Contro la violenza di genere. Prima un libro edito da Pendragon nel 2013, adesso un Seminario, il primo in Italia a livello Universitario, rivolto agli studenti, con tanto di crediti formativi, ma anche aperto a tutti coloro che vogliono partecipare. L’Università di Bologna ancora una volta “docet” sui problemi sociali affrontandoli come culturali.
IL SEMINARIO.
Mercoledì 5 febbraio 2013 ha preso il via a Bologna, in Via Zamboni 38 aula V, il primo Seminario curriculare contro la violenza alle donne mai organizzato da un ateneo universitario. Aula strapiena, presente il Magnifico Rettore prof. Ivano Dionigi – il quale ha sottolineato di come la questione, con questa iniziativa, confinata finora alle cronache del sociale sia stata ricondotta al suo ambito naturale, ovvero quello culturale e indicando come unico controaltare alle crisi culturali proprio la filosofia, quella di Socrate che, come diceva Cicerone, “egli strappò dal cielo per portarla sulla terra”- il corso è iniziato sotto i migliori auspici cercando di attirare l’attenzione, soprattutto dei più giovani, su questo drammatico e complesso problema che sembra non arretrare un passo rispetto alla propria intensità.
Il Seminario, parte integrante del percorso didattico della laurea di primo livello, ha come responsabile scientifica la prof.ssa Valeria Babini, docente di Storia della psicologia – che nell’occasione ha ribadito quanto il seminario stesso intenda complicare e non semplificare il discorso, attraverso il confluire nel dibattito di vari sguardi nel punto di vista fenomenologico – e si sviluppa in quindici incontri (da febbraio a maggio 2014) a cui interverranno giuristi, giornalisti, psicoanalisti, filosofi, storici, sociologi, operatori dei centri antiviolenza, scrittori. Alla fine del ciclo verrà chiesto ai ragazzi di sviluppare un proprio tema sulle impressioni raccolte o dalle suggestioni nate e verrà assegnata una borsa di studio al miglior lavoro svolto. In particolare, durante il primo incontro, è stato ribadito di come la violenza non sia solo un problema che riguarda la donna ma che compete anche all’identità maschile largamente coinvolta nel fenomeno.
http://corsi.unibo.it/Laurea/Filosofia/Documents/definitivocalendario.pdf
IL LIBRO.
Dalla quarta di copertina del libro, edito da Pendragon nel 2013: “Contro la violenza alle donne. Voci dall’Ateneo di Bologna” a cura di Valeria Babini, Valentina Filippi, Susi Pelotti:
«La violenza di genere ha molte facce, molti luoghi, e dagli innumerevoli volti del silenzio è ancora avvolta e protetta. Nell’estate del 2010 il Comitato Pari Opportunità dell’Università di Bologna ha voluto affrontare questo dramma sociale chiedendo a coloro che nell’Ateneo studiano e lavorano di rompere il silenzio attraverso la loro scrittura. Le risposte non si fecero attendere. Oggi questo libro raccoglie e offre al vasto pubblico le poesie e i racconti di quanti, soprattutto studenti, decisero di far sentire la loro voce, di raccontare storie vissute o immaginate, di esprimere la propria intima indignazione, di narrare il proprio dolore, di dirsi contro. Sono racconti forti, veri, emotivamente intensi, che tra consapevolezza e denuncia arrivano a toccare la sensibilità di tutti noi.»
Ho letto questo libro recentemente, in occasione dell’inaugurazione del Seminario, di cui ho accennato in apertura di questo articolo, e la cosa che mi ha immediatamente colpito è stata la presenza di voci diverse (se pure quasi anonime in quanto i lavori: racconti, testimonianze, poesie, messaggi sono firmati solo con le iniziali dell’autore o dell’autrice) che propongono episodi di genere in cui il maschile si fonde col femminile e viceversa. Ovvero un racconto scritto con voce femminile è firmato dalle iniziali di una voce maschile e lo stesso succede per il caso contrario. Questa prospettiva di sguardi che si incrociano e si fondono mi sembra, senza dubbio, la novità e la possibile chiave di lettura di un lavoro che, senza nessuna pretesa letteraria – se pure emergono alcune voci certo più avvezze o più inclini a praticare la scrittura – ritorna sulla tematica della violenza di genere con un approccio problematico che non prova a dare soluzioni ma, semplicemente, evidenzia e mette in campo una serie di sfumature che fanno parte tutte dello stesso, identico scenario.
Così, analogamente al libro (di cui si è già parlato nel nostro sito) della scrittrice Dacia Maraini “L’amore rubato” (edito da Rizzoli), dove si pescano narrazioni da fatti realmente accaduti, già sentiti nelle tristi cronache dei quotidiani per rappresentare le “facce della violenza”, le azioni palesi e nascoste dei mostri che si nascondono spesso nel più insospettabile degli uomini, anche il lavoro fatto per raccogliere le voci nate dall’Ateneo di Bologna produce una carrellata di eventi, in contesti di vario genere, dove realtà e fantasia sembrano allinearsi in un resoconto di tratti tragicamente presenti anche laddove la violenza non te l’aspetteresti mai.
Ed ecco che nascono, da queste penne diverse e sodali, pagine che urlano, sussurrano, indagano, svelano – con tensioni narrative a volte davvero sconcertanti e riuscite – episodi ed emozioni a cui non è possibile non dare spazio nell’inconscio di lettore. I testi, di cui farò qualche esempio, mettono davanti agli occhi l’accadimento nudo e crudo da cui ha avuto spunto l’idea narrante, e ne tracciano delle linee spesso talmente distinte da chiedersi se sia possibile aver, comunque, pensato a costruire un fatto immaginario o se l’origine non sia un déja vu che non si fa certo fatica a rintracciare nel quotidiano.
Come lettrice e critica di poesia trovo i passaggi presenti in questa forma nel libro forse meno riusciti rispetto alla prosa che invece, specie in alcuni racconti, si presenta sinuosa e accattivante come l’idea della seduzione che vuol dimostrare o, altre volte, decisa e feroce come la brutalità che tende a smascherare. La violenza ha mille facce, mille maschere ed è giusto provare a dettagliarne almeno alcune: trovo che molti racconti abbiano percorso un buon cammino di svelamento come ad esempio il primo, Blanche.
Blanche – bianco – è il colore metafora che l’autore usa per rappresentare il modus vivendi del protagonista del racconto. Un uomo che identifica il suo sentire, il suo essere in perfetta sintonia con la natura attraverso la ricostruzione asettica di un ambiente di lavoro dove tutto è rigorosamente bianco e candido. La perfezione maniacale di cui si circonda è perfettamente descritta in questo passaggio:
«[…] Quando Monsieur ripose il ricevitore, il sole risplendeva proprio come un diamante, dentro l’ufficio, smembrandosi in migliaia di particelle scintillanti che si posavano ovunque: sul portacenere di porcellana bianca, sul braccio della lampada al neon, laccato bianco, sullo stipite bianco della porta, sulla copertina di plastica morbida dell’agenda, anch’essa di colore bianco. era tutto uno spazio di bellezza asettica e bianca, riflettente un’idea di lucidità, di nettezza, di leggerezza e insieme di rigore, che dava a Monsieur Auguste un delizioso capogiro, seduto al centro di quel puro universo.[…]»
A questa perfezione, che rasenta la lucida follia di avvicinarsi al colore di Dio, non corrisponde però il comportamento osceno e crudele dell’uomo che cambia continuamente le sue giovani segretarie costringendole, per mantenere il proprio posto di lavoro, a prestazioni sessuali, e che non si scompone più di tanto quando uccide l’ultima dopo averla messa incinta, più preoccupato della macchia di sangue sul pavimento, del rosso che non si combina, che stona col resto del bianco che della sua morte.
Racconto ben scritto non solo da un punto di vista letterario ma anche per l’azzeccata introspezione del personaggio, che si manifesta nel ritratto della spietatezza tipica di un animo volto al male, pieno solo di un narcisistico e orrorifico se stesso.
Il secondo racconto di cui voglio parlare è quello dedicato ad un personaggio del 1673: Elisabetta Pasquini. Sconvolge sempre l’idea che nel passato la vita delle donne fosse sottoposta a giudizi, costretta a situazioni, vanificata nella propria essenza da moralismi e consuetudini rigide e speculari alla mentalità collettiva che non accettava, in fondo, una partecipazione del genere femminile alla vita intera, una sua presenza come essere umano nel mondo. Elisabetta è la solita vittima di una violenza annunciata, la solita protagonista di una storia di ragazza ingenua che crede nell’amore e “si concede” all’uomo che ha promesso di sposarla prima del matrimonio. Elisabetta è anche malata e il suo male, rimasta incinta, la porta alla morte dopo aver perso il bambino ma senza essersi sposata con l’uomo che ha “disonorato lei e la famiglia” e che non l’ha più voluta. La sorella prova a denunciare il fatto al Vicario e parroco del luogo, il quale le rende giustizia e il “reo confesso” stupratore viene condannato a corrispondere una cifra risarcitoria alla famiglia della ragazza. Ma il passaggio che colpisce al di là della vicenda, reale e documentata nell’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna, è il tipo di preoccupazione e la conclusione a cui si arriva, che affiorano nelle pagine del processo, e che vengono descritte dal narratore in questi passaggi:
«Nell’interrogatorio di Rubea successivo alla morte di Elisabetta, la donna commentò la morte della sorella come un evento che “ci ha lasciati con questa vergogna e dishonore”, ma aveva aggiunto “che del resto se sopravviveva la suddetta Elisabetta, volevo fare istanza fosse sposa sì come gli haveva più volte promesso il suddetto Pietro Masina, ma già che è morta bisogna havere pazienza, non resto però che io non desideri che detto Pietro sia castigato dalla Giustizia.” La pazienza di cui parla Rubea sembra riferirsi al mancato matrimonio che avrebbe ripristinato l’onore della famiglia, piuttosto che alla perdita della sorella. [Mentre il Vicario che pure riuscirà a far condannare Pietro al risarcimento, giustifica le difficoltà a procedere nello sviluppo delle indagini] “…la Giustificazione del quale delitto si rendeva molto difficile per la mancanza del corpo del delitto…” […], corpo del delitto che altro non era che il vero corpo oramai senza vita di Elisabetta, o forse ancora di più, quello della creatura morta nel ventre.»
Racconto questo dunque, ripreso dalle cronache del tempo, che ci porta a riflettere sulla storicità del problema della violenza, sull’educazione che da sempre è stata portata avanti rispetto a queste tematiche, che spesso sembrano sminuire i fatti o addirittura riportarli su piani diversi rispetto a quello reale della cultura della violenza di genere, in fondo e tristemente sempre praticata.
Il terzo racconto che propongo ha come titolo: Bottega vendesi. Si tratta di una storia che colpisce per la capacità dell’autrice di tenere la tensione narrativa fino alla fine del racconto, rendendolo quasi un thriller, con colpi di scena drammatici e d’impatto fortemente emotivo. Molte cose non ti aspetti dalla lettura di queste poche pagine, che ti sorprendono in un concentrato insolito di vissuto doloroso, dove a tratti affiora quell’horror vacui insito nelle figure psicologicamente instabili ma, e qui sta la tensione a cui accennavo, quella che tiene su il racconto, apparentemente “normali”.
Due ragazze, Sabrina e Caterina, inseparabili amiche vivono la propria adolescenza scambiandosi affetto e condividendo emozioni, cercando di imparare in qualche modo a vivere. Passano i pomeriggi nel nascondiglio sicuro, sotto il bancone dei libri di filosofia, nel negozio dello zio di Sabrina. Dà lì osservano il mondo, studiano, ascoltano i discorsi dei grandi, giocano, crescono. Frequentano insieme anche un gruppo di scout, ma per la scuola una ha scelto il liceo classico e l’altra lo scientifico, scelta determinata dal cercare di distinguere le proprie personalità almeno nell’indirizzo scolastico. I momenti più belli sono quelli passati sotto il bancone, nella bottega dello zio.
Una figura dal portamento solenne, elegante, un uomo coltissimo che sa di musica, teatro, poesia, un gentiluomo di quelli di una volta, sempre vestito in giacca e cravatta e pronto a fare il baciamano a tutte le donne che entravano in negozio, persino a Cesca, ad una povera donna non cresciuta, rimasta con la mente all’età di cinque anni forse, cresciuta nel convento delle suore e imbottita di farmaci per tenerla calma, ma una persona al contempo molto dolce e capace di far sorridere con le sue battute infantili. La storia si snoda in un percorso di vita vissuta tra pomeriggi passati sotto il bancone a conversare comunque con lo zio libraio, capace di arricchire di esperienze culturali le due ragazze, momenti di scuola e di svago, confidenze e discussioni sulle grandi problematiche delle varie discipline.
L’elemento che scatena la fantasia sull’amore delle ragazze è il ritrovamento di una lettera nella soffitta della casa di Sabrina, dove una misteriosa Livia firma una vera e propria missiva d’amore con tanto di resoconto di esperienze erotiche vissute con l’amante. Incapaci di parlarne con chicchessia le amiche provano a sondare gli aspetti dell’amore, fino a quel momento estranei al proprio vivere, sfiorando il problema con lo zio. La risposta le sconcerta perché in luogo di un concetto questi sciorina una serie infinita di aggettivi che dovrebbero descrivere le qualità dell’amore stesso.
Ecco il passaggio che è anche la chiave narrativa della storia:
«”Ostacolato, ricambiato, possessivo, passionale, generoso, romantico, passeggero, eterno [ne sciorina più di ottanta]…” i suoi occhi erano rimasti fissi sulle sue mani che, incrociate sul grembo, sembravano ascoltare anche loro con noi quella lista di aggettivi, ognuno dei quali portava con sé storie di persone. Non erano semplici parole vuote, erano state scelte per identificare precise sensazioni vissute. Tarcisio [lo zio] non aveva un amore, ma aveva mille modi per chiamarlo. Avevamo la sensazione di aver toccato un nervo scoperto, come se avesse aspettato da sempre quella domanda che nessuno aveva mai osato fargli. Era come se avesse accumulato con fatica, impegno e tenacia tutti quegli aggettivi con la prudenza e l’amore di un collezionista.»
Cosa si nasconde dietro questa forma collezionistica di parlare dei mille volti dell’amore? Il risvolto del racconto ci propone improvvisamente l’altra faccia dell’uomo. E non è una bella faccia. Un giorno, per caso, le due ragazze entrano nel negozio dello zio che trovano aperto seppure avrebbe dovuto non esserlo e scoprono che questo, aiutato da una suora del convento, abusa ripetutamente della povera Cesca, senza toccarla e quasi con odio verso quel corpo e quella gestualità che sembra costretto a compiere: «…] aveva l’odio nel cuore e la morte negli occhi…Quanti tipi di odi possono esistere al mondo? [… ] ostacolato, possessivo, passionale, generoso, romantico, passeggero,…»
La crescita improvvisa e forzata di fronte al male è inevitabile. E qui c’è il secondo accadimento narrativo che conclude la vicenda: Sabrina, disperatamente e drammaticamente, si libera di Caterina, la figura immaginaria, la parte buona e bella di lei, l’invenzione che si era creata per credere negli ideali e nei valori del mondo, svanisce lasciandola complice di un’atrocità che non sarebbe mai riuscita a denunciare, ne a dimenticare.
Non si resta indifferenti dunque, di fronte a questa lettura dell’animo umano così capace di interpretare le debolezze e le nefandezze di cui si può macchiare l’uomo, ma altrettanto capace di denunciare la sofferenza che può restare a livello inconscio dopo aver vissuto o aver comunque assistito, impotenti, a tanto male che ha deluso e troncato i progetti e le speranze di una vita.
Potrei parlare di molti altri racconti, altrettanto densi di filoni ed esperienze drammatiche, di storie necessarie da ascoltare e condividere ma credo di aver dato ormai ampiamente il senso di quest’articolo che è quello – a cui inizialmente accennavo – di mettere in luce i diversi e terribili volti della violenza. Inoltre, anche per lasciare la voglia nel lettore di andarsi a leggere le altre interessantissime voci del libro mi fermo qui, chiudendo con una poesia, genere forse meno riuscito nell’impalcatura complessiva di tutto il lavoro ma di cui voglio riportare il testo che, a mio avviso, è almeno il più significativo.
Alice
Angoli.
La mia casa è fatta solo di angoli.
Piccoli angoli bui,
illuminati dall’oscurità.
La mia camera è fatta solo di angoli.
E in tutto il resto arriva la luce,
ma non mi piace,
arriva la luce.
Vedo le ferite.
Non sono felice. Mai.
Il mio cuore è fatto di angoli, ma
non sono felice.
Al buio e alla luce
torno sempre a morire.
Dimenticavo,
piacere, Alice.
Cinzia Demi