Sono ormai pochi nel cinema contemporaneo, i registi che fanno film politici, ovvero che raccontano storie scomode di persone qualunque che lottano una quotidiana guerra contro un sistema sociale che sembra troppo spesso dimenticare gli individui (soprattutto quelli più deboli). Tra questi sicuramente Ken Loach è quello più impegnato, come testimoniano la sua immensa filmografia e il suo ultimo film Sorry we missed you, uscito a gennaio in Italia e ancora oggi al cinema in Francia. Un film “formidabile e importante”, di respiro internazionale, di cui aveva voglia di parlarvi Armando Lostaglio.
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È nella scena finale e nei titoli di coda l’essenza di quest’ultimo gioiello che l’83enne Ken Loach ci invia, un sasso dalle memorie del sottosuolo (quello britannico ma non soltanto): il protagonista Ricky (Kris Hitchen) guida il suo furgoncino delle consegne a domicilio, è tutto tumefatto per le botte ricevute da un gruppo di scellerati, ma che, contro la volontà della sua famiglia, deve andare al lavoro. Ed è quindi, nei ringraziamenti sui titoli di coda: “Si ringraziano i trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero”. È qui racchiuso il suo Cinema di Resistenza, la militanza civile sull’attuale situazione del lavoro che deprime l’umanità di persone comuni che pur si sforzano di reggere il passo con i tempi, di educare i figli con dignità.
L’ultimo film di Ken Loach Sorry we missed you è di una potenza non comune nel suo equilibrio di raccontare la quotidianità quasi come un film muto: sceneggiatura perfetta, regia impeccabile ed essenziale, interpreti con monologhi da incorniciare, persino quelli del poliziotto e del capo azienda. Già dal titolo Sorry we missed you ( è la frase del cartoncino lasciato dal corriere in assenza del cliente), Loach entra educatamente nell’interiorità dello spettatore per renderlo parte inserita di una famiglia normalissima, alle prese con la deregulation nell’epoca del neoliberismo. Padre e madre, sui quarant’anni: Ricky ed Abbie vivono a Newcastle (ancora la città del nord dove ha ambientato il suo premiatissimo Io, Daniel Blake); coppia felicemente sposata, solida nei propri principi ed alquanto unita ai due figli, il sedicenne Sebastian e l’undicenne Liza. A causa della crisi, Ricky aveva perso il lavoro abbandonando il sogno di acquistare una propria abitazione. Per riproporsi dunque, chiede ad Abbie (la mirabile Debbie Honeywood) di vendere la sua auto per acquistare un furgone con cui poter avviare l’attività di corriere (autonomo?) per conto di una ditta di consegne. Lei fa la badante a ore, correndo quindi nei diversi punti della città, non meno di 15 ore di lavoro per entrambi. Tempo che viene sottratto agli obblighi familiari: al figlio Seb (Rhys Stone) che ama fare graffiti e che a scuola non rende come dovrebbe; e alla undicenne Liza (Katie Proctor) la quale cerca di reggere l’assenza dei genitori con una energia fin troppo matura. Sono persone comuni, dicevamo, quelle della porta accanto, che obbediscono a doveri morali, sebbene la struttura sociale li ignori o li penalizzi.
Ken Loach guarda con dolcezza e irritazione questa realtà, cerca di conferire rispetto agli ultimi: per lui “il Cinema non potrà cambiare il mondo ma almeno potrà ridare ai protagonisti dei suoi film quella dignità che la vita ha tolto”. Li chiama per nome (nei precedenti titoli): Daniel, Joe Kavanagh di My name is Joe, Bob e Tommy di Piovono pietre, Eric, i Navigators Paul Mick e John. Loach li ama tutti questi personaggi, semplici ed onesti. Lavoratori che non ce la fanno, gente comune, quel popolo insomma inseguito anche fuori dai confini britannici, come ne La canzone di Carla. Politica e solidarietà. La stessa solidarietà nel dolore (cara a Leopardi) che unisce gli uomini contro la natura nemica, e che Loach mutua contro un sistema economico e politico che trascura ed umilia.
Se in alcuni precedenti film Loach intravvede barlumi di speranza, magari nel mutuo soccorso, in questo suo ultimo capolavoro ci abbandona nel suo finale asciutto nel quale ciascuno potrà trarne le conseguenze. Oppure non c’è finale, ci sarà soltanto ripetitività dei gesti da parte di questi invisibili; gli stessi che talvolta ci annoiano a telefono (dai call-center) o che sfrecciano per strada coi loro furgoni colorati o in bicicletta per consegnarci in fretta qualcosa. Ipersfruttati (“lavori con noi non per noi”, questa è la trappola) che obbediscono ad algoritmi dentro piccoli scanner di plastica. O sono badanti che si affezionano ad anziani ed ammalati che assistono: tenerezza assoluta nelle scene di Ken Loach (memorabile lo sfogo finale di Abbie in ospedale) che scrive con Paul Laverty una sceneggiatura pressoché perfetta, in un clima di ansia per la sorte di questa dignitosa famiglia massacrata dall’economia globale, che non risente di nessuna umanità.
Armando Lostaglio