Fin dai primi anni Cinquanta Leonardo Sciascia ha manifestato il proprio interesse per i «gialli», sia dichiarandosene lui stesso grande lettore – ne avrebbe divorati circa trecento della fortunata collana mondadoriana tra l’adolescenza e la giovinezza -, sia intervenendo a più riprese sull’argomento, con progressivi approfondimenti relativi all’ampia fenomenologia del genere, alle preferenze dei lettori sottostanti al suo successo, alle diverse dimensioni implicate.
La lettura dei suoi numerosi contributi, resa possibile recentemente dalla bella silloge curata da Paolo Squillacioti per le edizioni Adelphi, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo (2018), consente di individuare alcuni nuclei tematici utili anche ad analizzare più approfonditamente la sua produzione narrativa di impianto poliziesco.
Due, in particolare, sono gli elementi che risultano centrali nel sistema sciasciano: da un lato lo scrittore stesso ha sottolineato come sollevare «a materia d’arte la bruta cronaca quotidiana» sia il segreto dei grandi giallisti, a partire da Edgar Allan Poe; in proposito, cita anche l’annotazione di Gramsci sulla provenienza del «giallo» dalle cause celebri; dall’altro, nel suo caso, per usare le parole che Gabriel García Márquez ha dedicato proprio a lui, «l’aneddoto è soltanto il pretesto per radiografare un microcosmo sociale».
Infatti, per Sciascia il poliziesco si configura come il mezzo per suscitare la riflessione su un sistema politico e sociale degradato, per condurre un’indagine filosofica il cui scopo è quello di arrivare alla verità, di penetrare in profondità nell’animo umano.
Da queste premesse deriva l’originalità del suo ricorso al «giallo», che gli consente di attingere, negli anni Sessanta, a una nuova forma di romanzo realista, un romanzo d’inchiesta, che lascia spazio alla denuncia e alla riflessione morale; ed è un’inchiesta che, per quanto animata da una forte esigenza di tipo razionale, non è destinata a concludersi con la punizione del colpevole, pure individuato intelligentemente dai suoi investigatori. Come ha indicato Sciascia stesso, nell’intervista mondadoriana a Marcelle Padovani del 1979, il «“discorso” del romanzo poliziesco […] tende alla verità dei fatti e alla denuncia del colpevole, anche se non sempre il colpevole si riesce a trovarlo. […] Si potrebbe dire che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco!».
Proprio questo aspetto attiva nell’utilizzazione della forma del «giallo» da parte sua una novità fondamentale, che lo sottrae alla marcata tendenza alla rassicurazione, propria del genere, e vi inserisce fattori di insoddisfazione e di crisi, dotandolo così di una connotazione nuova, politica: i suoi romanzi attingono infatti, in tal modo, a una dimensione extratestuale, si aprono alla storia e alla società.
Lo scrittore motiva la propria predilezione per il poliziesco anche dal punto di vista propriamente letterario, analizzandone le ricadute sul piano della ricezione: il giallista, infatti, a suo parere rivela interesse anche nei confronti del lettore, poiché punta a tenerne avvinta l’attenzione, a “farsi leggere”, sottraendo i propri testi al segno della noia. A questo proposito, suggerisce anche un’interpretazione di matrice freudiana, sottolineando lo statuto di ambiguità che caratterizzerebbe il poliziesco, un’ambivalenza a livello di inconscio, un gioco emotivo sospeso tra l’allontanamento da chi ha commesso il delitto, da chi ha osato delinquere, e l’ammirazione, nel contempo, per chi ha osato trasgredire.
In questo quadro, uno dei punti di forza e di originalità dei romanzi dello scrittore siciliano è rappresentato dalla figura del detective: in primo luogo, lui stesso sembra configurarsi come tale, all’interno della propria opera complessiva – racconti d’inchiesta, romanzi storici oltre che polizieschi -, svolgendovi un ruolo da investigatore, impegnato a condurre delle inchieste, che puntano a trovare la verità, una verità diversa da quella ufficiale, attraverso la ricerca su documenti d’archivio, verbali di processi, testimonianze storiche, come ad esempio negli Atti sulla morte di Raymond Roussel (1971) o La scomparsa Majorana (1975).
Una suggestiva definizione di Gesualdo Bufalino ha fissato Sciascia nel ruolo del «poliziotto di Dio». La si legge in un intervento del 1983, appunto Il poliziotto di Dio, ora compreso in Cere perse e scritto in occasione dell’uscita di Cruciverba: Bufalino nota come all’inizio allo scrittore tutto apparisse lampante, «l’ingiustizia del cielo come quella degli uomini»; magagne immedicabili, alcune, ma anche aspetti per i quali il riscatto sembrava possibile: scrivere era allora per lui un dovere, il Dovere. Andando avanti le cose si sarebbero fatte più complesse, ribellarsi non sarebbe bastato più, prima bisognava capire: e allora Sciascia, «da scrittore siciliano si fa scrittore nazionale ed europeo, da guardia investigativa di Regalpetra diviene grande inquisitore del mondo e poliziotto di Dio».
L’intervento di Bufalino è tutto di grande lucidità e vi si legge una penetrante ipotesi di lettura dell’opera sciasciana, il cui bandolo è individuato nella «sofferenza della parola nel corpo a corpo con la verità; e, dentro la parola, il confronto del chiaro con l’oscuro; e, dentro la verità, i patteggiamenti della certezza col dubbio».
Lo stesso Sciascia, per altro, evoca una dimensione metafisica a proposito della figura dell’investigatore e, più in generale, del poliziesco: ripercorrendo la storia del «giallo», per individuarne i modelli sottostanti, risale infatti alla Bibbia, fino all’uccisione di Abele da parte di Caino, in cui rileva già operante il paradigma “omicidio, investigazione, menzogna, scoperta della verità”, per concludere che il poliziesco presuppone una metafisica: infatti, l’infallibilità dell’investigatore, la sua incorruttibilità, il fatto che non rappresenti solo la legge ufficiale, ma la legge in assoluto, che sappia leggere nel cuore umano, oltre che nelle cose, ne fanno il portatore della «grazia illuminante», l’espressione di un mondo al di là del fisico, di Dio.
Accanto poi a uno Sciascia “detective della scrittura”, si manifesta nel tempo anche l’attento analista dei caratteri e della funzione dell’investigatore nel romanzo poliziesco, come attestano numerosi passaggi del Metodo di Maigret.
Modello negativo, detestabile, è per lui il detective privato alla Mike Hammer di Mickey Spillane, che è protagonista di «gialli» pieni di violenza e terrore e anche di evasione dalla morale, non è meno spietato dei delinquenti più violenti, non ha fiducia nei giudici e nelle giurie, si fa giustizia da sé.
Dal punto di vista più propriamente narrativo, Sciascia individua poi una figura di detective, di gran lunga prevalente, non ben risolto sul piano letterario: riprendendo un’analisi di Prezzolini, distingue infatti tra poliziotto-tipo, che gli sembra avere la stessa ripetitività e fissità delle maschere della commedia dell’arte, e poliziotto-personaggio: il primo non invecchia, non si sposa, non ha figli, e dunque non è un personaggio, ma piuttosto una “funzione” – come pure tutte le figure di “aiutanti” o spalle che lo affiancano.
Il modello positivo, il poliziotto-personaggio trova invece la migliore incarnazione, secondo lo scrittore, in Maigret, lui sì un vero personaggio, non un tipo: ha avuto un’infanzia, ha dei ricordi, matura, impara, è sposato, invecchia e va in pensione…diventa sempre più umano, quasi autonomo rispetto al suo autore.
L’esemplarità di Maigret non è però, secondo lo scrittore siciliano, solo letteraria, dipende anche dal suo statuto istituzionale: infatti, non è un investigatore privato, è un poliziotto, appartiene alla polizia giudiziaria francese, cui i cittadini guardano con fiducia, sentendosene tutelati. Non procede per indizi o per deduzioni, ma si affida alla conoscenza del cuore umano e alle intuizioni; non gli interessa tanto il colpevole, quanto il contesto, la possibilità di immergersi nelle situazioni.
Quanto infine ai detective che lo scrittore crea in proprio, che agiscono nei suoi romanzi, è possibile tracciarne una sintetica fenomenologia: pur non mancando qualche esempio di investigatore dilettante, prevalgono i rappresentanti delle istituzioni, secondo la scelta a loro favore che si è vista espressa anche in sede saggistica, ma con l’idea che in Italia non godano di altrettanta fiducia e non possano arrivare ad assicurare i colpevoli alla giustizia, non per incapacità, anzi, al contrario, perché, pur dotati di grande onestà e rigore, di vera competenza, sono ridotti all’impotenza dai contesti in cui si trovano ad agire.
Hanno alcuni caratteri comuni: sono uomini colti, di una cultura umanistica moderna e critica, grandi lettori; piuttosto solitari, non sono circondati da una famiglia e neppure sposati, quasi isolati all’interno dei gruppi sociali cui appartengono.
Si innesta qui uno degli elementi che valgono a convogliare nei polizieschi di Sciascia l’istanza civile che si è visto caratterizzarli: i suoi detective rimangono estranei al gruppo di appartenenza per i valori morali cui si attengono, non condivisi da quanti li circondano. Non c’è contatto tra loro e il mondo in cui agiscono, soprattutto non c’è comprensione.
Così il capitano Bellodi, la cui estraneità è marcata anche per la sua provenienza dal settentrione, il suo passato di impegno democratico, ha un compito molto più difficile dei suoi colleghi di carta, non deve risolvere un enigma, sconfiggere un antagonista, ma lottare contro un costume, un fatto sociale, l’omertà. Il detective sciasciano è solo nella sua battaglia contro una rete sociale di delinquenti: refrattario alla corruzione, è spinto da ideali etici, dal bisogno di trovare la verità e di assicurare la giustizia; tutto ciò lo destina necessariamente alla sconfitta, al fallimento. Alla fine, il lettore si trova di fronte a una doppia negatività, con l’inversione da un lato dell’esito della lotta tra eroe e antagonista che, nel poliziesco, tradizionalmente vede il primo vittorioso, e dall’altro, con il rovesciamento dell’esito dell’indagine in rapporto all’affermarsi della giustizia. È quanto avviene anche con Laurana in A ciascuno il suo (1966), in modo più articolato con Rogas nel Contesto (1971), ancora con il pittore in Todo modo (1974) e infine con i protagonisti di Una storia semplice (1989).
Ci si trova così di fronte a romanzi che si misurano magistralmente con la complessità del reale, che restituiscono una lucida rappresentazione dello iato tra visione ideale dello stato e società contaminata dalla mafia e dallo strapotere della criminalità organizzata, che smascherano collusioni e reti delinquenziali; romanzi che, lungi dal rapirci in una lettura di intrattenimento, ci chiedono di riflettere, di capire, di condividere l’impegno dello scrittore nel raggiungere la verità, una verità che sta nella lotta contro le credenze imposte e di cui l’autore è l’unico garante.
Ricciarda Ricorda
Link ai diversi contributi del dossier tematico «Leonardo Sciascia 30 anni dopo».