Il Gattopardo: l’estraneità alla Storia. Intervista ad Andrea Camilleri.

Sarà blasfemo ma per il grande autore contemporaneo Andrea Camilleri, “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa è un’opera antiquata. Dal colloquio con Giovanni Capecchi, docente di letteratura italiana dell’Università per Stranieri di Perugia, sembra tuttavia emergere la grande attualità del “rifiuto della Storia” in quell’opera, come in una certa sicilianità, come in una certa Italia di oggi.

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***

Quando hai letto la prima volta “Il Gattopardo”?

Immediatamente dopo la sua pubblicazione.

E che impressione ti fece?

Ti rispondo prendendola un po’ alla larga. Ho parlato del “Gattopardo” in un convegno che si organizzò a Palermo, non so in che occasione, inerente Tomasi di Lampedusa. Io parlai parzialmente del “Gattopardo” perché mi interessò esaminare, fare una sorta di collage, di alcuni testi e intitolai questa relazione “Quando Garibaldi sbarcò”, cioè che cosa succede attraverso la letteratura nel momento nel quale Garibaldi sbarca in Sicilia, e quindi ho preso “il Gattopardo”, naturalmente, ma ho preso anche Leonardo Sciascia con “Il quarantotto”, ho preso anche “I Vicerè”, ho preso Verga, ho preso Pirandello con “I vecchi e i giovani”. In genere c’è la corsa al trasformismo, cioè a dire, l’idea del «cambiare tutto per non cambiare nulla» – che nel “Gattopardo” non viene detta dal Principe ma viene detta dal nipote del Principe – è, per esempio, presente nei “Vicerè”, dove già la famiglia Uzeda si chiede che cosa dovrà fare per restare sempre e comunque a galla. E quindi cosa c’è in tutti, anche nel nipote del Principe? c’è il prendere atto dell’evoluzione storica e tentare di sfruttarla il meglio possibile. Chi non crede assolutamente in questa evoluzione è il Principe. Ed è un po’, questa posizione, preannunciata già nel 1911 da Pirandello nei “Vecchi e i giovani”, quando il principe don Ippolito Laurentano alla notizia dello sbarco di Garibaldi si chiude nel suo feudo, si crea una sua forza militare composta da ex borbonici e a capo di questi mette un ex graduato borbonico che esce in divisa quando si allontana dal feudo per andare a fare le compere, e c’è uno che lo sfotte e gli dice una canzonetta: «Dove vai sul ventoso tuo ronzino, stai scappando dalla storia o Sciaralla Sciarallino?». “Stai scappando dalla storia”: quindi è il rifiuto della storia che a me mi è sempre, come posso dire, dispiaciuto, non piaciuto in questo romanzo. Che cos’è che a me piaceva di questo personaggio: che ha il senso drammatico della sua posizione, e ce l’ha con una tale profondità questo senso di uomo ormai fuori completamente che questo è avvincente. Nella sua estraneità alla storia non è che c’è indifferenza, c’è veramente una sofferenza. Lo sa bene che dopo di lui c’è Calogero Sedara e i suoi simili.

Cosa pensi della modernità del “Gattopardo”?

Gattopardo_Cover.jpgOra, qui posso passare per blasfemo, l’ho sempre trovato un romanzo antiquato. E allora crocianamente ti racconto un fatterello. In prossimità del 2000 mi telefonò dalla Spagna il redattore culturale del «Pais» e mi disse: «Dottor Camilleri, quale romanzo italiano del ‘900 traghetterebbe nel 2000?». E io senza esitazione e in perfetta buona fede dissi: «I promessi sposi». «Grazie», disse lui; «Prego», e riattaccai. Siccome era l’ora di pranzo andai a mangiare e mi sorse un dubbio. Dissi: «Rosé» a mia moglie, «ma I promessi sposi di quando sono?». E lei: «1840». «Porca miseria, gli ho detto a quello lì…». Squilla il telefono ed era lo spagnolo. Mi dice, un po’ imbarazzato: «Dottore, abbiamo fatto un riscontro, ma “I promessi sposi” sono dell’800 e io le avevo chiesto un romanzo del ‘900». «Oddio, così su due piedi…». «Se le posso suggerire “Il Gattopardo”…». Dissi: «No, quello è sicuramente dell’800».

Sciascia dedicò al “Gattopardo” una conferenza agli inizi del 1959…

…la conferenza di Sciascia era molto sottile e molto fine…

…ed iniziava il suo ragionamento citando il dialogo tra il Principe e Chevalley…

Nella famosa scena tra Chevalley e il Principe, che rappresenta il fulcro del romanzo, il Principe bara indegnamente, perché quando gli dice a quel povero piemontese che cos’è il Senato, e quello glielo spiega cadendo nel tranello, bisogna ricordare che il padre del Principe aveva fatto parte del Senato palermitano, durante la prima Repubblica siciliana, quindi lo sapeva benissimo cosa era il Senato. Era stato costituito, il Senato, da Ruggero Settimo apposta per garantire eventuali eccessi innovatori della Repubblica. Quindi lui lo sa benissimo.

Non ti sembrano le pagine di Sciascia viziate da un pregiudizio ideologico? Quando parla del Principe disinteressato ai problemi sociali dell’isola, quando dice che il popolo entra nel romanzo soltanto attraverso l’immagine delle formiche che ricordano al Principe il giorno del plebiscito… Non ti sembra, oggi, discutibile questa posizione?

Certo che è discutibile. Però i nobili siciliani così erano. Si dividevano in due categorie: o quelli coltissimi, o quelli ignoranti. L’ignoranza dei nobili siciliani andava anche all’analfabetismo. C’era la formula: «Non firma perché è nobile», non solo perché era nobile ma anche perché non sapeva firmare. Ma sia i coltissimi che gli ignoranti erano indifferenti ai problemi sociali della Sicilia.

E della posizione di Vittorini sul romanzo, cosa pensi?
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Vedi, è interessante leggere la lettera di Vittorini – che pure non lo volle nella sua collana “I gettoni” – che consiglia a Mondadori di pubblicarlo: «A me non piace, ma…». Intuiva la possibilità di un enorme successo editoriale. Ci aveva visto giusto come editor.

“Il Gattopardo” è un romanzo che sostanzialmente, almeno per la sua visione della storia, senti lontano, per molti aspetti estraneo. Per quanto riguarda la lettura della Sicilia dopo lo sbarco di Garibaldi ti senti molto più in sintonia con “I vecchi e i giovani” di Pirandello, che citi ampiamente in epigrafe a “La concessione del telefono”. Eppure tra i tuoi romanzi ce n’è uno, “Un filo di fumo”, che, per il suo pessimismo, sembra avvicinarsi al romanzo di Tomasi…

Sì, è il più vicino al “Gattopardo”, infatti la conclusione è che non cambia nulla. Solo che nel mio romanzo il mancato cambiamento è opera del “deus ex machina”, è la volontà di Dio che fa affondare la nave, tant’è vero che Nenè Barbabianca, l’imprenditore prepotente che sarebbe andato in rovina se il vapore proveniente da Odessa fosse attraccato, va a ringraziare Dio con un ex voto. Se la nave arrivava era fottuto. Volevo raccontare una lotta interna alla borghesia commerciale. Il popolo si ritrova nel romanzo quando parlo degli spalloni con le piaghe fatte dallo zolfo che trasportano, di fronte ai quali il nobile dice che l’acqua di mare – che in realtà bruciava sulle ferite – gli fa bene perché pulisce. Questo è il massimo di comprensione che i grossi feudatari potessero avere. Noi abbiamo una dinastia grandiosa in Sicilia che sono i Florio, i Florio hanno fatto società di navigazione, quando l’imperatore austroungarico venne a Palermo fu ospite non del Sindaco o del capo dello Stato, ma dei Florio, quindi questo era il loro livello. Tu citami una sola opera dei Florio a favore degli indigenti. Non ce n’è una. Non esistevano. Erano come le anime di Gogol. La realtà è questa.

In un tuo articolo del 2000, intitolato “Dalla parte di Chevalley”, scrivevi tra l’altro: «La mia Sicilia non è la terra sonnolenta e rassegnata che in tanti hanno narrato (non Sciascia, non Pirandello): essa, semmai, nei miei libri è costantemente in movimento, in rivolta contro qualcosa o qualcuno»…

E ci credo io a questa possibilità di movimento. Che poi magari veniva repressa da certi interessi. Pensa alla situazione che si venne a creare nell’immediato dopoguerra quando i grossi latifondisti si alleano col brigante Giuliano e danno vita al separatismo siciliano. Il maggiore rappresentante del separatismo siciliano, il barone Lucio Tasca di Bordonaro, scrive un libro che si chiama Elogio del latifondo, in cui spiega che le cose vanno benissimo così come stanno. Quindi l’idea politica che è alla base del separatismo è che sì, va bene l’unione italiana, ma hic sunt leones, qui si mantengono quelli che sono stati i privilegi di sempre. Contemporaneamente il braccio armato del separatismo è rappresentato da un signore il quale è iscritto al Partito Comunista e tenta di fare attraverso il separatismo un’isola rossa nel mediterraneo. Vedi come in sé c’è la doppia anima anche in un movimento che pareva unito come il separatismo. Voglio dire, queste forze contraddittorie spesso finiscono per annullarsi l’una con l’altra e si ha una sorta di fermo, di stasi, ma certe volte, misteriosamente, diventano forze propulsive, come un polo negativo e un polo positivo.

Quando uscì il film di Luchino Visconti che cosa pensasti?

Lo trovai estremamente più bello del libro… anche perché l’adattamento di Visconti c’era andato giù con l’accetta, prendendo solo quello che gli piaceva di quel romanzo…
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…assume un ruolo predominante l’immagine del Principe fuori dalla storia…

Quello è un aspetto quasi autobiografico. Si può capire come interessasse tantissimo Visconti in quel momento questo sentimento di estraneità, di esclusione…

Hai mai avuto a che fare con i testi di Tomasi di Lampedusa nella tua lunga attività di regista?

No. Ma posso dirti che c’è un racconto di Tomasi che trovo esemplare, splendido, e quello sì che lo traghetterei nel 2000: Ligheia. Lo sa Dio cosa ho dovuto fare quando ho scritto Maruzza Musumeci per cancellarmelo dalla mente. Lo tenevo distantissimo, perché quello è un testo che ti può veramente condizionare nel momento io cui tu parli di una sirena, oggi…

Come spieghi il successo commerciale del “Gattopardo”, che dura ancora oggi?

Il libro ha un suo fascino, e questo è inutile negarlo. Il mercato librario non me lo so spiegare, posso però dire che ben venga che “Il Gattopardo” continui ad essere venduto, ce ne fossero. Perché altrimenti si vende Stieg Larsson, che dopo le prime venti pagine ti dici “Porca miseria, come scrive e che cosa scrive quest’uomo”. Ben venga “Il Gattopardo”, un milione di volte.

Io tendo a leggere “Il Gattopardo” da una parte come un romanzo sul tempo, perché è anche un romanzo polemico nei confronti del Risorgimento, basti pensare alle pagine sul plebiscito e sui brogli elettorali…

… certo …

…e dall’altra parte come un romanzo che guarda oltre il tempo, verso l’eternità. È anche un romanzo sulla morte.
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Non c’è dubbio, certo. Lui la sente arrivare la morte. Anche certe sue apparenti evasioni, per esempio di tipo sessuale, sono come un rito funebre, vengono raccontate con cupezza, non c’è mai la gioiosità del sesso; è un’operazione un po’ malinconica, tanto per sentirsi vivi, o quasi.

E questo senso della fine mi sembra l’aspetto sempre attuale…

Sì. E poi è ben narrato, porca miseria. C’è un’ultima cosa che voglio raccontarti e che mi diverte. Non so bene perché, ma io ho visto nel Principe e nei suoi atteggiamenti, nel senso della morte, della speculazione mentale sulla morte, il fratello maggiore di Lucio Piccolo, che era un po’ così, anche lui con l’idea della morte, il tentativo di parlare con i morti, il credere in un aldilà tutto suo, nella metempsicosi e cose simili, con mille idee anche contrarie e assurde che gli passavano in testa, ma lui le metteva in pratica.

Una delle cose più divertenti è il cimitero dei cani che c’è a Capo d’Orlando, dentro al loro parco pieno di piante e alberi improbabili (la sorella dei due Piccolo era una botanica ed era riuscita nel suo parco a fare arrivare da tutto il mondo delle piante che tu trovi, che ne so, nell’India inferiore, ma che certo non trovi vicino a Palermo), dove c’è già una situazione irreale. Mi ricordo che una sera, in mezzo a questi enormi alberi che non avevo mai visto, c’era uno spiazzo, un cimitero, perché c’erano le lampadine accese su ogni tomba. Mi avvicinai ed erano veramente tombe, solo i nomi erano curiosi perché uno richiamava Napoleone, un altro… “Ma che è?”; “Sono le tombe dei cani”. Aveva fatto il cimitero dei suoi cani. Erano però tombe di grandezza normale, perché credendo nella metempsicosi pensava che magari un cane si svegliasse e diventato uomo non trovasse spazio nella tomba.

Roma, 17 febbraio 2009

Questa intervista a Camilleri è tratta dal libro Mezzo secolo dal « Gattopardo ». Studi e interpretazioni.
A cura di Giovanni Capecchi
« Logos » n.5 – Le Cariti Editore – 2010

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Giovanni Capecchi
Giovanni Capecchi è nato e vive a Pistoia (Toscana). E’ professore associato di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha dedicato i suoi studi soprattutto all’Ottocento e al Novecento, seguendo alcuni filoni di ricerca: l’opera di Giovanni Pascoli, la letteratura e il Risorgimento, la letteratura della grande guerra, il romanzo nel Novecento.