Wu Ming (per esteso: Wu Ming Foundation) è il nome d’arte usato da un collettivo di scrittori italiani formatosi nella sezione bolognese del Luther Blissett Project (1994-1999). « Wu Ming » (in cinese: senza nome) indica un preciso nucleo di persone, attivo e presente sulle scene culturali dal gennaio del 2000. Il gruppo è autore di numerosi romanzi, tradotti e pubblicati in molti paesi, ritenuti parte del corpus (o « nebulosa ») del New Italian Epic.
Esistono i fatti, ed esistono i racconti dei fatti. Il pensiero contemporaneo, quello affermatosi nell’era a torto o a ragione definita postmoderna, ci ha ormai assuefatto a pensare che la seconda dimensioni oscuri ed escluda la prima, sostituendosi ad essa e rendendole in qualche modo irraggiungibile: è ormai quasi una vulgata l’idea che la nostra sia l’epoca in cui non esistono più realtà certe, ma solo interpretazioni della realtà, non più l’oggettività dei dati, ma solo il linguaggio che li racconta. E raccontare, mettere in trama, significa deformare, far passare l’incontrovertibile evidenza dell’evento nella dimensione effabile e per sua natura deformante della parola che lo narra. La storia stessa, ci ricorda Hayden White, è anch’essa narrazione, costruzione retorica e soggettiva, dunque interpretazione. Ed allora? Davvero è ancora possibile passare la memoria, testimoniare? Se la realtà di un’epoca diviene la trama retorica del discorso che la reinterpreta, la tradizione diventa davvero tradimento?
Secondo Wu Ming, l’attore collettivo (l’ex Luther Blisset, per chi sin ricorda degli anni 80-90) di New Italian Epic (Einaudi, 2008) non c’è niente di più sbagliato. In nessun altra forma come nella narrazione la realtà di un’epoca, il suo spirito possono prendere corpo e trovare testimonianza. E paradosso dei paradossi, soprattutto nella narrazione di invenzione, nel discorso romanzesco.
La New Italian Epic, che d’ora in avanti chiamerò NIE, adeguandomi al modo degli autori, è definita da Wu Ming come una nebulosa; non si tratta, cioè, di un movimento organizzato, coerente, consapevole, ma del proliferare di un gran numero di opere narrative, concentrate in un certo luogo (l’Italia) ed in un certo periodo (il quasi quindicennio che va dal 1993 ad oggi). Eterogenee quanto a contenuti e generi di appartenenza, esse condividono comunque una serie precisa di caratteri (tematici, stilistici, etc.), tanto da configurarsi come una vera e propria costellazione, una sorta di “campo di forze” (p.9). Gli autori di questi romanzi sono molti. Wu-Ming, naturalmente, ne produce un elenco molto ampio.
Nel saggio, però, l’analisi si concentra solamente su alcuni campioni, quelli ritenuti più rappresentativi, evidentemente: innanzitutto Gomorra, di Roberto Saviano, poi, le opere di Valerio Evangelisti, prima fra tutte Black Flag, quelle di Giuseppe Genna, ed in particolare Medium, Grande Madre rossa, naturalmente i romanzi dello stesso Wu Ming, come Q, 54, il romanzo Sappiano le mie parole di sangue, di Babsy Jones, inaspettatamente il Camilleri di Maruzza Musumeci e La presa di Macallè; ritenuti particolarmente rappresentativi della NIE sono poi altri autori, come Lucarelli e De Cataldo. Mi limito a citare questi nomi, ribadendo che molti altri, nel saggio, vengono ascritti alla nebulosa neo-epica. Perché, in riferimento a queste opere, il ricorso alla categoria: ‘epica’?
L’analisi di Wu Ming è ampia, articolata su tre studi diversi, i quali, certo, ruotano tutti attorno ad un medesimo nucleo di argomenti, ma lo fanno introducendo di volta in volta varianti e nuovi spunti, dunque proponendo diverse, successive declinazioni della questione. Volendo riassumere, l’idea di fondo prende piede dalla seguente ricostruzione storica: in Italia, nel decennio che termina, appunto, verso la metà degli anni 90, la produzione letteraria è stata dominata dall’estetica postmoderna del gioco, del distacco: nessuna fiducia nella forza delle parole, nessuna reale serietà, l’incapacità costitutiva di affidarsi alla scrittura ed ai suoi contenuti in maniera integra, sincera, senza strizzate d’occhio. L’atteggiamento imperante, fra gli autori, era quello dell’ironia e del disincanto, che rendevano praticabile solamente il balletto ludico ed autoreferenziale delle citazioni e dei rimandi intertestuali.
Fin qui niente di nuovo. Negli ultimi anni sono in tanti quelli che, in Italia, hanno preso le distanze dal disimpegno e dall’assenza di peso specifico del romanzo postmoderno, denunciandone la leggerezza, l’incapacità costituiva di mordere la realtà. Si pensi alle riflessioni di Antonio Moresco (del resto citato nel saggio di Wu Ming) o, da tutt’altra prospettiva, alla lettura materialista dello studioso Romano Luperini. La novità del discorso di Wu Ming sta, invece, nell’indicazione di un’inversione di tendenza. Secondo Wu Ming, infatti, a partire dal ‘93 le opere NIE restituiscono alla scrittura narrativa una ritrovata serietà, si riappropriano di quell’etica del narrare che è testimoniata innanzitutto dalla portata delle loro ambizioni. Esse sono, infatti, epiche in primo luogo nel senso più classico del termine, perché sono “grandi, ambiziose, «a lunga gittata», «di ampio respiro» e tutte le espressioni che vengono in mente” (p.15). Si occupano insomma di grandi questioni, il loro sguardo non è ristretto. La loro epicità, poi, è definita, come dicevo, in base ad una serie di qualità che esse possiedono. Mi limito a citarne alcune. Innanzitutto si tratta, in molti casi, di opere indefinibili, o comunque molto difficili da classificare. Wu Ming le chiama UNO, cioè Unidentified Narratives Objects, perché si rifiutano di rimanere obbedientemente all’interno degli steccati di genere. Si pensi a Gomorra: è un romanzo? Un reportage?
Secondariamente, vive in esse una sperimentazione formale e linguistica che, per quanto non estrema, non avanguardisticamente iconoclasta (capace dunque di rispettare la leggibilità del testo) comunque innova; agisce sul lettore di nascosto, sommessamente, offrendogli inedite forme di costruzione linguistica travestite da narrazione apparentemente chiara e diretta. Un terzo aspetto riguarda poi la prospettiva da cui le storie della NIE vengono raccontate, vale a dire il punto di vista narrativo che esse utilizzano. Anche in questo caso non c’è esempio migliore di Gomorra: difficile non essere d’accordo con Wu Ming quando definisce quello usato nel romanzo di Saviano come un punto di vista “di sintesi”. Esso è il punto di vista dell’autore, ma allo stesso tempo è il punto di vista di molti altri, dei protagonisti o dei testimoni delle storie raccontate; è un “flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all’altro, prende in prestito il punto di vista di un molteplice […] «Io»” (p.31). Uno sguardo incollocabile, o inattribuibile, come del resto quello –prosegue Wu Ming- presente nell’incipit di Grande madre rosa, di Genna, che inquadra dall’alto il pianeta (“diecimiladuecentometri sopra Milano”, p.30), senza provenire da nessuna entità precisa (“È uno sguardo disincarnato, una non entità”, p.31). L’elenco delle caratteristiche comuni ai romanzi new epic potrebbe proseguire, ma preferisco fermarmi qui.
La questione del punto di vista “inusitato”, infatti, è interessante non solo per il fenomeno in sé, ma perché, esplicitamente, Wu Ming definisce ciò su cui tale sguardo si posa, ciò che le storie raccontano, come il “divenire storico”. Le opere NIE, o molte di loro, raccontano la storia, cioè la realtà nel suo scorrere. Non solo perché molte di esse sono, in effetti, romanzi pseudo-storici (“molti di questi libri sono o sembrano romanzi storici”, p.15). Ma perché raccontano, anche se magari non se ne ha l’impressione, la nostra realtà, i nostri tempi. L’impressione di chi legge il saggio, è che l’autore gli si stia parlando di una letteratura che rimette al centro della scena il mondo, la nostra epoca, la vita presente con i suoi conflitti.
Il terzo degli studi di New Italian Epic, prende il titolo di Noi dobbiamo essere i genitori. La formula è di per sé già molto esplicativa. In queste pagine si insiste sulla necessità, per i nuovi scrittori, di prendersi una responsabilità fondamentale: in tempi “condizionati dalla morte di fondatori, dei ‘capostipiti’, dei genitori che se ne sono andati lasciandoci con problemi enormi” (NIE, p.118) essi dovranno diventare i nuovi padri: “Noi dobbiamo essere i genitori, i capostipiti, i nuovi fondatori. Abbiamo bisogno di riappropriarci di un senso di futuro”, scrive Wu-Ming. _ L’argomento, non c’è bisogno di dirlo, è un’ulteriore espressione della volontà di rompere con il disimpegno ed il cinismo, dissacrante ed un po’ adolescenziale, del buttare tutto in barzelletta (o “in vacca”, come giustamente dice Wu-Ming) tipicamente postmoderno. Ma è anche un’ulteriore affermazione di fiducia nelle capacità della letteratura di tornare a interpretare ed a restituire l’anima del proprio tempo. Per Wu-Ming, diventare i nuovi padri significa re-immaginare un futuro, la prospettiva di un divenire che procede e continuerà a procedere dopo di noi. Credere nella storia, dunque, vuol dire non solo credere nella storia passata, nella tradizione da ricevere, ma anche in quella futura, nella possibilità di poter essere noi (loro, gli scrittori odierni) a tramandare qualcosa. Di raccontare, innanzitutto, la storia della propria epoca, la propria realtà. E di farlo -questo è l’elemento di maggior interesse contenuto nella lettura del saggio di Wu Ming- attraverso romanzi d’invenzione.
Le opere della New Italian Epic non rappresentano un ritorno al romanzo realistico (siamo molto distanti dal nuovo realismo che da più parti è stato visto affermarsi nel cinema come nella letteratura in Italia. Si pensi soltanto che una delle più importanti riviste di critica letteraria e non solo, “Allegoria”, nel 2008 ha dedicato un suo numero proprio a questo tema). Niente vieta, certo, che un’opera NIE giochi con le convenzioni e i codici del romanzo realista, o che possa costituirsi come un’opera sostanzialmente e complessivamente realista. Un romanzo può essere storico, o realistico, ed assieme epico, spiega Wu Ming. La forza delle opere NIE, però, non sta nell’abolire l’invenzione narrativa, a favore del romanzo documento, o del romanzo oggettivamente, fotograficamente mimetico, ma esattamente nell’attitudine contraria.
Per spiegare meglio, cito un’altra delle peculiarità attribuite da Wu Ming alla NIE: la tendenza alla creazione di storie alternative o “Ucronie potenziali” (p.34). Ucronici sono quei racconti che, a partire da momenti chiave della storia reale, immaginano che le cose possano essere andate in modo diverso (cosa sarebbe successo se Hitler non avesse invaso la Russia, o semplicemente se mio nonno non avesse scelto di fare il negoziante, ma fosse emigrato in America?) raccontano vicende potenziali, in realtà mai accadute.
I romanzi NIE, spiega WU Ming, flirtano con tale dimensione. In realtà non si mettono a narrare vicende “contro fattuali” o parallele, ma “riflettono sulla possibilità stessa di una tale biforcazione, raccontando momenti in cui molti sviluppi erano possibili e la storia avrebbe potuto imboccare altre vie”(p.35). Si immagini che Giuseppe Genna, nel romanzo Medium, fa una cosa simile addirittura con la storia del proprio padre, scomparso di recente.
Commenta Wu Ming: “Immaginando un mondo parallelo in cui suo padre aveva un’altra vita, e chiedendosi come avrebbe elaborato il lutto in un caso simile, Genna omaggia il genitore qui, oggi, nel nostro piano di realtà”(p.36). Ecco l’idea: anche, e forse soprattutto, le storie che creano un mondo totalmente immaginario, di fantasia, possono raccontare questa (la nostra, la vera) realtà, “omaggiarla”, farle giustizia. Non è un caso che molti dei testi della NIE raccontino di universi immaginari, mischino realtà storica e illusione, creino nuove mitologie.
È vero, in un mondo in cui tutto è diventato discorso, c’è bisogno di far riemergere i fatti, contro il chiacchiericcio delle parole che li distorcono, delle interpretazioni sbagliate, della disinformazione mediatica, della retorica politica, dai fantasmi dell’immaginario deteriore che ci si diffondono attorno. Ma, scrive Wu Ming: “Non sono le storie a fa scomparire i fatti. Sono i fatti che vengono scavalcati dalla disinformazione, perché pretendono di affrontarla da sola” (p. 151). Contro le storie sbagliate, quelle usate come “armi di distrazione di massa”, quelle dei linguaggi che deformano la realtà, e la fanno scomparire, bisogna armarsi di storie giuste, di vere narrazioni nelle quali tradurre (e così aiutare a comprendre) i fatti: “L’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative” (164)
Giovanni Solinas