Nello spirito di questa rubrica “Controcanto”, la lettura che segue tratta dal libro “Un po’ di febbre” di Sandro Penna, e commentata da Nicola Guarino di Altritaliani, vuol essere un eco del passato che ci riporta ai giorni nostri sul tema della morte e del nostro rapporto con essa. Il libro, ripubblicato nel 2019 da Oscar Mondadori, raccoglie i testi in prosa scelti dal grande poeta stesso nel 1973.
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Che cos’è poi la morte? Nella pazzia dei nostri ultimi anni abbiamo un rapporto bipolare con la morte, da una parte è diventato nell’intimo dei rapporti un argomento tabù (sempre allegri bisogna stare perché piangere fa male al re ecc. ecc.) e esiste solo la vita. Non c’è tempo per la morte. Non ho dati sulle frequenze nei cimiteri ma credo si possa dire che oggi quei luoghi siano molto meno frequentati di un tempo. Eppure, la bipolarità ce la dà proprio la quotidianità quasi volgare della morte così come raccontata alla televisione o descritta nei social e nei giornali. Mentre qualcuno muore noi banalmente prendiamo il sale per condire l’insalata.
Nel suo bellissimo “Un po’ di febbre”, Sandro Penna si misura sul vivere i nostri morti, nella fattispecie una visita al cimitero al padre defunto, un atto asciutto e pure amoroso, la vicinanza tra quel luogo e i luoghi della vita solita del quartiere, un contatto che ci riporta nello sviluppo narrativo al legame tra morte e vita vissuti come parte inscindibile del nostro essere. Con noi ci sono i nostri morti e questi in fondo ci aiutano a vivere, bene o male, con i nostri defunti noi ci viviamo.
Deorum manium iura sancta sunto scrisse Cicerone (*vedi sotto).
Lettura tratta da : « Un po’ di Febbre » di Sandro Penna. Ed. Garzanti 1973
Da: La Morte
«Cercavo la tomba di mio padre. Le povere ginestre erano già avvizzite fra le mie mani. Contavo e ricontavo le tombe nelle file, provavo nel senso opposto, il fango mi era salito fino alle calze, ogni tanto pioveva e non pioveva. Se non fossi proprio riuscito a trovare la tomba, avrei messo i fiori sulla fotografia di un ragazzo morto annegato, un meraviglioso ragazzo morto a quindici anni. Ma per far questo dovevo prima tentare, fino a che ci fosse la luce, almeno tentare di trovare la tomba di mio padre.
Ero molto stanco. Guardavo la campagna desolata e umida. Venivano lontane voci di lavoro, lontani rumori di lavoro sul legno umido di nuove case. Ognuno arrivava e sostava preciso alla sua tomba, io vagavo così fra tutte con quei fiori avvizziti. Mi pareva di risentire i soliti rimproveri di mio padre vivo alla mia indolenza. Guardo un ragazzo dal viso sereno e roseo, la madre consunta e china su di una tomba. M’ero fermato a caso proprio lì: era il lieve sorriso di mio padre, la sua tomba tanto cercata. Baciai quel sorriso, deposi i fiori e chiesi mentalmente a mio padre il permesso di portarne lo stesso qualcuno al povero ragazzo annegato nel fiume. Poi corsi verso l’uscita. La sera si avvicinava, la luce fuggiva portandosi via le nubi e tutta l’umidità del giorno.
Appena fuori dal cimitero, il vento cominciava a piegare gli alti cipressi, le luci elettriche si accendevano, i tram correvano pieni di luce e gente. Entrai in un’osteria in cerca di caldo popolo, ma non potei avere caldo nemmeno il cibo; quando uscii, quella vita di luci era quasi scomparsa, i fanali ondeggiavano al vento spostando ritmicamente le ombre, e lontano le masse nere dei cipressi addirittura ululavano. Avrei voluto vedere il volto dei rari passanti. Ma volto non ne avevano, nascosti entro i cappotti. E tutti entravano frettolosi sotto la medesima luce: il cinema Palazzo. Entrai anch’io e non capii nulla di quello che avveniva sullo schermo. Ero ancora nel buio. Solo con quelle povere immagini che non capivo.
Gita al cimitero. Sole e freddo. Gelido vento che inasprisce la stanchezza. Il sole la calma. Sosta fra la folla in attesa di entrare all’ospedale. Miseria. Dolore. Non libera miseria. Occhi segnati, bucce di mandarini. Ma il giovinetto mestissimo è intatto la bianca pelle opaca. Il ciglio bruciato dalla prima sigaretta. Ma il dolore per la mamma. Giovane mamma malata. Nel cimitero l’interramento. Nel sole la pesante bara viene calata nel buio umido. Fuggono da ogni parte i neri ragni rimossi. Stringo nel pugno le due lire di fiori. Quando esco dal cimitero ricomincio la vita (…)»
Sandro Penna
Sandro Penna (1906-1977) nasce a Perugia ma vive in gran parte a Roma. Di formazione ragioniere ma poco incline al lavoro, Penna rappresenta l’ideale del poeta « totale », afflitto da nevrosi e assai lamentevole ma forte del prezioso sostegno di illustrissimi amici intellettuali e artisti, da Saba a Montale a Natalìa Ginzburg. Per Pasolini era il più grande poeta italiano del secolo.
- *N.d.r.: Deorum Manium Iura Sancta Sunto: l’epigrafe usata da Ugo Foscolo nei ‘Sepolcri‘ era la frase resa celebre da Cicerone nel ‘De Legibus’ che intendeva affermare che tutto ciò che concerne i riti, le esequie e la tomba del morto non erano più nella disponibilità degli eredi; in sostanza si incita al rispetto della morte in tutte le sue accezioni, materiali e immateriali.
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