Su Andrea Genovese i fedeli di Altritaliani hanno già potuto leggere qualche riga nel luglio 2018, quando Hannah Feinstein stilò la recensione di un convegno tenutosi all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi sul tema La liberté d’expression à l’épreuve de ses langues: regards croisés franco-italiens.
La recente uscita, presso la casa editrice Pungitopo (Gioiosa Marea, 2021, 200 p.), di Idilli di Messina, un’antologia della sua produzione poetica, ci offre l’occasione di schizzare un rapido panorama della sua carriera e, sfogliando le variegate rubriche del volume, di dare ai lettori un’idea delle tematiche e della lingua che fin dall’inizio scandirono la sua produzione poetica.
Poeta, romanziere, autore di teatro e critico letterario, Andrea Genovese, messinese cresciuto nel quartiere popoloso di Giostra, si trasferisce, dopo gli studi, a Milano, nel 1960, dove svolge per una ventina d’anni un’attività di impiegato statale unita a un’intensa attività politica e sindacale. Nel 1981, recatosi in Francia, si stabilisce a Lione, dove vive tuttora. Oltre a una collaborazione a riviste quali Il Ponte, Vie Nuove, La Nuova Rivista Europea o anche al Corriere della Sera, ha pubblicato, dagli anni sessanta in poi, diverse raccolte di poesia in italiano, in siciliano e in francese, sette romanzi e una serie di opere teatrali messe in scena in Francia e rappresentate in luoghi prestigiosi come il Théâtre des Célestins di Lione. Andrea Genovese è anche fondatore della rivista anticonformistica Belvedere, attiva da decenni, prima in forma cartacea, ormai online, che da sempre esce con una regolarità esemplare.
Non solo Idilli di Messina propone un’antologia di testi scelti dal poeta stesso, ma appare anche, fin dalla dedica con cui si apre, Et in Arcadia ego, come un libro testamentario. Infatti la breve frase latina rinvia – fra le altre – a una nota tela del pittore Nicolas Poussin in cui tre pastori liberano una tomba dalla vegetazione e scoprono questa scritta. “Ego” rinvia alla Morte: anche la Morte esiste in Arcadia. Un “memento mori”, insomma. Ma se dalla morte l’uomo non può fuggire, l’arte – la poesia – gli sopravvive.
L’autore dedica il volume alla moglie scomparsa, ai genitori, ai fratelli, ai compagni di lotta… evocando un’esistenza non facile né priva di delusioni. Disillusioni nel campo sia politico (“compagni di lotte e d’illusioni […] traditi e beffati dai compromessi mai storici di mediocri personaggi passati alla storia”) che letterario. Un memoriale a sé stesso, espresso senza vanità, con umorismo distaccato. Un libro testamentario, dunque, che raccoglie i testi dall’autore giudicati tematicamente più rappresentativi, il meglio della sua produzione poetica. Un lascito alla posterità.
Se tutti i testi del volume sono già stati pubblicati, non è il caso di quello che fa da introduzione, La magnolia perduta, composta da Andrea Genovese nel 2012, poco dopo che fu tenuto, all’università di Messina, un denso e ricco seminario dedicato all’opera sua che portava lo stesso titolo. Un testo che, per il suo contenuto, richiama subito alla mente il noto articolo di Pasolini uscito nel 1975 sul Corriere della Sera, “La scomparsa delle lucciole”. “L’Italia di oggi”, scriveva Pasolini, “è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra ‘macerie di valori’: valori umanistici e, quel che più importa, popolari”.
Il poeta si identifica alla magnolia centenaria che vide treni pieni attraversare le campagne, e miti ancora ben vivi. Ormai sono morti i miti, ignorati dalla gente, che crede di sapere tutto cliccando sul cellulare. La magnolia non vede più emigranti con valigie legate con lo spago ma immigranti privi di tutto e destinati a lavori al nero che nessun italiano vuole fare, o peggio. Anche i fenomeni naturali sono adulterati, come la pioggia, divenuta “nuvoletta meteo in televisione”. Perfino la leggenda di Polifemo si è persa, la gente confonde i personaggi, sicché il famoso ciclope è diventato Nessuno. Meno male che rimane saldo l’Etna, a ricordare le misteriose divinità sotterranee.
Poeta e magnolia si sono fatti vecchi… Vecchiareddra ti facisti, magnolia.
La magnolia, quindi, probabilmente non senza malinconia (nella realtà, l’immenso albero secolare, sebbene deturpato e recintato per salvaguardarlo, esiste ancora a pochi passi dalla casa abitata dall’autore durante la sua infanzia), ripercorre con la memoria le varie tappe della propria esistenza, ma senza ordine cronologico. L’antologia si compone di cinque sezioni in italiano che effettuano una specie di risalita nel tempo – La ghiotta (dell’)estate, Trina è la lama che ci squarta, Mitosi, Odissea minima, Poesie preistoriche – una sezione di poesie in francese intitolata Les voyages immobiles, e infine una serie di componimenti in siciliano, Colore del mio dialetto pigro. Una sintesi rappresentativa dell’intera opera dell’autore, insomma, che merita di essere collegata con l’ultimo suo romanzo, Dans l’utérus du volcan, scritto direttamente in francese (Éditions Maurice Nadeau, 2018, 223 p.).
Per chi abbia delle difficoltà a penetrare le poesie di Andrea Genovese, la lettura di questo romanzo sarà di grande aiuto in quanto chiarisce le innumerevoli allusioni e metafore che trapelano dai versi. Il protagonista, controfigura dell’autore stesso, è un poeta messinese emigrato in Francia e sposato con una donna lionese. Questo poeta, che non era mai tornato nella sua isola, è venuto in Sicilia per ritirare, contro ogni aspettativa, un lauto premio di “poesia cristiana” elargitogli da una ricca fondazione di cui presto si capisce che è legata alla Mafia. È accompagnato dalla moglie, la quale scopre un paese, della gente, delle usanze, una mentalità, e anche un erotismo sfrenato che non immaginava affatto e con cui deve fare i conti. Il romanzo immette il lettore nell’atmosfera afosa della Sicilia estiva e, per la sua limpidezza quasi didattica, scioglie i nodi che potrebbero ostacolare il lettore non siciliano delle poesie. Per cui raccomandiamo la lettura simultanea dei due volumi: si completano, si rispondono, sono due libri testamentari, più critico, ironico, a volte mordace il primo, più lirico e accarezzato con affetto il secondo.
In centro agli Idilli di Messina, come annunciato dal titolo, la città di Messina e i suoi dintorni, in cui il poeta girovaga con un amore e una nostalgia non privi di rimpianti e di rancori.
Fin dalla prima sezione, La ghiotta (dell’)estate, eccoci immersi in una serie di quadri stilizzati, ariosi e azzurrognoli, che affiorano dal mare dei ricordi: “lo scheletro del pesce / sul piatto della memoria”, le “anfore che sperperano nel vento / oli e essenze parole strangolate”, gli uccelli di mare che “remigando dispiegano / le pagine latine al vento”. “Beltà è l’urto dei remi / sulla pagina azzurrata”. Una bellezza intaccata dai delitti di Mafia, come pure da cari ricordi di persone scomparse come la madre anziana, “pesante / botticella d’acciacchi”, o l’esile figura della moglie (“da me si stacca e in me si perde”).
“Trina è la lama” che ritagliò il triangolo della Sicilia nel Mediterraneo, una Sicilia di cui Andrea Genovese evoca, a piccoli tocchi, la lunga vicenda, sia storicamente attestata che mitica: gli arabi, i normanni, la leggenda di Colapesce, Polifemo e i ciclopi, Efesto nel vulcano Etna.
A forma di falce il porto di Messina – per questo motivo chiamata Zancle (falce) dai primi abitatori – una forma presaga di morte (la “Grande Trappola” è inevitabile). Messina si dispiega da una poesia all’altra, con i suoi quartieri (Giostra, corso Garibaldi, piazza Cairoli, via Marittima, la statua di Nettuno…), i suoi dintorni (il Peloro, San Rizzo, Ganzirri…) legati a ricordi d’infanzia e d’adolescenza (gite scolastiche, foruncoli sul viso) e oltre (Mortelle, Milazzo, Tindari…). Sempre presente l’idea di distruzione, di erosione, che non risparmia né l’uomo né la natura: l’ “astratto ulivo”, la “piana folta dei limoni”, “il finocchio selvatico” non sono niente quando esplode un cataclisma, terremoto o eruzione che sia. E alla fine scompare tutto: “La storia dell’infamia / non la scrive il mare”.
Il tema del viaggio per mare irrompe fin dai primi versi della sezione Mitosi: “Esplode il mare. / Il mare si fa duna / nuvola gabbiano. / Viaggio.” Una sezione, questa, all’insegna dei miti, in cui l’io poetante si imbarca per epopee sulla falsariga dei poemi antichi. Gli unicorni narra il periplo del protagonista e di un giovane etrusco verso l’antro della sibilla cumana, un viaggio pieno di imprevisti, fino all’auspicato ritorno “all’isola trina”, “alla falce ambigua / tremante sullo specchio immemoriale”. L’allegro equipaggio progetta un’altra epopea, “una delfineide / di terre vergini impastate nell’oro // in ventotto canti di ottave / a rima baciata dalle sartie”. Folgore e melma – sottotitolo dell’intera antologia – è forse una metafora della storia le cui raffiche passano sulla Sicilia (“Qui è passato un vento…”), o dell’uomo siciliano, frutto dei molteplici strati di popolazioni, mitiche o veridiche, che lo hanno foggiato. Comunque, “a leccare ferite / si continua”.
Nel centro del volume, la sezione delle Poesie preistoriche, quella cronologicamente più vecchia, di lettura agevole per lo stile fluido e la lingua limpida, è una pudica dichiarazione d’amore del poeta alla sua isola, agli aromi di zagara, di magnolia, alle donne che da bambino vide fare la fila alla fontana per riempire brocche d’acqua, al teatro dei pupi che lo affascinò da ragazzino. Messina, una “Pataccopoli” corrosa dalle trafile politiche, abitata da un popolo “buon bue” contento e rassegnato, una città “bruttarella”, eppure… “beato si ritiene / il prodigo che torna” e la ritrova tale quale.
Le stesse tematiche percorrono, con variazioni lirico-pittoriche, la sezione in francese dei Voyages immobiles, rievocate da un io immedesimato sia a Messina che al mare – “Naviguer / mot du désir / mot de racines / prises dans le sel” – un io desideroso un tempo di partire per grandi epopee, con mitiche caravelle ormai nella “mémoire ensevelie”. Pregnante il motivo ricorrente dello stretto, tra Scilla e Cariddi, apertosi quando un movimento tellurico staccò la Sicilia dall’Aspromonte calabrese: “cette fente / ce grand fleuve où se mirent / les monts de l’Apremont et du Pélore”. Ammirazione per il coraggio dei pescispada che, passando lo stretto, corrono il rischio di impigliarsi nelle reti tese dai pescatori: il pescespada dal corpo perfetto, “chef-d’oeuvre / qu’aucune académie / n’a jamais couronné”.
Chi non è capace di intendere la lingua siciliana fatica a capire l’ultima sezione. Eppure non è arduo rintracciarvi le tematiche già incontrate, con, dulcis in fundo, la simpatica patina locale. In centro, firma originale di congedo, tre poesie che disegnano un autoritratto umoristico: quella del “Passareddru sulitariu”, di leopardiana memoria, Ulissi, un Ulisse che ha un bell’andare e venire, alla fine è “sempre ccà”, e – questo il ritratto che forse meglio corrisponde all’autore – Bastaddu, colui che rifiuta di scrivere “puisii / duci comu zuccarati” e si rivela “malacanni rugnusazzu”. Ma in quale famiglia non c’è “nu pocu di canigghja?”
Non sono certo poesie “zuccherose” quelle di Andrea Genovese; nondimeno dilettano il lettore per la loro lingua ora stilizzata ora barocca, ora mista, in cui coesistono parole auliche e termini triviali, effusioni liriche ed erotismo crudo. Una lingua elaborata, caratteristica dell’autore, il quale si diverte ad inventare parole, creando neologismi quando la terminologia comune sarebbe troppo piatta. Neologismi che richiedono da chi legge un minimo di cultura: le “bocche / cariddoscillatiche” dello stretto di Messina, “Cassandrea” sulle mura di Troia, il “toromoto” devastante, le “catapultes charybdsmatiques”…
Una poesia dotta, intellettuale, che, nell’idea di fondo come nei particolari, moltiplica le strizzatine d’occhio al lettore e fa appello a un fondo patrimoniale di riferimenti colti, sia per quanto riguarda la storia e i miti che per un’intertestualità letteraria ora sottile ora ostentata (da Omero a Moby Dick passando per Dante, Foscolo e altri). Una poesia cosparsa ogni tanto di riferimenti pittorici che vanno da Antonello da Messina – che ogni tanto fa capolino tra le righe (“Ce visage à la fenêtre / sorti d’une toile d’Antonello…”) – alla pittura metafisica di Giorgio de Chirico (La flotta inquietante descrive una scena di mare con spiaggia, statua mutilata, occhio fisso… “implacato enigma”).
Una poesia anche metapoetica, in cui forma e materia, parole e oggetto s’intrecciano, tanto che alla fine … “Un poème / ressort ruisselant des filets”.
Brigitte Urbani
Bravissima! Bravissimo!
Andreà Genovese è uno scrittore singolare.
En dehors de toutes chapelles, il trace son chemin dans cet entre-deux-langues qui lui est propre et qu’on aurait tort de réduire à cette province nostalgique que pratiquent tant d’auteurs émigrés. Son roman, « Dans l’utérus du volcan » vif et acéré est une remarquable parodie de notre modernité et du pouvoir. Avec ce curieux mélange d’ironique impudeur, il est sans doute le meilleur roman français de 2018. Respect ! Merci à Brigitte Urbani de contribuer à son rayonnement