A Parigi, un sorprendente incontro con Didone

Un’amica, o forse dovrei dire, una promessa di amica, cioè una persona conosciuta qualche anno fa a un festival letterario in Sardegna, dove mi aveva colpito per una sua originale lettura-trasposizione di Dante e, anche, mi aveva fatto una gran simpatia, e che poi si è trasferita a Parigi, dove vive il fratello (cantante lirico), o piuttosto, semitrasferita, nel senso che si sposta fra Parigi e Milano, e che ogni volta che viene a Parigi dobbiamo andarci a prendere un certo caffè insieme che però ancora non abbiamo mai preso – tutto ciò per dire che questa amica, o promessa di amica, quel che fa, pensa e scrive mica lo conosco a fondo – questa amica o promessa etc., dunque, mi scrive : « Venerdì 14 marzo sarò a Parigi, per un reading presentazione dello spettacolo che ho scritto su Didone, a la librairie italienne Tour de Babel… perché non vieni così ci rivediamo? »

Ed io, lo confesso, mi sono sentito nel mio abituale stato « sì e no »: da un lato (sì), sarei contento finalmente di rivederla; dall’altro (no), tremo all’idea dell’amica, o promessa di…, che scrive uno spettacolo teatrale, e per di più su Didone, un personaggio della mia amata Antichità, del mio Mediterraneo (e se poi, com’è molto probabile, non mi piace, come faccio? che le dico? etc., senza parlare della tortura sulla sedia durante lo spettacolo…); quindi (sì), proprio a causa di questa mia passione per l’Antichità mediterranea sono curioso e (sì e poi sì) c’è anche l’educazione, in senso profondo, per cui un’amica, o promessa di, che come te gioca con le parole scritte va sostenuta, comunque. Insomma, i sì prevalgono… Solo che poi all’ultimo momento mi arriva un messaggio dell’amica in questione che mi dice di aver avuto un impedimento last minute: è dovuta rimanere a Milano… – nuovo brassage dei sì e dei no, attimo d’esitazione (non conoscerò nessuno, sono timido, ho sonno…), ma ecco, oramai sono in cammino. Bref, j’y vais. Entro…

***

L’arte in realtà è spesso una questione di sfumature: un millimetro sei di qua, nella magia, o di là, strangolato dalla noia, dall’irritazione – dentro o fuori. E in fondo, al di là delle analisi più approfondite, basterebbe rispondere a questa domanda : è bello? è brutto? O anche : funziona? non funziona? Ecco, tutto ha funzionato nella serata di venerdì scorso, e in fondo se scrivo queste righe è soprattutto per ringraziare i creatori e interpreti di Didone per la formidabile oretta che ho passato in loro compagnia.

Innanzitutto (li cito, semplicemente, in ordine di apparizione) ringrazio il cantante lirico Diego Bragonzi Bignami. Adesso, a posteriori, mi verrebbe da dire che già nel sorriso radioso con cui ha accolto me come gli altri spettatori c’era il senso di tutta la serata, il suo benefico profumo di libertà. In ogni caso mi ha spinto ad ascoltarlo con più attenzione quando ha spiegato, a introduzione dello spettacolo (in realtà solo stralci, di questo, compressi in meno di un’ora) che quest’opera metteva insieme lirica teatro di prosa e mezzo audiovisivo, come parte della scenografia, per raccontare la storia di Didone, la donna forte e fragile, forte proprio perché fragile, che fonderà Cartagine e conoscerà l’amore con Enea, sino alla sua radicale scelta finale.

Già, come fare a combinare lirica e prosa? quali arie scegliere? con che ritmo combinarle? alternarle? Per rispondere avrei bisogno di vedere lo spettacolo intero (e appena ne avrò l’occasione lo farò). Ma adesso posso già dire questo: quando la rappresentazione è iniziata – ma forse era già iniziata con il sorriso che ci aveva accolto? – quando cioè Maria Silvestrini, che è anche la compagna nella vita di Diego Bragonzi Bignami (lo dico perché è significativo, come si vedrà fra breve), ed è armoniosamente brava (grazie !), ha suonato le sue prime note saltellanti sul piano (in realtà, per una questione di spazio, una semplice tastiera), io ci sono caduto dentro, letteralmente aspirato. Perché subito riconoscevo la struggente e tuttavia speranzosa, inconfondibile tonalità in minore di Kurt Weill, mentre Diego si trasformava in uno splendido, potente baritono, intonando e riempendo la sala con Youkali.

Da sinistra a destra: Maria Silvestrini, Diego Bragonzi Bignami, Isabella Caserta

Poi è arrivata Isabella Caserta che ha interpretato il testo di Silvia Bragonzi (bravissime e grazie n. tre e quattro…), alternandosi con altre arie e canzoni, musiche, sempre miracolosamente infilate al punto giusto: ho riconosciuto Massenet e Benedetto Marcello, Bach (al piano, da solo) e Domenico Modugno, in salsa napoletana, o ancora Bernstein, e scoperto – non la conoscevo – una luminosa Ave Maria di Caccini, in realtà Vavilov, che all’inizio mi son detto, che meraviglia, Schubert, e invece…

Silvia Bragonzi, che oltre ad essere la famosa amica, o promessa di, con cui spero un giorno di prendere un caffè, è anche la sorella di Diego, il che va nel senso di quella prospettiva familiare di cui dicevo prima, anche perché c’era « dall’altro lato » il giovanissimo Riccardo Caserta, assistente alla regia (di sua zia Isabella), figlio di Luca, assente, che si occupa delle videoproiezioni. Insomma, è come se, medioevalmente, due famiglie, una a Parigi, ma con un piede a Milano, l’altra a Verona, si fossero incontrate per intrecciarsi e creare insieme. Due famiglie che agiscono fuori delle mode, delle parrocchie e che sembrano respirare e far respirare un’aria di libertà. (Scopro poi, nelle chiacchiere del dopo, che Isabella Caserta è Direttrice artistica del teatro scientifico di Verona, socialmente impegnato, prolifico e riconosciuto sin dal 1968 ; che Diego Bragonzi Bignami ha fondato, fra Parigi, Roma e Los Angeles la Bertrand GRuss International Academy, al cuore di un’importante attività artistica e teatrale, e ha un cv di cantante lirico impressionante: ma appunto, l’ho scoperto dopo, e serve soprattutto – senza togliergli nulla, per carità – alle chiacchiere o appunto ai cv. Per me, all’ignaro di tutto, solo ha contato, più semplice, scheletrico, essenziale, quel che ho visto e ascoltato nella saletta della Tour de Babel… E anzi, mi son tenuto tutto dentro, non sono andato a cercare nessuna verifica o approfondimento nell’inesauribile web, perché ho voluto provare a scrivere solo di quello che ho visto e udito, e sentito e pensato in quel poco più di un’ora in cui sono stato sul posto…)

Isabella Caserta dunque legge il testo di Silvia Bragonzi, anzi lo fa suo, come se lei ne fosse l’autrice. Insomma Isabella è Silvia che è Didone. Perché il testo è scritto alla prima persona, è la stessa regina che parla, racconta. E che dire, non ho parole… – anzi, ne ho due; è formidabile! Formidabile innanzitutto l’immedesimazione di Isabella, la sua mimica, la sua voce: da notare per altro che questo è un assaggio, una lettura appunto; al teatro – almeno, così ho capito – c’è una vera scenografia, costumi, oltre ai famosi video proiettati sullo schermo. Eppure, adesso non serve altro, i pochi gesti, le espressioni, e la voce, soprattutto la voce – a ricordarci che comunque i testi erano, sono, sempre dovrebbero essere animati dal suono – compiono la trasformazione: Isabella, via Silvia, è Didone. (Dopo lo spettacolo ho voluto dare un’occhiata ai fogli da cui Isabella leggeva, per capire se il testo dava, come un’opera strettamente teatrale o uno spartito di musica, indicazioni più o meno precise, silenzi, enfasi, rallentamenti, etc., per scoprire che era Isabella, da regista, che aveva interpretato, dato vita al testo.)

Quindi – lo nomino per ultimo, forse sarebbe stato più adeguato, cronologicamente, metterlo al primo posto – c’è giustamente il testo di Silvia Bragonzi. La storia che racconta è nota, soprattutto attraverso Virgilio, che nell’Eneide reinventa il personaggio di Didone / Elissa, fondatrice e regina di Cartagine, inserendola in un nuovo ramo della saga troiana : l’incontro e l’amore sventurato con Enea, che sulla via dalla sua ex città distrutta alla nuova città che fonderà sulle coste del Lazio, farà tappa per l’appunto a Cartagine. Anche Didone del resto era dovuta fuggire dalla sua città natale, Tiro, sulle coste fenice, dove il fratello le aveva ucciso il marito, impedendole di accedere al trono; da qui, il suo arrivo sulle coste nord-africane dove dal re Iarba ottiene, attraverso l’astuzia della pelle di bue tagliata in tante striscioline in modo da delimitare una vasta area, il territorio su cui fonderà Cartagine (l’astuzia, è opportuno ricordarlo, ribalta l’umiliazione che un uomo vorrebbe infliggere a una donna – ti darò tanta terra quanto ne può contenere una pelle di bue – in un clamoroso trionfo).

Insomma, è una storia che mette a confronto due esuli-fondatori – solo che Didone è donna, per sopravvivere, per farsi ascoltare ha bisogno di ancor più intelligenza e forza, una diversa forza: ed è dentro questa intelligenza-forza, che è anche sensibilità, fragilità, e straordinario senso di libertà ed accoglienza – Cartagine è una città che accoglie, aperta, vive di coloro che arrivano da fuori – che si insinua Silvia Bragonzi con le sue parole in prima persona, per farla rivivere.

E subito, mi è ritornata in mente la naturalezza graffiante che avevo avvertito in Sardegna, nei suoi « monologhi danteschi », con cui dava voce ad alcuni personaggi femminili della Divina Commedia. Un vero talento, sì, quello di Silvia Bragonzi, fatto di guizzi e cambi di tono, con uno stile delicato ma anche lacerante, sempre sobrio, nel tentativo di comprendere, intuire, entrare dentro la pelle di una figura della letteratura o della mitologia per farla vivere di una vita integralmente umana. E anche di più, qui, per chi ama l’Antichità: sembra improvvisamente di capire perché e come Didone (che non esiste, è inventata, ma che importa?) abbia fondato una città, perché e come abbia sacrificato tutto, sino alla sua stessa persona, per l’infelice amore di un uomo – meno grande e generoso di lei, meno coraggioso, anzi (come molti uomini, se non – ma speriamo di no – tutti) anche un po’ vile, meschino. E soprattutto, lei, Didone, è più libera, ed è come se con la sua storia grandiosa e tragica, forte e piccina, fragile, con le parole che sceglie per esprimersi, semplici, spontanee, ma precise, spesso ulceranti – che sono le parole di Silvia, lo ricordo, parole-dardi, invisibili, che ci navigano, ci pungono dentro – sempre costruisse, martellasse dentro le orecchie, la testa di chi la ascolta e soffre con lei nel pubblico, questo insopprimibile, irrinunciabile senso di libertà.

Ed ecco, a un certo punto mi è sembrato di capire che, ma sì, certo (o forse me lo sto inventando?), Diego che canta e la interrompe, si alterna con Isabella-Silvia-Didone, è Enea. L’amore che canta e seduce, l’amore che consola e fa soffrire, che inebria ed uccide. L’amore che – è esperienza comune di noi umani, donne e uomini – è sempre un po’ al passato, è nostalgia. E tuttavia, anche nel suo naufragio, Didone ci appare un gigante, un modello di anticonformismo e libertà, Enea un pover’uomo, che si nasconde dietro un’interpretazione troppo facile, e vile, del destino. Da qui, anche, ma dal punto di vista femminile – che tuttavia, è augurabile, potrebbe contagiare anche gli uomini – c’è una fine meditazione nei vuoti bianchi fra le parole: abbiamo uno spazio dentro le costrizioni del destino? possiamo giocarci, e come, le carte che questo destino, a cui anche gli dèi sono sottomessi, ci mette in mano? Paradosso della fragilità e dell’imperfezione: gli umani, a differenza degli dèi, possono aspirare alla libertà. Le donne insegnano.

Quindi, con e da tutto questo tornandomene a casa, scosso e commosso, la testa ancora piena di tante sensazioni, domande, pensavo che forse questa è la cosa più bella dell’arte, almeno, dell’arte che mi sento più vicina. Cioè la capacità di parlare delle cose, del mondo, delle grandi questioni, esistenziali o sociali – continuamente durante lo spettacolo si sente mormorare il Mediterraneo di oggi, con i suoi fuggiaschi, i suoi morti, gli uomini e le donne, i bambini, che il mare, altri uomini, ora soccorrono ora annegano insieme alle loro speranze – ma attraverso una microstoria, senza pontificare, senza fare grandi discorsi, solo restando avvinghiati al filo di una storia di vita, qui la difficoltà e il privilegio di essere donna, e da donna accedere al potere, da donna lottare ed amare. Dentro la microstoria, dentro quel frammento di vita, subito prima della tragedia imminente, si può raccontare il mondo intero, l’umanità, i suoi dolori, la sua complessità – non esistono i « nemici assoluti », non bisogna fabbricarsene, il tuo Enea, che ti affonda, è anche colui che hai amato, che ami – le speranze di riscatto. Per questo l’arte può e deve provocare, infrangere le facili certezze, le formulette facili, urticare, come diceva Tabucchi, scuotere, turbare, e anche consolare, cullare, fare sognare, forse illudere, che un altro spazio sia possibile, ma non come una roboante, quasi metallica società perfetta, bensì come un piccolo cortile tiepido pieno di amici, uno spazio quasi più privato che pubblico.

« Didone », spettacolo prodotto dal Teatro scientifico di Verona

Certo, qualcuno potrebbe chiedersi se l’entusiasmo espresso in queste righe non sia eccessivo, considerando che ho soltanto visto la presentazione di uno spettacolo, anche se è pur vero che a questo anche servono le presentazioni: ad accendere curiosità ed entusiasmo – ma insomma, calma… A questa obiezione o domanda risponderei semplicemente: io l’altra sera alla Tour de Babel sono entrato di pessimo umore, come avvelenato da alcune recenti discussioni, perché lo stato acciaccatissimo e cupo del mondo, con la legge della forza arrogante che sembra sempre di più governarlo, è esploso oramai dentro molte delle mie amicizie, dentro una parte della « mia » sinistra, instancabile nel lanciare proclami e fabbricare nemici da odiare, sempre pronta a impallinare chi solo tenta, compassionevolmente, di addentrarsi nella fragile complessità delle cose, e intollerante a qualunque tentativo di interrogarsi, dubitare, sottrarsi alle formule assertive. E sono uscito volando, leggero, perché in quella saletta della Tour de Babel mi è sembrato di intravedere un possibile antidoto. ♫ Youkali / C’est le pays de nos désirs / Youkali / C’est le bonheur, c’est le plaisir…

Giuseppe A. Samonà

p.s. Domani però, è ovvio, sul web ci vado e mi informo, e appena qua a Parigi si dà lo spettacolo vero e proprio, lo vado senz’altro a vedere, e mi sento di consigliare a chi mi avesse letto fino a qui di fare altrettanto… E poi sì, dimenticavo, farò un salto alla Tour de Babel: perché alla riuscita della serata ha contribuito anche l’organizzazione e la generosa accoglienza di Sara Tamborrino e Alice Tonasso (grazie anche loro, dunque !), e sarei curioso di fare due chiacchiere per saperne un po’ di più sulla nuova gestione, di cui ho avuto notizia venerdì, e i suoi progetti.

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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