In una celebre commedia: “Natale in casa Cupiello”, che ebbe un’indimenticabile versione televisiva con Eduardo che n’era anche autore e suo figlio, il recentemente scomparso, Luca De Filippo, un padre chiedeva, facendosene un’ossessione, all’indolente e contestatore figlio, se gli piacesse il Presepe: “Te piace ‘o presepe?”. Fegatosamente e con dispetto il figlio rispondeva: “No, nun m’piace”, suscitando la stizza e la repressa rabbia nel genitore, incapace di capire che i gusti dei giovani erano cambiati e che quindi si andava perdendo la tradizione e la sacralità di quella rappresentazione della natività, che specie a Napoli era ed è realizzata, proprio in questi giorni che precedono le vacanze natalizie, sempre con il coinvolgimento di grandi e bambini.
Ricordo che noi bambini, aspettavamo quasi con ansia che una nostra sorella più grande, addetta alla costruzione e all’assemblaggio dei materiali necessari, desse il via alle operazioni. L’ansia non era tanto suscitata da motivi religiosi, il dare rappresentazione alla sacra famiglia, ma, piuttosto, dall’idea che ogni anno il presepere costituiva un’imperdibile tradizione; una realizzazione nuova, con variabili sempre affascinanti e diverse.
L’improbabile Betlemme, frutto del gusto seicentesco/settecentesco della cultura borbonica, si estrinsecava in un paesaggio che dei deserti e dei silenti vigneti e uliveti palestinesi aveva ben poco. Invece, si andava a costruire un villaggio, che nelle sue contraddizioni appariva più simile ad un paese abruzzese o molisano (un tempo terre borboniche), con montagne rocciose fatte di carta di giornale, incollata rigorosamente con colla fatta in casa e poi tinta con colori in polvere che noi bambini, guidati dall’esperta sorella, mescolavamo con acqua tiepida per poi pennellare con soddisfazione il tutto.
Il muschio era poi sparso sui monti e la pianura come la neve spry che veniva sparata a turno da noi tutti in un rituale preciso, tra urla e contestazioni tra me e la sorellina su a chi toccasse spruzzare la neve. La neve… in Palestina. Sui monti e dentro le case e le casette e finanche nella divina grotta splendevano luminosi i pisellini della batteria elettrica che dava sempre quell’allure che ti faceva dire: Si, ora è Natale. La scena era circoscritta da una carta stellata (spesso da noi striata poi di neve per errori di mira), che presentava un’impossibile firmamento di stelle, stellone e stelline. Al centro e sotto i “monti” la grotta con tanto di asino e bue, di Madonna e San Giuseppe, tra piccole balle di fieno e con la misera culla vuota che si sarebbe riempita del Gesù bambino, alla fine della processione casalinga della mezzanotte, che seguiva puntualmente, con cori natalizi e l’accensione di stelline artificiali, l’immenso cenone della vigilia.
Ma più della grotta, noi eravamo attratti dal suo contorno, dal paesino che avevamo costruito con cura. Oddio, il grosso lo faceva la sorella maggiore e noi sistemavamo più o meno liberamente i famosi “pastori”. Un paesino dove non mancavano personaggi e luoghi. La lavandaia, l’osteria con tanto di salsicce appese (salsicce in Palestina!) e con persone avvinazzate, che sembravano poco intente alla sacra solennità del momento, ma piuttosto degli inveterati goderecci; il castello sul monte con tanto di guardia antica romana e che dire del cacciatore poco lontano da li, con tanto di schioppetta tra le mani (armi da fuoco all’inizio della Cristianità?); la chiesa con il monaco (S. Francesco prima di Cristo?); i mendicanti ai lati della grotta per elemosinare un obolo, speculando sul bambinello; le filatrici di tessuti nei loro negozi (si sa ai tempi dei Borboni il regno n’era un grande produttore), i pescatori e tanti personaggi che andavano alla grotta, tanti, ma non i re Magi che sarebbero comparsi in scena solo all’Epifania (il sei gennaio), tanti, ma non Beniamino che dormiva beatamente in una « grottina » attigua, per nulla disturbato dai tanti visitatori che si avvicinavano. Poi ogni anno il presepe si popolava di nuove figure.
‘A vecchia o’ carnevale (la vecchia del carnevale – più sacro e profano di cosi, si muore…), il venditore di meloni, lo schiavo negro… noi non li usavamo, ma per gli appassionati, finanche personaggi della contemporaneità (qualcuno ci ha messo negli ultimi anni Bin Laden, naturalmente nella parte del cattivo!). Si trovavano anche i protagonisti della politica nazionale: Berlusconi, Renzi e all’epoca finanche Andreotti con tanto di gobbetta. Insomma, il presepe era un crocevia di tradizioni senza tempo, un bazar di religiosità, tradizione ed attualità. Una rappresentazione universale che faceva e fa felici, nella sua follia, cristiani, atei e religiosi (intelligenti) anche di altre confessioni e soprattutto nel suo mondo creativo coinvolgeva grandi e piccini.
Insomma, il presepe ci piace. Anche perché è qualcosa di diverso dal semplicemente sacro. E’ una tradizione. E’ teatro. A casa mia di cattolici praticanti ce n’erano solo due, la famiglia era numerosa, gli altri perlopiù erano atei. Eppure guai a non fare il presepe.
Anche nelle scuole oltre che nelle chiese figurava il presepe per la gioia di grandi e piccini. Oggi tra i tanti dibattiti inutili che si fanno in Italia si è aggiunto quello sull’opportunità di fare il presepe perché potrebbe offendere i non cristiani, ad esempio i musulmani.
Ma si offende chi? I bambini penso siano sempre felici di realizzare una cosa cosi antistorica, cosi improbabile sotto il profilo geografico, ma cosi creativa come il presepe, un’opera affettiva, che permette ai bambini (anche quelli nuovi che vengono da lontano) di conoscere gli usi, le tradizioni del popolo in cui vivono. Toglierlo è un danno che si fa all’infanzia, ai sogni. Un abiurare alle proprie origini, ai racconti familiari ed, in un mondo come quello occidentale, che troppo spesso perde i suoi tratti identificativi, una cosa grave.
Peraltro gli stessi musulmani interpellati in TV, hanno detto che a loro i simboli del Natale non disturbano e che sanno bene che le tradizioni di un paese vanno rispettate. Una cosa che mi sembra di buon senso. Il dialogo tra civiltà non deve significare la rinuncia alla propria identità, semmai si tratta di aggiungere, di arricchire le nostre e le loro conoscenze culturali, in un incontro tra tradizioni. Ma come al solito in Italia c’è chi è più realista del re ed allora… via presepe, no ai canti natalizi, e perché si all’albero? anche quello deriva da credenze magiche o para-religiose di civiltà nordiche.
Manteniamoli i presepi (che ce piacene) anche nelle scuole, e manteniamo anche gli alberelli di Natale che pure sono meno creativi, ma danno tanta luce e calore e, voglia il cielo che Babbo Natale prima e la Befana poi vengano a portare giocattoli a tutti bambini: cristiani, musulmani o atei che siano… (bambini atei..? ma che dico?).
Veleno
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