Al cinema The Fabelmans di Spielberg + Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh

Critico di cinema, il nostro fedelissimo Armando Lostaglio ci manda le sue recensioni di due grandi film, pluripremiati ai Golden Globes 2023 e non solo: “The Fabelmans” diretto da Steven Spielberg e “Gli spiriti dell’isola” (The Banshees of Inisherin) scritto e diretto da Martin McDonagh, attualmente al cinema, in Francia e in Italia. Non sono certo film italiani, ma il cinema non ha frontiere e siamo del parere che questi due ottimi film si meritano uno spazio anche su Altritaliani.

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The Fabelmans, diretto da Steven Spielberg

Ha vinto di recente due tra i più importanti Golden Globes: Miglior film drammatico e migliore regia. Nelle sale francesi dal 22 febbraio. Un capolavoro da vedere.

QUI IL TRAILER DEL FILM

Uno cineasta che in uno stesso anno produce due film radicalmente opposti, non è solo un bravo regista, ma è un genio: quell’anno era il 1993, i film Schindler’s List e Jurassik Park. Parliamo di Steven Spielberg, 76enne compiuti il 18 dicembre scorso, in contemporanea con l’uscita del suo ultimo capolavoro The Fabelmans. Che ripercorre la sua infanzia e l’adolescenza in quella sua bella famiglia borghese di origine ebrea, in una America intollerante. Ma non è solo un film sulla sua infanzia.

Tutti hanno un film da raccontarsi: la propria vita, o le vite altrui. Ognuno ha un suo piccolo schermo sul quale si muovono sogni e speranze talvolta represse. I cineasti ce li fanno guardare sullo schermo. Tante le storie di bambini e adolescenti che guardano gli adulti: Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (1982), Amarcord di Federico Fellini (1982), Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (1988), Il nastro bianco di Michael Haneke (2009), Hugo Cabret di Martin Scorsese (2011). E Steven Spielberg, oggi, ci regala con maestria ancora un’opera toccante. È The Fabelmans, che scandisce un sinuoso resoconto-tributo a se stesso, alla sua vocazione per il cinema scaturita nella infanzia e in adolescenza. Maestosa lezione spielberghiana su quanto si possa amare il cinema, che si introduce con un “Grazie” rivolto al pubblico che lo vede in sala, in un afflato collettivo.

Il film parte con la forza di un treno, come alle origini del cinema in L’arrivée d’un train à La Ciotat (dei Fratelli Lumière, 1896), ma quello della sua prima visione in una sala è di Cecil B. DeMille Il più grande spettacolo del mondo, quando aveva compiuto sei anni. Il suo alter ego nel film si chiama Sammy Fabelman (Mateo Zoryan e poi Gabriel LaBelle); a condurlo per mano fra paura e stupore sono i suoi genitori (Paul Dano e Michelle Williams, eccellenti). Gli occhi del piccolo si spalancano per la traumatica scena di un treno che investe una vettura sui binari: è una armoniosa ossessione che non smetterà di riprodurre con la sua prima cinepresa, regalo di sua madre, creativa pianista (con alto senso di ironia) ma un po’ alienata nel ruolo di madre-moglie: splendide le scene in cui suona brani classici (da Beethoven a Muzio Clementi) e danza davanti ai fari dell’auto mentre con la famiglia sono in un camping. Per Sammy inizia la sua vocazione verso le immagini, in un film carico di ellissi e di scene amatoriali, a colmare una mancanza (coi difficili rapporti familiari da borghesia ebraica, America primi anni ‘50) in quell’infanzia che il regista non ha mai smesso di tributare in molti suoi film. Spielberg elargisce poesia pura: le mani del piccolo Sammy che si fanno schermo per accogliere delicatamente le immagini da lui girate, sembra un pulcino che esce dal suo guscio. Sammy, tuttavia, nella sua famiglia (ha tre sorelline più piccole) è un po’ combattuto fra l’essere un artista o solo uno scienziato, seguire l’istinto materno o quello del padre, ingegnere in carriera. Un binomio affettivo che fa crescere dentro di se il creativo e lo scienziato. Così Sammy userà la macchina da presa con le sorelline e gli amici: si ingegna per attuare espedienti cinematografici quando dà l’impressione che le pistole di piccoli cowboy sparino davvero. Il futuro genio di E.T. e di altri capolavori è in nuce. Ma Spielberg dà adito pure all’antisemitismo quando, in California, Sammy verrà bullizzato da due compagni di liceo ben più alti. È qui che diventa preponderante la forza del cinema: Sammy si prende la sua rivincita su di loro quando monta il filmato celebrativo della maturità facendo sembrare uno dei due un perdente assoluto e l’altro un esponente della razza ariana che vince una gara di atletica (come in Olympia di Leni Riefenstahl).

Il futuro artistico di Fabelman-Spielberg si spalancherà nell’incontro finale con il suo idolo, John Ford: eccezionale l’interpretazione di David Lynch. È una breve lezione sulla estetica che porta ad individuare l’orizzonte su una immagine. Con domande colleriche a cui risponde da solo, Ford-Lynch sembra passi il testimone ad uno dei più geniali esponenti della generazione che verrà. A soli 25 anni girerà Duel e a 30 il suo cult Lo squalo.
Eravamo a Venezia quando nel 1993 Gillo Pontecorvo gli consegnò il Leone d’oro alla carriera.

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Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) scritto e diretto da Martin McDonagh con Colin Farrel e Blendan Gleeson.

Al cinema in Francia dal 4 gennaio. Ai Golden Globes 2023: migliore commedia, migliore sceneggiatura e  miglior attore a Colin Farrell. IL TRAILER QUI.

La banalità della noia e della guerra

«Che c’è di più duro d’una pietra e di più molle dell’acqua? Eppure la molle acqua scava la dura pietra.»

Sovviene questo verso di Ovidio, dopo aver gustato un film scenicamente maestoso (effetto che solo la visione in sala sa offrire) e con due attori che sulla propria fisicità sanno fare da perno al tutto. E c’è l’isola chissà quanto immaginaria, di fronte all’Irlanda, che appare e gioca sulle luci verdi dei prati fino a sprofondare nelle granitiche rocce tormentate dal mare.

« Gli spiriti dell’isola » di Martin McDonagh (The Banshees of Inisherin), così presentato a Venezia lo scorso settembre, dove ha vinto diversi premi, ed oggi ha ben nove candidature agli Oscar, è un accumulo di segni visivi e di metafore, a partire dalla vecchia “fata cattiva” (la banshee del titolo) che è lo spirito dell’isola come tradizione celtica include. La chiave di lettura sta in una amicizia che il fato o la noia vuole che si interrompa. Sono loro: Pàdraic giovane allevatore (un impagabile Colin Farrel) e il suo più anziano contraltare Colm, (Blendan Gleeson, incommensurabile) a giocare con la voce e la fisicità, fra movimenti interiori e quelli poco esteriori di singulti scomposti: lo spettatore si identifica in una equidistanza impercettibile.
Quando vedemmo il film a Venezia ci chiedevamo della eccessiva potenza visiva ed interpretativa di questo capolavoro che in fondo, beckettianamente, tratta di una banale volontà di uscire dalle consuetudini o dalla noia dei rapporti quotidiani. Un amico che d’improvviso rifiuta l’altro, per motivi futili o per monotonia, e interrompe una normalità che in quel luogo remoto rimane eterna, senza sbocco. E c’è la guerra che lampeggia al di là della costa, la guerra civile irlandese del 1923; guerre che tutt’ora scoppiano qua e là: il geniale film di Martin McDonagh rappresenta una tragica metafora. Sarà nel profondo la banalità dell’odio, l’allontanamento di un amico che reputa noioso o, ancora, il dar corso alle esigenze della Storia che non si premura di conoscere le esigenze di ciascun uomo.

Pàdraic e Colm danno corpo ed anima ad un rapporto che “deve” finire, nonostante le resistenze del giovane che non si rassegna a rinunciare alle serate insieme nel pub, aggregante ritrovo del villaggio, nel quale gli animali fanno da sostegno a un tempo mai liberato. Colm suona il violino, fino allo stremo delle dita che intende mozzarsi ogni qualvolta Pàdraic (questo è il ricatto) intenda riavvicinarsi a lui. Colm vorrebbe che la sua musica si tramandasse e magari fosse immortale, come lo è Mozart. È un rude, della gentilezza non vuole saperne perché Mozart, pensa, non era gentile ma un genio. Forse è qui la nevrosi di un uomo che sceglie l’autolesionismo all’apparenza della quotidianità.

Ci conduce ad una riflessione l’eccellente regista irlandese (come i due protagonisti) verso l’idea di amicizia, su come possa estendere il proprio respiro fino a legare interi popoli nel mutuo legame che li rinsalda o su come eventi irragionevoli possano minarla, nella banalità dell’odio e della guerra.

Armando Lostaglio

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Armando Lostaglio
ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica - Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l'imbrunire (2012); Il genio contro - Guy Debord e il cinema nell'avangardia (2013); La strada meno battura - a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.

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