Montmartre, dove abito, è qualcosa di molto diverso da Montmartre. Qui, in rue des Martyrs, c’è un cabaret diretto fino a poco tempo fa da Michou, vescovo del travestitismo kitsch; famosissimo in Francia. È morto recentemente. Lo incontravo dal parrucchiere, dove andava tutti i giorni. Sempre vestito di un particolare blu elettrico. Il suo locale era a metà strada tra bordello (dopo la serata, un tempo, i cantanti si prostituivano nelle strade vicine, per arrotondare) e spettacolo.
Nel tempo, è rimasto lo spettacolo. Prima della pandemia sbarcavano a frotte turisti della provincia francese, oppure russi. Che si mescolavano agli habitués di Montmartre. Michou stava all’ingresso e stringeva la mano a tutti. Coppie casalinghe o gruppi di amiconi in cerca di una modesta trasgressione per conto terzi, che strabuzzavano gli occhi di fronte a marcantoni travestiti e spavaldi, con gambe lunghissime. I marcantoni cantano e ballano, imitando stelle del passato e del presente. Carichi di quella aggressiva cortesia tipica dei giovani belli e ambiziosi, fieri della loro merce, convinti di possedere l’assoluto. Apparentemente ignari della tristezza e della morte. Poi lo spettacolo finisce, gli habitués restano a chiacchierare o a cercare qualcos’altro. I gruppi di francesi provinciali escono, scendono dalla butte (la collinetta) montmartriana, e tornano all’albergo, in attesa che gli autobus li riportino a casa.
Durante la guerra quel locale (mi raccontano) era stato una sede della Gestapo. Attorno, già fioriva la prostituzione maschile, il travestitismo. Gli ufficiali nazisti si accompagnavano a femminielli. L’incrocio tra feroce disciplina destrorsa e ambiguità sessuale, raccontato dal personaggio intepretato da Helmut Berger nella “Caduta degli dei”, di Luchino Visconti.
Quell’ombra lunga, dei ganci da macellaio nazisti, è rimasta nel tempo. Io credo di vederla e forse non c’è. I turisti in cerca di trasgressione confezionata non la vedono (non vedono nulla), e forse c’è. Michou era vicino all’estrema destra. Amico di Jean-Marie Le Pen e poi della figlia Marine. Anche se aveva sostenuto varianti di destra più morbide, come Sarkozy nel 2007 (più che un post-fascista, titolo che sarebbe ingiusto attribuirgli, un nevrastenico).
È il mondo della Francia nazionalista, profondamente di destra, al tempo stesso conservatrice e trasgressiva, moralista e libertina. Con profonde tracce di antisemitismo: talvolta, nelle conversazioni, esce la parola youpin, termine popolare e dispregiativo che riporta alla Francia dell’affaire Dreyfus. E quell’idea che si stia bene solo nel fortino di una comunità ristretta, dove tutti si conoscono, ogni giorno ci si saluta e si fanno due chiacchiere, gli uomini si travestono da donne e si accarezzano, rimanendo veri uomini però. Dove il travestitismo di Rue des Martyrs va di pari passo con la virile amicizia e la forte stretta di mano delle canzoni di Brassens.
Lì a pochi passi, all’incrocio tra Rue des Martyrs e rue d’Orsel, c’è una boulangerie molto di moda tra i bobos : prezzi stratosferici, fila perenne. Nel sottosuolo della panetteria, durante la guerra, qualcuno nascondeva gli ebrei per sottrarli alla deportazione. Io ho molti amici ebrei, mi dice un signore che è nato in quel mondo, nella Montmartre degli anni Quaranta, e con Michou ha condiviso marciapiede, teatro e letto. È estremamente giovanile e mi riempie di consigli per mantenere la freschezza della pelle. Anche lui è di estrema destra. Dice che Marine (Le Pen, ma lui la chiama per nome) è così una brava persona, ma che “non la lasceranno mai vincere”. Perché sei di estrema destra? Gli chiedo. “Perché dobbiamo mantenere tutta quella feccia” (e indica la direzione di Barbès, de la Goutte d’Or, dei quartieri multietnici a est di Montmartre), risponde, “mentre la madre del mio amico, francese, prende pochissimo di pensione”, dice. Che lavoro faceva la madre del tuo amico? Lavorava, assieme al marito, nel ristorante in Rue d’Orsel, a due passi dal Théâtre de l’Atelier, dove ora si trovano spesso attori celebri, a cena dopo lo spettacolo.
Il marito era uno degli amanti di Michou, lei faceva finta di non saperlo ma lo sapevano tutti. Poi aggiunge: è vero che ha sempre lavorato in nero e non ha mai versato i contributi. Però. La Francia ai francesi. Tutto lì. Allora io sono fritto, gli dico: sono italiano. Macché, non c’entra, se uno lavora, si comporta come si deve e paga le tasse va bene. (La madre del suo amico, però, non le pagava). E mi parla dell’Italia, di Dalida che era mezza italiana, delle canzoni di Mina. Poi, per dimostrarmi di non essere razzista, mi racconta di una sua avventura con un garagista nero. Gli si era guastata la macchina, va in un’autofficina e incontra questo ragazzo. “Magnifico”. Lo rimorchia, prima si fa aggiustare la macchina e poi, nonostante una certa differenza d’età, se lo porta a letto. Tutto bene, fino a quando… quando cosa? Eh, dice. “Avessi visto le dimensioni. Una roba sproporzionata. Gli ho detto, scusa chéri, troppo per me. Non ce la faccio mica sai”.
È tornato ai bianchi; ma il razzismo non c’entra. A maggio dell’anno prossimo ci saranno le presidenziali, e chissà.
Maurizio Puppo