piano. All’uscita dalla prima proiezione per la stampa del film di Bellocchio, c’erano molti giornalisti che discutevano sulla pellicola; non se era bella o se era fatta male, ma sul contenuto del film e sulle storie che erano state rappresentate.
I dubbi, le incertezze, i drammi, le considerazioni sull’eutanasia, i momenti di cronaca televisiva avvenuti negli ultimi giorni, nell’imminenza della conclusione della vicenda di Eluana. Il regista, con partecipazione ed estrema attenzione, mette in risalto le contraddizioni, le discussioni politiche, la sofferenza e le certezze di chi si espone, sia a favore sia contro, su un tema così difficile laico e nel contempo religioso; la sacralità della vita contro il libero arbitrio.
Del film, forse la parte meno riuscita, è quella che vede protagonista Isabelle Huppert nella parte di un’importante attrice francese che prega in maniera ossessiva (ed esagitata) perché avvenga il miracolo dell’uscita dal coma della sua adorata figlia.
Suo figlio, (Brenno Placido) pur di non vedere sua madre così disperata e sofferente, tenterà di staccare il boccaglio della respirazione artificiale che tiene in vita sua sorella. Più intensa, invece, la parte di Toni Servillo, che interpreta un senatore del Pdl, Uliano Beffardi, che proprio durante gli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro vorrebbe agire secondo coscienza e non secondo la disciplina di partito, votando contro la legge proposta dalla sua compagine che imponeva l’alimentazione e l’idratazione forzata a quei soggetti non in grado di provvedere a se stessi.
Il senatore subirà fortissime pressioni dai suoi colleghi di partito, per votare conformemente alla maggioranza, in un momento di grande difficoltà politica del Governo. Nello stesso tempo egli vivrà un momento di crisi con la figlia Maria (Alba Rohrwacher), il cui rapporto si era incrinato dopo la morte della madre ad esito di una grave malattia e per quel motivo Maria era diventata una attivista del Movimento per la vita. Se suscitano profonda ed amara ilarità i due brevi dialoghi-siparietti leggeri tra il senatore Uliano e il senatore psichiatra Roberto Herlitzka, il ritratto che ne fa Bellocchio della cronaca di quei giorni del febbraio 2009 è la rappresentazione di un’eutanasia della classe politica, capace solo di parlarsi addosso e di trovare rimedi strumentali ai fini della propria sopravvivenza. E su tutte le buone intenzioni di leggi parlamentari sul diritto all’eutanasia, una volta finito il caso Englaro, si sono spenti i riflettori.
La pellicola in concorso Un giorno speciale della 51enne regista Francesca Comencini (Mi piace lavorare, A casa nostra, Lo spazio bianco) racconta una storia di giovani d’oggi, immersa tra desiderio di successo, faticosa ricerca del lavoro, sogni e speranze infranti.
I protagonisti sono la diciannovenne Gina (Giulia Valentini) che sogna di fare l’attrice, e Marco (Filippo Scicchitano, già visto in Scialla!) al suo primo giorno di lavoro come autista. Egli deve condurre la ragazza all’appuntamento con un politico che dovrebbe aiutarla ad entrare nel mondo dello spettacolo. Dalla segreteria dell’onorevole continuano a far slittare l’appuntamento e Marco si vede costretto, per passare il tempo, a girare per Roma con la ragazza.
La storia è tutta qui, ed ha un cliché abbastanza prevedibile. Da un primo momento di diffidenza e di incomprensione di parte della ragazza, si passa poi al momento dell’amicizia, al lasciarsi andare a confidenze, sogni speranze sulla propria condizione. E dalle prime bugie si passerà poi alla verità, che è ben diversa da ciò che loro idealizzavano. Pantheon, Fori Imperiali, Trinità dei Monti, ecc.
I luoghi visitati durante la giornata sono diversi. La pellicola è gradevole, ma non colpisce più di tanto. La critica non ha né applaudito né fischiato il film; sono rimasti tutti molto indifferenti. Il film non è Bellissima di Visconti anche se fa riflettere il comportamento di certi genitori disposti a tutto pur di lanciare al successo le proprie figlie, anche a farle finire nelle mani (nel letto) di certi arroganti uomini di potere. Insufficiente.
Per ultimo invece citiamo con piacere L’intervallo di Leonardo Di Costanzo. Un piccolo film, con una storia intensa, presentato nella sezione Orizzonti, ma che poteva benissimo figurare in concorso. Il film è ambientato alle porte di Napoli, prevalentemente in un complesso abbandonato (l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi). Personaggi principali sono due ragazzi: Salvatore (Alessio Gallo) che aiuta il padre nella vendita di limonate e granite con il carrettino, e Veronica (Francesca Riso) una sua coetanea. A Salvatore è stato ordinato da alcuni camorristi di interrompere il proprio lavoro e di sorvegliare Veronica tenuta segregata all’interno dell’edificio.
Veronica si comporta da donna matura e spregiudicata. Salvatore da vero uomo responsabile che deve badare al lavoro e alla tranquillità. Entrambi vivono la loro reclusione in maniera diversa: Veronica scalpita e si ribella; Salvatore è più remissivo e accomodante, non si sa se per paura o realismo. Tra le mura di quel luogo isolato e sconosciuto, dopo una prima diffidenza, i due faranno amicizia e si abbandoneranno a sogni e speranze reciproche.
L’intervallo sarà quel breve momento vissuto di pausa dalle loro esistenze precocemente adulte, prima che il capo della banda si presenti nell’edificio per risolvere una questione con la ragazzina. La pellicola, coronata dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi, racconta un luogo, Napoli (che potrebbe essere ovunque, ma dove questa città rappresenta la bellezza e il dramma di un tessuto sociale) e una storia intensa, forte, amara e dolce allo stesso tempo.
Due ragazzini troppo maturi che invece dovrebbero godere dei loro anni migliori, costretti a convivere come vittime di una stessa tragedia. Davvero belli e intensi i momenti in cui i due ragazzi vanno ad esplorare i luoghi oscuri e diroccati del vasto complesso, e quando su una barchetta, trovata in uno scantinato allagato, immaginano di vivere un momento spensierato da reality show. Bravi nella loro spontaneità i due giovani attori che rendono plausibili, con il loro dialetto napoletano stretto, i due personaggi. Davvero un bel film.
(nelle foto immagini dei film trattati e Marco Bellocchio alla conferenza stampa)
Andrea Curcione
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