La sera di quel 10 maggio di quarant’anni fa è nella memoria di tanti di noi. Per esempio di quella di un giornalista italiano allora trentatreenne, in Francia da due mesi a mangiar pane e campagna elettorale. Eccolo arrivare verso le 19 di quella domenica al quartier generale socialista, armato di quaderno e carte de presse. Entrare nei luoghi istituzionali parigini era enormemente più facile di oggi. C’erano pochi controlli perché in quel momento la Francia non temeva granché il terrorismo. Compiacendosi per non vivere sulla propria pelle le tragedie italiane, Parigi dava un senso moderno e concreto alle parole scritte da Lucrezio un paio di millenni prima : « È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui ; non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso venga risparmiato » (« Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest »).
Nella parigina rue Solférino (parola italiana che i francesi scrivono con l’accento sulla e, pronunciandola con l’accento sulla seconda o), due palazzi si guardano e si fanno l’occhiolino tra il boulevard Saint-Germain e la Senna. Al numero 5 c’è il vecchio quartier generale del RPF (Rassemblement du peuple français) del gen. De Gaulle, che qui ebbe il proprio ufficio negli anni compresi tra il 1947 e il 1955. Quasi di fronte, al numero 10, c’è lo stabile, molto più imponente, che ha ospitato dal 1981 al 2018 gli uffici della direzione nazionale del Partito socialista. Destra e sinistra simbolicamente una davanti all’altra. Per decenni i media francesi hanno detto « Solferino » per indicare gli umori del PS, così come in Italia si diceva « piazza del Gesù » al posto di Democrazia cristiana, « via del Corso » per il PSI e « Botteghe oscure » (o « il Bottegone ») quando si parlava del PCI (la cui direzione aveva sede nel palazzo descritto da Miriam Mafai nell’eccellente libro Botteghe oscure addio, pubblicato da Mondadori nel 1996).
Arrivando in quel pomeriggio del 1981 « à Solférino », come appunto si usava dire, il giornalista italiano ha dentro di sé una sorta di tempesta ormonale. È eccitato come se andasse a chissà quale appuntamento. Come se andasse in battaglia, o almeno ad assistere a una battaglia. Nel ventre del palazzo è stata allestita una sorta di sala cinematografica, col Telegiornale della sera destinato a comparire sullo schermo al posto di una pellicola qualsiasi. È il reality-show della democrazia. Alle venti in punto (à 20h pétantes, come si dice in Francia) il rombo di tuono esplode in un’immagine. Ecco il volto di François Mitterrand materializzarsi sullo schermo, provocando una reazione a catena abbracci nella sala. Spento il TG, si accende l’entusiasmo. Sullo schermo del « Cinéma Solférino » compaiono le parole La France unie. Qualcuno urla : « Vive Mitterrand ! Vive le changement ! ».
Quella parola changement (che insieme a déclin e a nostalgie fa parte integrante dei cromosomi politici francesi ) risuonava nella mente del giornalista italiano da quando aveva seguito a Parigi la sua prima campagna elettorale, in occasione delle legislative del marzo 1978. Vive le changement ! I francesi (e non solo loro) vogliono assolutamente il cambiamento. Lo vogliono a una sola condizione : che non si tocchi mai l’interesse di chi esprime quel desiderio. In pratica, i francesi (e non solo loro) vogliono un cambiamento in cui ogni cosa resta come prima : Il Gattopardo ha l’aria siciliana, ma non c’è niente di più europeo ! L’appello al changement è spesso considerato (in chiave di nostalgie) come un modo per sognare il passato splendore, fragilizzato dal déclin a cui la gente ha perennemente la sensazione di assistere. Ecco la troika nostalgia-declino-cambiamento farsi largo da molto tempo nelle percezioni delle opinioni pubbliche del Vecchio continente e in particolare di quella francese. L’idea del changement riunifica e riscalda il cuore del popolo elettore, sperando che il futuro prossimo sia degno del passato remoto.
Quella sera di maggio di quarant’anni fa, il sogno ha un indirizzo postale al numero 10 della rue Solférino. Champagne. Dettato l’articolo, il giornalista italiano corre a casa di amici parigini per scendere in piazza con loro a cullarsi nella folla come bollicine in un bicchiere. Arriva da Emmanuelle e Marcel alla rue Sedaine. Si parla di andare alla Piazza della Bastiglia, dove mezza Parigi (quella che non sta piangendo) comincia a celebrare l’inizio di una vie en rose. Detto fatto : si va alla Bastiglia. Nell’uscire di casa, Emmanuelle e Marcel salutano il loro figlio François, che ha tre anni e che – storpiando il nome della piazza più famosa della storia nazionale – risponde tutto contento « À la Batille ! À la Batille ! ». Alla « Batille » c’è una tale folla che occorrerebbero due piazze per contenerla. La gente canta, balla e scherza in tutto il quartiere. Un ragazzo tedesco fa girare una bottiglia di champagne da cui, alla faccia dei virus, tutti bevono senza bisogno di bicchieri. All’improvviso un acquazzone annaffia la notte parigina. Qualcuno guarda in alto e ammonisce il cielo con la frase fatidica : « Mitterrand, du soleil ! ». Quasi un esorcismo verso le nuvole presenti e future. In quella strana notte, al giornalista italiano viene in mente una delle più belle canzoni di Lucio Battisti : « Tu chiamale, se vuoi, emozioni … ». Parole che sembrano fatte apposta: « E ricoprir di terra una piantina verde, sperando possa nascere un giorno una rosa rossa ».
Il 21 maggio 1981 Mitterrand si mostra ai connazionali in una cerimonia ufficiale al Panthéon per deporre una rosa rossa sulle tombe di Jean Jaurès, Jean Moulin e Victor Schoelcher : il leader socialista-pacifista, l’uomo della Resistenza e il simbolo dell’abolizione della schiavitù. Poi la rosa rossa perde petali e foglie. Restano le spine. Mitterrand è una persona diversa dal mito in cui credono fermamente i suoi fans del 10 maggio. Michel Rocard parla alla folla festante nella notte della Bastiglia descrivendo l’avenir nouveau da costruire à partir de demain. Molti anni dopo, sarà lui stesso a pronunciare parole durissime nei confronti del suo compagno di partito eletto il 10 maggio 1981. Dei quattordici anni di Mitterrand all’Eliseo ci restano almeno due cose importanti, indimenticabili: la morte della ghigliottina e la nascita dell’euro. Senza la determinazione francese, il cancelliere Helmut Kohl non avrebbe probabilmente digerito l’idea della moneta unica nei termini in cui si è poi materializzata e senza l’impegno diretto di Mitterrand difficilmente il Trattato di Maastricht sarebbe stato ratificato al referendum del settembre 1992. Ma in molti francesi si è sviluppato il sentimento della delusione nei confronti di François Mitterrand. Il sogno è durato ben poco.
Tra i tanti simboli e i tanti ricordi di quel maggio c’è una conferenza stampa tenuta da Pierre Bérégovoy per conto del suo amico Mitterrand. Un incontro sul marciapiedi della rue Solférino, proprio davanti al numero 10, per annunciare la creazione di una « antenne présidentielle » nel periodo della transizione del potere. Bérégovoy vuole simboleggiare il fatto che il nuovo potere sta uscendo dal recinto tradizionale per rappresentare l’insieme della nazione. Un simbolo tra i tanti nella vita dell’uomo che si rivolgeva in quel momento a un drappello di giornalisti : Pierre Bérégovoy, operaio a sedici anni, segretario generale dell’Eliseo a 55, superministro delle Finanze a 62, primo ministro a 66, suicida a 67. L’ex sindacalista sceglierà un Primo maggio, quello del 1993, per spararsi un colpo di pistola alla testa dopo che il suo onore sarà stato scosso dalla tempesta delle voci e dei sospetti.
Il suicidio di due amici che si sentono abbandonati e traditi (prima Bérégovoy nel 1993 e poi l’influente « uomo ombra » François de Grossouvre, che il 7 aprile 1994 si tira un colpo di pistola nel suo ufficio all’Eliseo) contribuisce a tingere di tragedia l’ultima parte della vita di Mitterrand. Le idee della morte, della religione e dell’aldilà angosciano allora un uomo conscio d’avere i mesi contati. Forse potrà sembrarvi stonato il fatto che, in presenza di vicende così drammatiche e complesse, io citi ancora il testo di una canzonetta italiana. Ma, se avete ascoltato Emozioni di Lucio Battisti, avrete voi stessi trovato – oltre alla rima sulla « rosa rossa » – le parole : « E andare a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire ». Gli ultimi due anni del potere mitterrandiano sono dominati proprio dall’idea di vedere se poi è tanto difficile morire.
La fine della presidenza è un calvario. C’è il cancro e ci sono le rivelazioni d’ogni genere. Alcune sono imbarazzanti, come quella sulla vecchia amicizia con un esponente di primissimo piano del collaborazionismo con i tedeschi e delle persecuzioni antisemite durante la guerra: quel René Bousquet che, da responsabile della polizia del regime di Vichy, organizzò i rastrellamenti di decine di migliaia di ebrei e la loro deportazione verso i campi di sterminio (ma che in seguito sostenne finanziariamente le battaglie politiche dell’amico Mitterrand). Quanta strada tra quella sera del 10 maggio 1981 e la trasmissione tv del 12 settembre 1994, quando un Mitterrand stanco, smunto e stremato risponde con imbarazzo e « strane » amnesie alle domande del giornalista Jean-Pierre Elkabbach a proposito di certe « liaisons dangereuses », affiorate con la pubblicazione del libro Une Jeunesse française dello storico Pierre Péan (video dell’intervista QUI).
Una pagina della lunga presidenza Mitterrand è strettamente connessa con le vicende italiane e non ha mai smesso di sucitare perplessità nella nostra Penisola. La cosiddetta «dottrina Mitterrand» prevedeva l’accoglienza sul suolo francese di persone ricercate e anche condannate dalla giustizia italiana per reati di violenza a sfondo politico. Siamo all’inizio del 1985 e le scelte di Mitterrand hanno come punto di riferimento le elezioni dell’anno seguente per il rinnovo dell’Assemblea nazionale. In quel periodo il mandato del presidente dura sette anni e quello dei deputati cinque. Divenuto presidente nel maggio 1981, Mitterrand ha immediatamente sciolto l’Assemblea nazionale, che aveva una maggioranza di destra e che è passata nel giugno 1981 a sinistra. Nel 1985 Mitterrand pensa di dover fare di tutto sia per creare divisioni a destra sia per rastrellare voti a sinistra. Eccolo cambiare il sistema elettorale, instaurando la proporzionale e consentendo cosi all’estrema destra di Jean-Marie Le Pen di ottenere un robusto gruppo parlamentare a scapito del centrodestra (cosa che contribuirà a fragilizzare il primo ministro neogollista Jacques Chirac negli anni della « coabitazione », compresi tra la sconfitta socialista alle legislative del marzo 1986 e la nuova vittoria di Mitterrand alle presidenziali del 1988). Eccolo, al tempo stesso, strizzare l’occhio anche a quelle correnti della «gauche» che avevano assistito con tenera simpatia sia alle azioni dell’estrema sinistra italiana sia alla violenza delle Brigate rosse e delle altre organizzazioni terroristiche.
Di qui la scelta, comunicata all’inizio del 1985 da Mitterrand al presidente del consiglio Bettino Craxi e al ministro degli Esteri Giulio Androtti, di non estradare le persone ricercate dalla giustizia italiana per reati connessi con gli « anni di piombo ». Nel giro di poche settimane, l’astuto Mitterrand diede in pubblico l’annuncio in due modi diversi : in un caso escludendo quel beneficio in presenza di « crimini di sangue » e nell’altro evitando questa precisazione. La striscia delle ambiguità (da parte delle autorità francesi e talvolta anche di quelle italiane) è andata avanti per decenni, contribuendo a creare situazioni di fatto, consolidatesi col tempo. Ovviamente tutto ciò ha alimentato il dolore e il senso di frustrazione delle vittime della violenza che ha insanguinato l’Italia degli anni Settanta-Ottanta (tra gli applausi, le strizzatine d’occhio e i pubblici appelli di non pochi intellettuali francesi).
Adesso il presidente Emmanuel Macron sembra archiviare la cosiddetta « dottrina Mitterrand », che già s’era incrinata durante il doppio mandato di Jacques Chirac all’Eliseo (1995-2007), ma che era stata in qualche modo rilanciata da Nicolas Sarkozy, presidente dal 2007 al 2012. In questi giorni c’è stato il fermo a Parigi di un gruppo di persone, condannate in Italia, che dispongono da molti anni regolari documenti di soggiorno in Francia, dove si sono rifatte una vita. Purtroppo ci sono intellettuali francesi che – nel criticare questa misura – fanno (una volta di più) allusioni sprezzanti alle istituzioni democratiche italiane, che negli « anni di piombo » ebbero il merito di reggere l’urto devastante del terrorismo. Le imprecisioni nell’informazione sono tante e vengono da varie parti. Nell’intervista di un docente universitario francese leggo una frase in cui si parla di « arresto di brigatisti ». In primo luogo non si è trattato di un arresto, ma del fermo di persone in seguito rilasciate. Inoltre la parola « brigatisi » non può essere generalizzata a chi (come Giorgio Pietrostefani) non ebbe mai nulla a che vedere con le Brigate rosse e organizzazioni del genere.
Stiamo parlando di cose tristissime per tutti, a cominciare naturalmente dalle famiglie dei morti di quegli anni, che meritano il massimo rispetto. Questa vicenda non è solo un dossier giudiziario, ma è un capitolo terribile della nostra storia di ieri, che deve assolutamente diventare un monito per le future generazioni. Oggi abbiamo tutti quanti il compito fondamentale di spiegare il passato in modo da scoraggiare per il futuro ogni ipotetico ricorso alla violenza. Le generazioni di ieri devono lanciare a quelle di domani un messaggio di civiltà e di tolleranza, facendo capire che abbiamo molto da perdere se l’espressione delle convinzioni politiche scivola sul piano inclinato della violenza. Nell’Italia degli anni Settanta erano in tanti a essere disorientati, ma erano soprattutto in tanti – tantissimi – a fare il proprio dovere malgrado la paura. Magistrati, giornalisti, docenti universitari, membri delle forze dell’ordine, sindacalisti e persone qualunque (compresi tanti titolari di mandati elettivi, che – a differenza di certi loro colleghi – rifiutarono di chiudere gli occhi sulla violenza e sulla corruzione) hanno impedito al caos di prendere il sopravvento. Alle nuove generazioni dobbiamo far capire che la società può essere migliorata solo senza ricorrere alla violenza politica, che rovina le sue vittime e anche i suoi protagonisti. A partire da qui, ogni discussione può avere un senso. Senza partire da qui, si resta in una spirale avvelenata che di male ne ha già fatto fin troppo.
Già che ci sono, tengo a dire anche un’altra cosa agli intellettuali francesi, abituati a spiegare pudicamente la violenza brigatista come una sorta di risposta alla « strategia della tensione » dell’estrema destra e dei vari servizi segreti. Qualcuno arriva persino a vedere nel terrorismo di sinistra una sorta di violenza volta a difendere la democrazia da quello di destra. Queste sono sciocchezze. Il progetto del terrorismo brigatista era distruggere la società capitalistica e non certo quello di migliorarla. Il pericolo maggiore, dal loro punto di vista, non erano i rigurgiti fascisti (allora violentissimi), ma l’antifascismo riformatore. L’obiettivo dei brigatisti era la rivoluzione. Una rivoluzione per forza di cose violenta, visto che per dirla con Mao il potere politico nasce dalla canna del fucile. La prospettiva non era certo quella di migliorare la « democrazia borghese », ma quella di metterla ko per costruire un altro mondo, con tanto di « dittatura del proletariato ». Dunque il nemico numero uno non era affatto il nostalgico Almirante, ma l’innovatore, aperto e dialogante, Aldo Moro. Il pericolo era l’intesa tra cattolici, comunisti e socialisti alla ricerca del miglioramento di un sistema che il terrorismo (rosso o nero che fosse) voleva mettere in crisi, voleva distruggere.
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Se noi europei guardiamo intorno, ci rendiamo conto di quanto la nostra democrazia – per quanto imperfetta e contraddittoria – sia rara, invidiabile e invidiata. Dieci anni fa abbiamo assistito allo sbocciare della « primavera araba ». Adesso ci accorgiamo che non solo quella stagione è finita, ma che la democrazia non si esporta con le bombe. Dieci anni fa, il presidente Sarkozy ha fortissimamente voluto l’intervento in Libia, tirandosi dietro un bel pezzo d’Europa tra cui una (giustamente) recalcitrante Italia. L’instabilità libica non ha mai smesso di ripercuotersi sul Mediterraneo, sull’Africa e sull’Europa. La Libia è divenuta lo snodo fondamentale di un movimento migratorio drammatico, gestito sul suolo africano da spietate organizzazioni criminali. L’Italia è un Paese generoso, che accoglie i migranti a Lampedusa e altrove. Ma il problema è enorme e non si andrà da nessuna parte senza un vero impegno dell’Europa intera. Le lezioni di vita e di generosità sono sempre utili. Ma bisogna essere capaci di impartirle con l’esempio concreto oltre che con i disinvolti sermoni. Non è possibile che le navi dei migranti debbano arrivare unicamente in Italia, Spagna e Malta. Perché neanche una sola nave può arrivare in Francia? Mancano poco più di sette mesi all’inizio del semestre di presidenza francese dell’Unione europea e a Parigi si studiano idee e iniziative per far coincidere la prima metà del 2022 con una svolta sulla via dell’integrazione comunitaria e della collaborazione nel Mediterraneo. La questione migratori sarà un banco di prova della buona volontà di tutti.
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Manca ancor meno al momento della verità per il Covid. Presto sapremo se l’equazione sarà quella che tutti noi ci auguriamo : vaccini + estate = salute + libertà. Nell’appunto d’aprile vi ho proposto calcoli ben diversi, notando che in Italia ci sono stati enormemente più morti che in Francia nel periodo a cavallo tra il 2020 e il 2021. Circa quindicimila morti in più in soli cinque mesi. Poi qualcosa è cambiato. Il numero delle vittime è aumentato più moderatamente e la differenza nel bilancio tra i due Paesi ha smesso di evolvere in modo tanto inquietante per l’Italia. Martedì 13 aprile, le cifre complessive dei morti, dall’inizio della pandemia, erano di 115.088 in Italia e di 99.508 in Francia, con una differenza di 15.580. Martedì 11 maggio quel tragico bilancio è arrivato in Italia a quota 123.282 e in Francia a 106.964, con una differenza di 16.318 vittime dall’inizio della pandemia. Se faccio questi conteggi non è certo per immaginare ridicole quanto macabre competizioni, ma solo nella speranza di future riflessioni a proposito di quello che forse non ha funzionato abbastanza bene in Italia nel periodo compreso tra il novembre 2020 e il marzo 2021. L’esperienza dell’ultimo anno e mezzo dimostra quanto le nostre società siano vulnerabili ed è quindi importantissimo studiare i nostri stessi comportamenti in modo da aumentare la nostra efficacia di fronte ad altre possibili emergenze analoghe. Comunque in questa seconda metà di maggio possiamo finalmente guardare l’avvenire con meno preoccupazione di qualche settimana fa. Il Covid non è certo finito, ma almeno speriamo nell’uscita dal tunnel e nel ritorno a una vita quasi normale.<
Tra le cose che caratterizzano il ritorno alla tanto auspicata quasi-normalità non ci sono solo i ristoranti, ma anche i musei e le altre istituzioni culturali. Con l’emozione di uno scolaro, pronto a tornare tra i banchi, mi appresto ad andare a vedere – vedere direttamente, non sul computer – due esposizioni che aprono i battenti in questi giorni a Parigi e che, stando almeno al dossier stampa, vale davvero la pena di visitare in carne e ossa. La prima è al Musée du Luxembourg, è aperta dal 19 maggio al 4 luglio e s’intitola Peintres Femmes, 1780-1830. Naissance d’un combat. L’altra è legata al bicentenario che il mondo intero ha appena celebrato lo scorso 5 maggio: l’esposizione Napoléon alla Grande Halle della Villette, che occupa il resto dell’anno in corso, visto che comincia il 28 maggio e sarà aperta fino al 19 dicembre.
Visto che siamo nell’anno delle celebrazioni dantesche, segnalo infine la traduzione, fresca di stampa, della Divina Commedia in francese, realizzata da Danièle Robert e pubblicata da Actes Sud.
Alberto Toscano
Link interno ai precedenti “appunti” di Alberto Toscano:
https://altritaliani.net/category/editoriali/appunto-di-alberto-toscano/
e benvenuti i vostri commenti in fondo alla pagina.
Più leggero rispetto al tono conclusivo del tuo articolo – e forse un tantino velato di nostalgia – sarà il mio commento, egregio Alberto. Io pure ero un giovanotto parigino in quel 10 maggio di quarant’anni fa, quando, incollato al televisore su quel secondo canale che allora si chiamava Antenne2, alle 20 in punto vidi come milioni di francesi materializzarsi sotto ai nostri occhi, linea dopo linea, partendo dall’alto e grazie all’allora esordiente tecnologia di Cii Honeywell Bull, il volto del neoeletto presidente. Ricordo una cosa precisa di quegli istanti, durata si e no 5/6 secondi : il suspense creato dal fatto che, entrambi i candidati in lizza essendo affetti da conclamata calvizie, NON SI CAPIVA chi fosse dei due il vincitore finché, giunta la materializzazione « in discesa » del volto a sopracciglia ed occhi, non apparve finalmente chiaro che era Mitterrand ! Tu, rue de Solferino probabilmente sapevi già, per via delle voci che di certo circolavano fra adetto ai lavori, ma noi, umili mortali rimanemmo nel dubbio fino all’ultimo…
Il 10 Maggio di quest’anno, l’INA ha avuto la buona idea di ripproporre la diretta integrale di quella serata elettorale esattamente nei tempi di quarant’anni addietro, ovvero dalle 20 in punto, ed ho potuto rivivere quei momenti rimasti sepolti nella memoria del giovanotto che ero allora e che verso le 22 si precipitò a Place della Bastille per poi andare pure fino alla non distante Place de la Republique, altro fulcro importante dei raduni parigini, a festeggiare l’avvento di una cosa allora inedita che aveva nome Speranza nel cosiddetto « Changement »… Quest’anno ho quindi potuto vedere il seguito del dibattito che all’epoca mi ero perso !
Non voglio epilogare sul bilancio politico e non solo di quei due settennati che così drasticamente cambiarono l’assetto del paese che ospita la mia famiglia di emigrati da ormai più di un secolo, dico solo che ebbimo in Mitterrand, al dilà di svariati errori nonché scoperte poco gloriose di fine mandato, per presidente un visionario, uomo colto, raffinato scrittore (leggasi La Paille et le Grain, l’Abeille et l’Architecte…) peculiarità queste che tanto mancarono nelle svariate presidenze successive, di qualunque bordo politico esse siano state…
Pour tout cela, pour l’Espoir que tu nous a donné, MERCI, Tonton !
Caro Alberto, avendo seguito come te le vicende libiche, mi ricordo che Nicolas Sarkozy, dopo aver invitato il colonnello Gheddafi a piantare la sua tenda beduina nei cortili dell’Eliseo (febbraio 2008) non aspetto’ neanche il voto della Nato per far la guerra alla Libia, insieme all’esercito del suo amico David Cameron. Una volta eliminato lo scomodo testimone, tornarono presto a casa, abbandonando i Libici in mano ai trafficanti d’armi, di droga, di esseri umani (2 milioni in dieci anni x 2-3 mila euro a testa = 4 a 6 miliardi di euro) e di petrolio (la metà venduta al nero ed i soldi imboscati in molti paesi africani e nei paradisi fiscali). Chi ci ha smenato é stata l’Italia che, dopo l’apertura del corridoio libico si é trovata in casa più di 1 milione di migranti, mentre la Francia, dopo il Regno Unito, fin dal 2013 ha chiuso loro le frontiere. Chi ci ha smenato ancora di più son stati i Libici, che dopo la rivoluzione araba si son trovati in mano ad altri dittatori e criminali, con la benedizione della Francia, che vende loro le armi, mentre MSF – Sans Frontières sbraita contro l’Italia, ma i migranti non li porta in Corsica …