Al bivio dello Stilnovismo, lo scontro sulla natura dell’amore e l’origine della poesia con Guido Cavalcanti, maestro e “primo amico”. Come la “pantera profumata”, la lingua volgare nata in Sicilia dalla rivolta di Federico II alla cultura ecclesiastica, adottata in Toscana dopo la sconfitta ghibellina, fu addomesticata, cresciuta e legittimata dal Sommo Poeta.
Il libro “L’ombra di Cavalcanti e Dante” di Noemi Ghetti è stato presentato a Parigi il 14 maggio 2012. Troverai il link del video dell’incontro in fine articolo.
Che il latino – al pari delle altre lingue romanze, dette appunto neolatine – sia la lingua madre dell’italiano e che Dante ne sia il padre è un’affermazione universalmente accettata, e tanto consolidata da apparire indiscutibile. La lingua è certamente l’elemento di più sicura identità per la fisionomia storica dell’Italia, e la “repubblica delle lettere” precede di almeno cinque secoli la nascita dello Stato italiano. In effetti circa il 90% delle parole del moderno vocabolario, come afferma il linguista Tullio De Mauro, è già presente nella Commedia.[[Cfr. Grande Dizionario Italiano dell’Uso, a cura di T. De Mauro, Utet, Torino 1999-2007, 6 vol., con CD ROM, e l’intervista allo stesso di N. Ajello, Parliamo come Dante, in “la Repubblica”, 19 ottobre 1999.]]
Eppure il centocinquantesimo anniversario dell’Unità e la delicata crisi in cui si sono svolte le celebrazioni ci stimolano ad ampliare e, se possibile, ad approfondire un tema meritevole di ulteriori ricerche. È infatti appena il caso di ricordare come la tormentata “questione della lingua” abbia accompagnato la storia della letteratura italiana dalle origini, con implicazioni culturali e politiche rilevanti e dunque con toni spesso assai accesi. E come da una rapida rassegna dei numerosi saggi usciti in questa occasione emerga che, anche a prescindere dalle rivendicazioni autonomiste e dal revisionismo storico degli ultimi anni, essa sia tutt’altro che risolta.
Qui vogliamo solo interrogarci e aggiungere qualche spunto di riflessione nuovo, e forse un po’ irriverente, sul tema della paternità e, conseguentemente, della maternità dell’italiano. La ricerca ci chiederà di risalire fino alla favolosa età della Rinascita dopo l’anno Mille, quando in diverse parti d’Europa intrepidi poeti, volte le spalle al latino della cultura ecclesiastica, iniziarono a cantare l’amore per la donna dando origine alle lingue moderne.
«Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor»
Il programma, efficacemente sintetizzato da Alessandro Manzoni in questi versi dell’ode patriottica Marzo 1821, raccoglieva all’epoca dei primi moti risorgimentali l’eredità di una lunga serie di scrittori che sulle orme di Dante, da Petrarca attraverso Machiavelli fino a Foscolo e Leopardi, avevano parlato di Italia come di un’entità ben identificabile dal punto di vista linguistico-culturale. Intellettuale di formazione illuminista e cosmopolita, convertitosi nel 1810 alla fede e ai programmi del romanticismo nazionale moderato e cattolico, lo scrittore lombardo proprio in quegli anni si apprestava a «sciacquare i panni in Arno» per fornire agli italiani il romanzo che, assieme al Poema sacro, avrebbe costituito per generazioni di studenti il cardine di una formazione linguistica ed ideologica impostata sui solidi principi morali della borghesia conservatrice. E poiché, come scriveva Massimo d’Azeglio, marchese piemontese protagonista del processo di unificazione, una volta fatta l’Italia restavano da fare gli italiani, la messa a punto di una lingua nazionale fu subito riconosciuta come il fondamento della strategia scolastica neounitaria.
Così la lungimirante scelta di Manzoni di procedere ad una minuziosa revisione linguistica della edizione già toscanizzata dei Promessi sposi del 1827, adottando per l’edizione definitiva del 1840 il linguaggio vivo dei fiorentini colti, diventò programma socio-culturale. Nella relazione Dell’unità della lingua su incarico del ministro dell’istruzione Broglio l’anziano scrittore nel 1868 propose mezzi e modi per unificare verticalmente, attraverso l’adozione di un unico vocabolario, la lingua «in tutti gli ordini del popolo». E, aggiungiamo, anche orizzontalmente in tutte le lontane regioni della nostra “troppo lunga” penisola, come già gli Arabi, insediati in Sicilia per quasi tre secoli, l’avevano definita.[[G. Ruffolo, Un paese troppo lungo, Einaudi, Torino 2011.]]
Sarebbe ora troppo lungo ripercorrere, risalendo all’indietro nei secoli, le tappe della pur interessantissima questione della lingua, domandandoci ad esempio perché i modelli di Boccaccio e di Petrarca proposti dal Bembo [[Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Tacuino, Venezia 1525.]], nonostante la straordinaria diffusione europea del Decameron e del Canzoniere – certo superiore a quella della Commedia – e nonostante gli oltre tre secoli di petrarchismo, non abbiano in fondo mai posto in discussione il dogma della paternità dantesca della nostra lingua. Un primato che non è ovviamente solo cronologico, ma che è innanzitutto dovuto al valore paradigmatico assoluto, che nella Commedia diventa profetico, che il poeta volle imprimere di volta in volta alle proprie scelte artistiche e più estesamente umane.
Dalla “pantera profumata” dei siciliani al vulgare illustre della “Commedia”
Preferiamo volgerci con Dante alle origini, a quel periodo lungo diversi decenni in cui il volgare era già nato, seguendo il poeta nella caccia della “pantera profumata”, la metafora con cui designa la lingua della poesia d’amore inaugurata all’inizio del Duecento dai Poeti siciliani. Nel De vulgari eloquentia infatti, quando agli inizi del Trecento traccia il geniale profilo storico-geografico delle origini del vulgare illustre, Dante scrive:
«Tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano […] tutto quanto, al tempo loro [di Federico II e di Manfredi] i migliori spiriti italici riuscivano a fare, veniva primamente alla luce presso la corte di sì nobili sovrani. E poiché trono del regno era la Sicilia, è avvenuto che, ogni cosa i nostri maggiori producessero in volgare, si chiami siciliana; nome che anche noi manteniamo e che i posteri non potranno mutare.»
De vulgari eloquentia, I, XII
Come l’Alighieri testimonia nella preziosa rassegna del trattatello, nel Duecento la gamma degli idiomi volgari parlati dalla Sicilia al Veneto è assai variegata, ma nessuno di essi corrisponde esattamente alla lingua letteraria dei poeti d’amore del Duecento, inafferrabile preda la cui presenza si avverte solo dall’alito profumato, ma che non abita in nessun luogo specifico. E soprattutto nessuno di essi possiede i requisiti che il poeta ritiene indispensabili per una lingua che intenda essere adeguata a trattare anche gli alti temi morali, filosofici e teologici del Poema, che contemporaneamente egli stava componendo. Così, giunto alla seconda parte del De vulgari eloquentia, il poeta abbandona la ricerca della perturbante fiera esotica, volgendosi a un metodo di indagine detto rationabilior, “più razionale”.
Un volgare illustre, cardinale, aulicum et curiale: questi sono per Dante gli attributi che costituiranno la superiorità della lingua che intende reinventare: l’ultimo in particolare è ritenuto “il più eccellente”, perché usato dai doctores illustres di tutta Italia. E Machiavelli nel suo Discorso intorno alla nostra lingua (1525) ci soccorre, chiarendo non senza una vena polemica che con l’aggettivo “curiale” Dante senza dubbio «vuol dire una lingua parlata da gl’uomini di corte del papa, dai duchi i quali, per essere uomini litterati, parlano meglio che non si parla nelle terre particolari d’Italia».
Di fatto il De vulgari eloquentia, rivolto agli uomini di alta cultura, è significativamente scritto in latino. Scelta in verità sorprendente per un poeta che aveva svolto la sua formazione sotto il magistero stilnovista di Guido Cavalcanti, la cui «ostilità stilistica al latino», come osserva Gianfranco Contini, «almeno in veste di totale estraneità, è flagrante».[[G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Un’idea di Dante, Einaudi, Torino 1970.]]
Ma all’epoca della stesura del trattato (ca. 1304) era trascorso più di un decennio, e molti eventi drammatici si erano verificati da quando, raccogliendo nella Vita nuova alcune delle poesie giovanili scritte negli anni del sodalizio cavalcantiano e commentandole alla luce del “nuovo pensiero” religioso, Dante aveva tuttavia riconosciuto che il volgare era nato come lingua esclusiva della poesia d’amore:
«E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini. E questa è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore.» (Vita nuova, cap. XXV)
E poche pagine dopo aveva dichiarato che il suo intendimento iniziale era stato appunto di scrivere la Vita nuova solo in volgare, aggiungendo «e simile intenzione so ch’ebbe questo mio amico a cui ciò io scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente volgare» (cap. XXX).
La piena sintonia con Guido Cavalcanti, dedicatario del libricino, è tuttavia contestualmente negata, perché il commento allegorico delle poesie d’amore scelte per edificare il romanzo teologico è, a ben vedere, infarcito di latino. Le personificazioni di Amore e degli spiriti parlano in latino, e il racconto allegorico della vita e della morte di Beatrice è contrappuntato di citazioni testuali – latine e tradotte in volgare – dalle Sacre Scritture, dai mistici e dai Dottori della Chiesa, in cui la «benedetta» via via assume, come in un’agiografia francescana, il valore esemplare di uno speculum Christi.
Dall’amore passione carnale all’amore spirituale cristiano
Eppure il volgare era nato in Sicilia dal disegno politico laico di Federico II, imperatore svevo più volte scomunicato e geniale promotore della Scuola siciliana, in opposizione al latino della Chiesa romana.
La nuova lingua, che indagava sull’amore con gli strumenti offerti dall’ottica, dalla fisiologia e della psicologia degli Arabi, nasceva lontano dalla Curia papale, nella grande isola al centro del Mediterraneo che nei secoli aveva visto avvicendarsi Fenici, Greci, Arabi, ed era coltivata dai funzionari di una Corte in cui l’arabo era ancora parlato correntemente. Il latino, portato nell’isola dai Romani dalla fine del III secolo a.C., non era che uno degli elementi della koiné, e certo non il più influente, riassorbito nel variegato tessuto linguistico, che aveva ad esempio prodotto una grande letteratura in lingua greca.
L’arrivo in Europa di opere di Aristotele del tutto sconosciute, per la mediazione degli Arabi di Andalusia, aveva aperto alla conoscenza della realtà umana naturale nuovi orizzonti. In particolare il commento al De anima di Aristotele del medico e filosofo andaluso Averroè, tradotto in latino su incarico di Federico II e diffuso nelle università europee, da Parigi a Napoli e Bologna, aveva contribuito non poco alla nascita di quella poesia che si interrogava sulla natura dell’amore e sull’origine della fantasia poetica, collocando al centro di una rivoluzionaria cosmologia la donna, intorno a cui il cuore gentile innamorato ruota, come gli angeli ruotano intorno a Dio nella cosmologia tomistica.[[Cfr. la celebre canzone dottrinale di Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore (Poesie, IV).]]
Mortalità dell’anima, eternità del mondo, possibilità di perfetta conoscenza senza l’illuminazione della fede, idea di sviluppo dell’identità umana nella dialettica amorosa, origine tutta terrena dell’ispirazione poetica e dei sogni erano le fondamentali tra le proposizioni dell’averroismo latino, che nel 1277 furono condannate come eretiche, insieme alle dottrine d’amore di Andrea Cappellano, da cui aveva preso le mosse la lirica dei trovatori di Provenza. La feroce crociata contro i Catari, l’istituzione dell’Inquisizione, i processi e i roghi degli eretici, la dispersione della civiltà dei trovatori, la sconfitta del partito ghibellino nella battaglia di Benevento (1266), la scomunica e la condanna a morte dei filosofi averroisti parigini concorsero a determinare una crisi profonda dei fermenti di umanesimo da cui era percorsa la Rinascita. La ferrea sintesi di aristotelismo e cristianesimo operata da Tommaso d’Aquino provvide infine a ricondurre nel terreno dell’ortodossia ogni libertà di pensiero.
La crisi religiosa di cui parla la Vita nuova coincide con il triennio di frequentazione intensiva delle scuole dei domenicani e dei francescani ricordato da Dante stesso. Guido Cavalcanti, tradito dall’amico nelle scelte filosofiche e poetico-linguistiche, fu chiamato in causa come dedicatario del libro e garante di scelte che certo non condivideva. Non gli risparmiò le sue critiche in alcuni sonetti famosi, in cui lo accusava di mancanza di coraggio intellettuale, e perfino di disonestà. Infine rispose alla svolta spirituale di Dante con la canzone Donna me prega, superbo manifesto conclusivo della teoria dell’amore passione carnale e irrazionale tra uomo e donna, fonte di identità umana e fantasia poetica, ma anche di sanguinosi drammi che solo un cuore nobile può sostenere, che aveva animato tutta la poesia delle origini:[[La sanguinosa dialettica sulla natura dell’amore e della fantasia poetica tra Dante e il “primo amico” è ricostruita, dai presupposti culturali remoti alle tappe dello scontro letterario, nel mio saggio L’ombra di Cavalcanti e Dante, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011, con un’antologia dei testi poetici essenziali qui citati.]]
Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore
sì chi lo nega – possa’l ver sentire!
I dieci anni di silenzio letterario che seguirono la Vita nuova e la risposta di Cavalcanti videro un crescendo di drammatici scontri politici, che culminarono il 24 giugno del 1300 con il bando di Guido Cavalcanti da Firenze, firmato da Dante in qualità di priore. Il bando fu revocato, nonostante il parere contrario di Dante, per le condizioni di salute di Cavalcanti, infermatosi gravemente di malaria. Il poeta rientrò a Firenze giusto in tempo per morire, poco più che quarantenne, alla fine di agosto. La memoria dell’amico accompagnò Dante come un’ombra in tutti gli anni che seguirono, attraverso tutte sue le opere, fino agli ultimi canti del Paradiso, «alter ego non più “il primo dei suoi amici”, ma certo ancora maestro da esorcizzare, con cui egli tenta di fare i conti fino alla fine del suo viaggio».[[Ivi, Premessa di R. Antonelli, pag. 7.]] Una rilettura attenta in questa chiave lo ha ampiamente dimostrato.
Il Convivio segna il passaggio da Beatrice, emblema della grazia illuminante, alla “donna gentile”, allegoria della filosofia, in cui il poeta si propone di commentare quattordici canzoni, scritte in precedenza, alla luce dell’aristotelismo radicale assimilato nelle scuole religiose dai maestri della Scolastica, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Dalla dottrina d’amore della Vita nuova, incardinata sull’evento chiave della morte che trasforma Beatrice in figura di Cristo, all’amore razionale e alla filosofia morale, che presuppone l’uso della ragione in funzione della fede. La scrittura «temperata e virile», quanto quella del romanzo giovanile era «fervida e passionata», deve innanzitutto «stornare l’infamia di tanta passione avere seguita». E il lavoro procede, soprattutto, attraverso una sistematica e capillare opera di risemantizzazione del lessico della poesia d’amore, in trasparente anche se mai diretta polemica con le idee sulla realtà umana dell’averroismo e con la poesia dell’amore irrazionale di Guido Cavalcanti.
Il “dittatore” Amore e la latinizzazione del volgare
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Purg., XI, 96-99
Dante persegue il fine di conquistare “la gloria della lingua” strappandola ai due Guidi, Guinizzelli e Cavalcanti. Così “amore” è soltanto quello di Dio e per Dio, “desiderio” è quello degli angeli per Dio, causa del moto delle sfere celesti, e quello della creatura che vuole tornare al suo creatore. Il “desiderio” della vera vita, quella eterna, apre la strada a mostruosità semantiche come il “desiderio” di morte, mentre il desiderio d’amore dell’anima sensitiva è degradato ad “appetito” bestiale, che riconduce al canale alimentare la dialettica amorosa che siciliani e stilnovisti avevano studiato come una dinamica degli occhi e del cuore. “Mente” indica la ragione spirituale e immortale, non è più l’anima sensitiva mortale degli averroisti, “fantasia” è la parte più alta della ragione, quella che arriva fino alla soglia della visione di Dio, per cedere il passo all’estasi mistica. “Spiriti” non sono più le facoltà e le capacità del corpo, in bilico come per i pensatori arabi e in Cavalcanti tra fisiologia e psicologia: un solo “spirito” resiste in Dante, quello razionale. Le parole della lirica d’amore sono ad una ad una riusate con intento correttivo. Il commento ad Amor che ne la mente mi ragiona è una meticolosa confutazione della dottrina d’amore di Donna me prega, nel quale la filosofia ammette di essere non tanto la figlia prediletta di Dio, quanto l’ancella della teologia.
Il Convivio si interrompe al Quarto trattato, con la visione cristiana della storia universale e romana. Dante ritorna alla poesia raccogliendo il testimone della missione profetica di Roma annunciata nell’Eneide da Virgilio, considerato il punto più alto di sviluppo a cui era pervenuto il mondo greco-romano prima della rivelazione.
La scelta di Virgilio come guida spirituale e artistica della Commedia significa l’abbandono definitivo dell’opzione cavalcantiana del volgare come lingua della poesia: «Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore; / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo / che m’ ha fatto onore». In quel “tu se’ solo” è condensato tutto il dramma della cancellazione di Guido, scomparso nell’angolo morto dell’estate del 1300, dopo la Pasqua di resurrezione in cui è collocato il viaggio del Poema sacro, ma prima della sua composizione. Oscuro dramma di cui rimane traccia nell’ambiguo e in qualche modo feroce incontro di Dante con il padre di Guido, Cavalcante Cavalcanti, nel cerchio degli eretici (Inf., X), e nel naufragio di Ulisse, punizione divina per la folle presunzione di una conoscenza non illuminata dalla fede (Inf., XXVI)
Amore cristiano e teologia: la diffusa reputazione medievale di Virgilio come profeta del cristianesimo apre la strada alla massiccia immissione nella Commedia di termini e costrutti presi di peso dalle Sacre scritture e dagli scrittori cristiani. Da Agostino a Tommaso, dai mistici vittorini ai filosofi dell’aristotelismo radicale, interi passi dottrinali sono la trasposizione in terzine di passi latini tradotti in volgare. L’ispirazione, per il loro tramite, viene dal cielo:
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando.»
Purg., XXIV, 52-54
Novello Adamo, al tramonto della latinità Dante dà il nome alle cose su ispirazione del “dittatore” divino, con l’ambizione dichiarata di ricreare nei suoi versi la lingua adamitica universale che fu la prima, e di salvare se stesso e l’umanità dalla “selva oscura” della frammentazione e dalla perdizione.
Una postilla
Infine un’ultima domanda. In molte commemorazioni ritorna il tema della paternità, e come dicevamo all’inizio dobbiamo ritenerci tutti figli, linguisticamente beninteso, di Dante. Ma certo un pensiero sorge spontaneo: se si fa eccezione per il tedesco moderno, la cui paternità è spesso attribuita alla traduzione della Bibbia di Lutero, non vengono alla mente altre lingue che riconoscano come padre un solo autore, meno che meno un poeta, per quanto grandissimo. Omero non è il padre della lingua greca, Shakespeare non è il padre della lingua inglese, Goethe non è il padre della lingua tedesca. La Commedia sarebbe allora da considerarsi come una sorta di testo sacro della nostra lingua, e avrebbe il valore morale ed esemplare che, ad esempio, le Confessioni di Agostino e la Vulgata di Girolamo ebbero per il latino medievale della Chiesa.
Ci sono certamente nella storia scrittori più grandi, poeti più geniali, e lingue che hanno avuto maggiore diffusione e durata di altre. Ma padre della lingua, lingua madre, madrelingua, lingua materna sono lemmi ambigui che applicano alla linguistica, mi sia perdonata l’espressione, la mentalità patriarcale e la terminologia positivista della genetica. Il grande linguista Giovanni Semerano ci ha insegnato che l’indoeuropeo, ipotetica lingua madre del greco e del latino, non è mai esistito, è un’invenzione della linguistica ottocentesca, e ha dimostrato che greco e latino hanno invece larghi debiti nei confronti delle lingue semitiche del Vicino Oriente.[[G. Semerano, L’invenzione dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori, Milano 2005; id., L’infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori, Milano 2001; id., Le origini della cultura europea, vol. I, Rivelazioni della linguistica storica, Olschki, Firenze 1984.]]
Ogni uomo, quando si fa poeta, «reinventa la propria lingua nell’istante stesso in cui si trova non dico a scrivere, ma a “tracciare”, a scalfire il foglio più che con la piena coscienza di quello che sta facendo, con la sensazione di non poter sfuggire a una necessità» dichiarava Andrea Zanzotto in un’intervista.[[“Un parlar fondo come un basar”, intervista rilasciatami per il settimanale Left, 35/2006.]]
Il monogenismo della Bibbia si rispecchia nei miti complementari della lingua adamitica ispirata da Dio padre al padre Adamo e della frammentazione delle lingue, punizione divina per la superbia umana della torre di Babele, rivelando forse l’angoscia che il plurilinguismo, al pari del poligenismo immaginato da Giordano Bruno, possa veicolare il pensiero che la creatività non è esclusiva di nessuno, individuo o popolo che sia, e neppure un attributo o un dono divino.
Noemi Ghetti
Noemi Ghetti presenterà il suo ultimo libro
“L’ombra di Cavalcanti e Dante”
lunedì 14 maggio 2012 ore 18.30
Alla Maison de l’Italie, Cité Internationale Universitaire de Paris
boulevard Jourdan 7 A – 75014 Paris
VIDEO DELL’INCONTRO