Proseguono su Altritaliani i racconti “psicogeografici” di Ennio Cirnigliaro, archeologo e storico genovese. Sosta questa volta a Ventimiglia, ultima città italiana della Costiera ligure di Ponente prima di varcare la frontiera francese. Un punto strategico di confluenza e passaggio. Di origine romana, pluristratificata, ha un centro storico medievale, la Città alta, pittoresco e da vedere, una parte moderna e un lungomare sempre movimentato. Gode di un clima eccezionale. Multiculturale come molte città di confine e del Mediterraneo, ha fascino ed è anche cara al nostro narratore per le sue contraddizioni.
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A Ventimiglia c’è sempre il sole. Un sole che si insinua in ogni anfratto, che ti sfianca di luce e colori sempre vivi. Un sole che sembra scivolare giù dalla Valle del Roja e buttarsi in quell’orizzonte così ampio da sembrarti Oceano, se lo fissi senza guardarti intorno. Perché intorno c’è, gigantesco, a Ponente, Cap Martin, con quel profilo che fa concorrenza (la geografia è anche un giro tortuoso nei propri ricordi) allo scolpito volto mussoliniano del Monte Soratte.
Ventimiglia è un tropico, un tropico triste in cui l’unico punto d’arrivo è la partenza, dove finisce l’autostrada dei fiori, nome gentile per definire il più tortuoso e costoso serpentone d’Italia. Da qui, l’ est è Genova e l’ ovest è Nice, scritto in francese sui cartelli autostradali dell’A10 che muore per fare nascere la A8 francese, la ricca autostrada della Costa Azzurra piena di gallerie illuminate che sembrano sbattere in faccia a chi arriva dall’Italia tutte le mancanze del Paese che ancora non ha terminato il suo Risorgimento.
Il destino cinico e baro l’ultima città italiana sulla Riviera, del resto, ce l’ha già nel toponimo che, come a tradurne involontariamente l’intima essenza, è già di per sé un equivoco figlio della ybris dei cartografi piemontesi che vollero tradurre tutti i nomi dei luoghi, sempre pronunciati nei diversi dialetti locali, con formule improbabili. Se San Romolo (San Romou, nel genovese di Ponente) – altra ironia della storia – era stato trasformato in San Remo, come per una vendetta postuma del fratello sbagliato, « Vintimiggia », derivato da Vimtimilia, estremo e declinante latino di un originario Albintimilium, ossia « Capitale degli Intimilii- Intemelii », nome della popolazione ligure dell’estremo ponente, si trasformò addirittura nel nostro Ventimiglia, spesso scritto XXmiglia, che fa l’effetto del gesso quando stride sulla lavagna.
Oltre ad essere un equivoco toponomastico, la città diventa poi anche un equivoco geografico: è più a sud di Firenze ma è considerata Italia settentrionale, un po’ come quando nelle previsioni del tempo i metereologi mettono la Sardegna nel Centro, quando la sua punta più settentrionale è più o meno alla stessa latitudine di Napoli. Forse la superficialità altrui è il destino delle terre marginali, dove “marginali” diviene, nel nostro caso, anche letteralmente tale, essendo la città uno dei margini del nostro Paese di cui si fa anche sintesi allorché pare manifestarne in maniera ristretta, e dunque più densa, e dunque più acuta, e dunque più stridente, tutte le contraddizioni.
A Ventimiglia persino la città di oggi non è più quella di ieri: la Albinitilium preromana e romana, infatti, era ubicata più ad est, alle foci del Nervia, quasi a Bordighera, mentre quella medievale e moderna si trova più ad ovest, alle foci del Roja, dove in un punto indefinito fra l’ultimo tardoantico e il primo medioevo si occupò un colle che oggi costituisce il secondo centro storico più grande della Liguria dopo Genova, che, peraltro, essendo il centro storico più grande d’Europa, fa del secondo piazzamento una posizione comunque di tutto rispetto.
Se oggi la Ventimiglia medievale e quella romana risultano unite in un’unica conurbazione, lo si deve alla grande stagione delle speculazioni edilizie che nel Dopoguerra ha trasformato la Liguria in un Pensionato per milanesi e torinesi danarosi (sì, so che sembra un cliché ma vi giuro che non lo è, almeno in parte. Qualora lo fosse, abbiate comprensione per chi ha sempre guardato la cosa dal punto di vista ligure). In tutto questo marasma di villette, palazzine con appartamenti da affittare per l’estate e residui giardini ricchi di limoni, ulivi, cactus e ogni bendidio del Mediterraneo, Ventimiglia riesce a detenere, forse, anche un primato: l’ unico teatro romano addossato alla ferrovia, ad ulteriore sintesi di una storia del paesaggio italiano in cui – come avevano già acutamente colto i viaggiatori del Gran Tour al loro tempo – convive con le rovine come parte di un lessico famigliare che pare farsi anche implicito destino. Siamo un Paese di macerie pluristratificate sulle quali camminiamo ridendoci su, un po’ senza sapere perché, un po’ perché la vis comica è stata forse la più unificante delle forze in grado di unirci davvero.
Per questi e per molti altri motivi ho sempre amato Ventimiglia, questo manifestarsi di domande e risposte che appare all’improvviso dopo la lunga e cantierata galleria « Colla Sgarba » della A10.
La mia generazione ( qualunque cosa sia una generazione) si è trovata a crescere in un mondo che sembrava perdere i confini: negli anni Ottanta, quando eravamo bambini, l’Europa unita, che allora si chiamava più prosaicamente Comunità economica europea, era un ideale pressoché unanime mentre ad est Gorbaciov faceva sognare la possibilità di un socialismo dal volto umano. Nel 1989, a duecento anni dalla Rivoluzione francese, il mondo si scuoteva: dagli studenti di Tiennamen cui la matricola di quarta ginnasio che ero guardava con simpatia, alla caduta del Muro di Berlino, che già vedevo dal lato sinistro della storia ma senza sentire « le colpe dei padri », tutto sembrava muovere ad un mondo aperto.
Quando nel 2015 arrivai per l’ennesima volta a Ventimiglia, in un giorno caldissimo d’estate della nuova era del cambiamento climatico, mi accorsi che le frontiere abbattute dalla grancassa un po’ retorica dell’Europa di Schengen erano tornate in vita. Erano frontiere pesanti ma sottili: frontiere di classe, di reddito, forse anche di colore, dato che, come selettive porte girevoli, si aprivano e si chiudevano a seconda di chi si trovavano davanti. Io, ad esempio, potevo benissimo andare a prendere un caffè a Mentone ( per prendere un caffè in Francia, peraltro, devo avere una certa vocazione al masochismo), ma per altri e altre no; per quelli e quelle per i quali quel giorno e quelli a venire sarei stato lì, di fronte ad uno dei luoghi popolati dai primi europei senza confini nella grotta dei Balzi Rossi, la frontiera si manifestava come un’escrescenza limacciosa della Storia fuoriuscita dalle sue più oscure sentine. Quella frontiera era le Porte Caspie, il Limes, il Vallo di Adriano, ll Tractus Italiae circa Alpes, il Muro di Berlino e tutto quello che la storia del nostro continente aveva elaborato almeno dai tempi di Alessandro Magno per fermare e distinguersi dal Grande Altro che oggi aveva l’ aspetto della ragazzina eritrea col pigiama rosa intenta a studiare un manuale di lingua inglese su uno scoglio giusto a metà strada fra la grotta dei Balzi Rossi e la vecchia dogana di Ponte San Ludovico, con l’orizzonte multicolore e la storia di intellettuali, esuli, artiste e fotografi di Mentone a meno di un chilometro.
Sul lato italiano, la nostra polizia, fra l’annoiato e l’ arrabbiato, scuoteva la testa nel vedere i pullman che, scendendo dal valico più alto, quello di Ponte San Luigi, scaricava in Italia decine di ragazze e ragazzi di ogni sud del mondo. Italiani brava gente, che sembra un cliché e sicuramente lo è, diventava , in parte, anche realtà quando, parlando con alcuni di quei poliziotti, riuscivo a carpire nelle parole e nelle espressioni il senso di indignazione e sconforto di chi, in quel momento, si trasformava in una sorta di punto di primo soccorso per quelle persone che, nell’eterno gioco dell’oca in cui a tornare indietro è sempre il più povero, venivano accompagnate in quello che era allora il centro di prima accoglienza costruito poco lontano dalle foci del Roja, al termine della stretta valle dei passeurs, degli esuli, delle fughe e delle migrazioni che da secoli fanno di Ventimiglia approdo e partenza di umanità in cammino, e che a volte si ferma, come la comunità calabrese che dal Dopoguerra popola « Ventimiglia alta », come qui è chiamata quella perla di assoluta e intatta bellezza che è il centro storico della città.
In quei giorni di un’estate dell’era del cambiamento climatico, sotto quell’abbacinante luce che fa della Liguria un pezzo di Africa, di Tropico, di Sud, vidi e ascoltai tante storie. Mentre con tante donne e uomini giunti da ogni dove passavo il tempo nel realizzare sistemazioni precarie, nello scaricare cibo, acqua e vestiti, sbattei più di una volta contro i segni della tortura sulle schiene scure di adolescenti subsahariani che mi descrivevano la prigionia in Libia con la voce atona, quasi indifferente, che solo chi ha vissuto un trauma conosce. Una di loro, magrissima, era portata a braccia da due ragazzi che, seguendo il suo incedere, si muovevano a rallentatore.
Ventimiglia, tropico triste, con la speranza felice di poter un giorno andare a Mentone. Anche per un caffè.
Ennio Cirnigliaro
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