In questi tempi epidemici di morte, paralisi e confinamento – compreso quello, il più atroce, di chi muore da solo all’ospedale sottratto all’abbraccio dei propri cari – solo le parole sembrano poter sfuggire all’obbligo di stare in casa. Fuoriescono infatti in libertà, e si moltiplicano pubblicamente più vive che mai: cifre e statistiche con relativi commenti, raffinate analisi virologiche – non solo degli specialisti, per altro… – o sociologiche, psicologiche, filosofiche, teologiche, etc., o anche, assai in voga, diari del quotidiano isolato dell’uno o dell’altro scrittore, scrittrice, e vera e propria letteratura apocalittica, ancora più in voga: quella diciamo infernale, alla Giorgio Agamben, in certo senso il più radicalmente virtuoso, che prevede, anzi vede già in essere, il consolidarsi di uno spaventoso sistema coercitivo di controllo, che può rivelarsi più pericoloso della stessa epidemia, o per cui addirittura questa non sarebbe che un pretesto; quella diciamo edenica, all’Edgar Morin o alla David Grossmann, che nell’epidemia vedono un’occasione per ricalibrare individualmente le nostre vite, e magari, collettivamente, rifondare il nostro modo di vivere il pianeta Terra. Gli uni e gli altri spesso rispondono a un brand (per Agamben o Morin è evidente), applicano più o meno meccanicamente formule già collaudate, ma in tutti c’è almeno qualcosa di vero, se non di più, persino nel “delirante” (nel senso più nobile, profetico, del termine) Agamben. E però, anche, in tutte queste parole c’è, insieme all’urgenza – almeno possiamo parlare, scrivere… – qualcosa di stonato, di eccessivo, se non febbricitante, nocivo: anche nelle mie, ovviamente… Lo dico chiamando in causa la più antica epidemia di cui siamo a conoscenza, quella che nella mitologia mesopotamica il dio Enlil scaglia contro gli esseri umani, i quali con il loro continuo vociare gli impediscono di prendere sonno – come non sognare una sorta di grande meditazione collettiva in cui l’umanità adulta – il vociare dei bambini non disturba gli dèi – per un giorno intero, uno soltanto, osserva, pensa, ma – almeno pubblicamente – tace? Si potrà, si dovrà, tornare a parlare, l’indomani…
Ora – e per segnalarlo devo appunto derogare, sia pur brevemente, al silenzio – in tutti questi diversi livelli di discorso pubblico, dallo scientifico al letterario passando per il teologico (si pensi alla recente, spettacolare performance del Papa), una formula ricorre, che particolarmente mi colpisce, mi sorprende: Siamo tutti nella stessa barca. E ogni volta mi torna in mente il film Titanic, con i diversi destini del “povero” Jack, passeggero di terza classe, e della “ricca” Rose, passeggera della prima. Ecco: siamo tutti nella stessa barca, d’accordo, ma non ci stiamo nello stesso modo, vi occupiamo posti più o meno confortevoli, apparteniamo – letteralmente, e la barca diventa una straordinaria metafora – a classi diverse. (È forse interessante ricordare che, sempre nella mitologia mesopotamica, proprio la barca accoglie e salva il primo nuovo umano dopo il diluvio che chiude la serie delle sciagure inviate dall’insonne Enlil: il medesimo diluvio che, trasformandosi, passerà poi nella nostra tradizione biblica…)
Mai, come in questi tempi di epidemia, che di fatto elimina lo spazio pubblico – che stempera, o quanto meno dissimula le differenze – questo fatto banale appare drammaticamente, concretamente evidente. Non è la stessa barca quella di chi è confinato nella sua spaziosa seconda casa con giardino, in campagna, in montagna, al mare, o ancora in un comodo appartamento a Madrid, Milano, Parigi, Napoli, con le spalle sufficientemente solide da poter affrontare una lunga pausa lavorativa, e quella di chi vive intassato in un minuscolo spazio, o addirittura io resto a casa non lo può praticare semplicemente perché una casa non ce l’ha, e magari – con il blocco del suo lavoro precario – non riesce neanche ad arrivare alla fine del mese: come sarebbe possibile, in tali circostanze, ammirare la spettrale bellezza delle strade vuote, la nuova trasparenza della laguna di Venezia, gioire al risveglio del canto degli uccellini, o ancora serenamente prendere il tempo di detossinificare la propria vita, e persino trovare la voglia di raccontarlo pubblicamente? (Un discorso a parte meriterebbero quelli che si dividono fra la casa e un lavoro alienante, pericoloso, e che per di più, a differenza del personale medico e paramedico, sono meno socialmente riconosciuti: cassiere e dipendenti dei supermercati, spazzini etc.)
Lavatevi spesso le mani, mantenete almeno un metro di distanza… martellano giustamente le autorità: ma molti, semplicemente, non possono farlo. Così, prima di redarguire quelli che non restano abbastanza tempo dentro casa – e per carità, lo ripeto anch’io: restiamo a casa! – dovremmo almeno chiederci da dove provengano queste persone, che aspetto abbia l’abitazione che dovrebbe mantenerli confinati. Del resto, i foyers sovrappopolati, le tendopoli, tutti i grandi agglomerati di povertà dove magari ancora più in profondità sono state smantellate le strutture della sanità pubblica, costituiscono un terreno ben più propizio all’avanzare del virus che non quelli che restano a prendere un po’ di sole all’aperto dieci minuti più del consentito. I risvolti delle gigantesche disparità, ingiustizie dentro cui vivono le nostre società sono tanti, questa crisi – pur con tutte le luminose e incoraggianti manifestazioni di solidarietà – li sta rendendo ancora più esasperati, manifesti: altro che stessa barca…
O almeno: se auspichiamo che il dopo si avvicini più all’eden che all’inferno, se veramente – per uscire dal linguaggio teologico – vogliamo fare in modo che questa pandemia sia un’occasione per umanizzare – nel senso più alto di un nuovo, integrale umanesimo – il nostro modo di vivere sulla Terra, bisogna cominciare da subito a organizzarla, questa barca, affinché diventi stabilmente più ospitale, più dignitosa per tutti. I cambiamenti che a molti sembrano oggi necessari, evidenti, quelli ecologici – perché il nuovo umanesimo vuole abitare pacificamente il pianeta, non violentarlo – ed economici, politici, sociali in prima linea, non si imporranno da soli, non sbocceranno miracolosamente, per spontanea mutazione antropologica dell’umanità, ma solo sull’onda di un vasto movimento politico radicalmente, transnazionalmente progressista, che con coraggio cominci a disegnarne il programma: che parlino, si parlino, si mobilitino i dirigenti delle diverse sinistre europee, e non solo europee, insieme agli scienziati, agli economisti e a tutti i cittadini del mondo che auspicano quantomeno – quantomeno… – una profonda riforma del capitalismo. Un programma, un progetto politicamente, economicamente umanista, deve fare sentire la sua voce ponderata e concreta, adesso: in questo apparente non tempo del confinamento già agiscono infatti coloro che di questa crisi vogliono invece approfittare, già approfittano, per arricchirsi sempre di più, legalmente e illegalmente, anche progettando una nuova legalità ancora più autoritaria, più controllante, e funzionale alla pazza corsa del profitto: se il capitalismo non sarà quantomeno riformato, muterà in una forma più aggressiva e violenta, per l’umanità e il pianeta, di quella che abbiamo conosciuto dopo la fine del socialismo reale, e dentro la quale abbiamo vissuto fino ad oggi. Per questo è urgente muoversi sin da ora, proprio sin da ora, anche per caricarci di forza e speranza in questo periodo terribile – dopo, sarà troppo tardi. Del resto, da dove siamo adesso, la semplice possibilità che tutto torni come prima non è già, di per sé, sentita da molti di noi come un’ombra minacciosa?
(p.s. Alcuni dicono: sarebbe bello, ma è utopico. Forse – ma forse è anche la sola risposta realisticamente adeguata al film di fantascienza dentro cui siamo caduti…)
Giuseppe A. Samonà
LINK INTERNO. Versione francese: « Sommes-nous tous dans le même bateau ? » de Giuseppe A. Samonà – Traduzione di Sophie Jankélévitch
(Nel logo, « Melankoli », tela di Edvard Munch, 1892, immagine Wikipedia commons)
Caro professore, mi limito alla prima parte della risposta che hai immaginato: « Sarebbe bello! ». E però mi fermo.
Mi sottraggo alla seconda metà, che non condivido, perchè l’utopia è una spinta formidabile ed ha lo stesso diritto di vivere nelle nostre menti quanto questa realtà che forse ha un livello di apparenza appena inferiore… ma sempre apperente è!
Per cui, bravò, prof. Samonà.
Anche se mi piacerebbe sentire più spesso, e anche e soprattutto al di fuori di periodi fantascentifici come questo che stiamo vivendo, parole come le tue.
Non possiamo riscoprire il bisogno di avviare progetti di riforma delle società e dell’economia in direzione umanista solo quando stiamo male, perché siamo chiusi in casa, perché improvvisamente a molti di noi manca il lavoro, perchè la gente muore più di prima, o perché mancano i posti di terapia intensiva. La sofferenza in questo modo ci circonda da sempre e noi, semplicemente, facciamo da sempre finta di non vederla, di non ascoltare le grida di chi magari è semplicemente un po’ più lontano del nostro vicino di casa. E forse dovremmo imprimere una spinta più umanistica già ai nostri pensieri, al nostro modo di ascoltare gli altri e persino noi stessi, smettendo una buona volta di rapportarci al mondo in maniera egoistica…
Credo che politica e programmi possano cambiare direzione quando riconosceremo dentro di noi la spinta inconscia all’affermazione sociale, a sentirci unici e importanti, senza renderci conto che un morto di Covid 19 è un morto come tanti altri, in Africa, in Asia, persino nel nostro Paese, davanti alle nostre belle città di mare. Senza renderci conto che la nostra vita ha lo stesso valore di quelle di milioni di esseri umani che, come dicevi tu, non hanno casa, non hanno lavoro, magari non hanno nemmeno da mangiare.
Bravò prof. Samonà, condivido tutto.
La mia più profonda stima.
Maurizio de Magistris