Roberto Mancini. Il cielo non è più con noi

Dicono che il calcio sia una metafora della vita. Forse è il contrario: è la vita che imita il calcio. Roberto Mancini, allenatore della nazionale italiana, pochi mesi fa era un eroe, dopo la vittoria agli Europei. Ora per molti è già un’altra cosa, dopo l’eliminazione contro la Macedonia. L’Italia di Mancini, appena cominciata, è già finita. Come la festa della canzone di Sergio Endrigo, come la giovinezza e la vita. L’avevo visto arrivare a Genova, da Bologna, ragazzino.

Veniva a giocare nella Sampdoria. 1982: il giorno aveva cinque teste, cominciavano gli anni Ottanta, ero ragazzino anche io.  Probabilmente era il miglior giovane italiano. Alla seconda giornata segna a San Siro, al volo dal centro area. Un gol apparentemente semplice. Ma in campo le cose le vedi diversamente.  Il giocatore dell’Inter e della nazionale tedesca (Ovest, allora) Hansi Müller disse: non dimenticherò facilmente la finta che ha fatto il ragazzo, mandando il difensore da un’altra parte. Mancini ha tecnica, forza, tiro. Visione di gioco stratosferica. L’allenatore della Samp, Renzo Ulivieri, in lui vede un grande centravanti. L’erede di Boninsegna. Mancini però vuole essere un’altra cosa: un Rivera della modernità. Che, come Rivera, vede quel che gli altri non vedono. Ma sa anche correre, scattare, segnare. Mancini è un cavo teso tra il Rivera che c’è stato e il Totti che di lì a qualche anno ci sarà. Con Ulivieri le cose non funzionano tanto, con il suo successore sulla panchina blucerchiata, Bersellini, per niente. Il pubblico si divide in sostenitori (io tra quelli) e detrattori.

Poi, con Vujadin Boskov, Mancini diventa quel che è. Nello scorcio finale degli anni Ottanta, è probabilmente il miglior giocatore italiano. Ma in nazionale è incerto, e c’è un episodio che segna quel destino. 1987, Svezia -Italia, qualificazioni all’Europeo. Rigore, va a tirarlo Mancini. Io vedo profilarsi l’ombra dell’errore. Il portiere fa una parata pazzesca, sulla ribattuta Vialli spara alto. L’Italia perde. Ho sempre pensato che se quella palla fosse entrata, tutto il seguito sarebbe stato diverso. La stampa lo prende di mira. Un po’ perché gioca in una squadra lontana dal potere mediatico. Un po’ perché se le cerca, come quando in Germania segna e fa una piazzata sotto la tribuna stampa. Mancini giocatore aveva talento straordinario, carattere difficile, e una certa fragilità. Era quella fragilità intermittente, insidiosa, sottotraccia, a rendermelo (rendercelo) particolarmente caro. C’era una simbiosi incredibile tra lui e il pubblico sampdoriano, almeno in una sua parte.

Capivamo se fosse in giornata buona o no ancora prima che la partita iniziasse. Da certi segnali impercettibili. Poi Mancini è andato via da Genova e ha finito la carriera da giocatore alla Lazio. L’anno scorso ci siamo ritrovati, nella parentesi incantata della vittoria agli Europei, l’abbraccio con Vialli a Wembley a quasi 30 anni di distanza dalla finale di coppa dei campioni perduta nello stesso stadio. (Che c’è di strano? Eravamo tutti là). Ma poi il destino ha teso le sue trappole.

L’Italia campione d’Europa si è smarrita per strada. Ci sono tante ragioni. La malinconia post-vittoria che si è impadronita della squadra (omne animal triste post coitum, dicevano i bestiari del medio evo). L’assenza di Spinazzola e Chiesa , tra i pochi capaci di interrompere il tic toc dei mille inutili passeggini del calcio moderno (che noia, che barba) e tagliare il campo con un bisturi. Il calo di altri giocatori. Ma il calcio, come la vita, ha anche delle ragioni che la ragione non conosce. All’Europeo una rete annullata all’Austria, giustamente ma per pochissimi centimetri, aveva probabilmente fatto la differenza tra una strepitosa vittoria e un’uscita agli ottavi contro un avversario modesto. Nei quarti di finale, sullo zero e zero, contro il fortissimo Belgio, De Bruyne (uno dei migliori giocatori al mondo) lacera l’Italia aperta come una ferita, fa tutto il campo, alza la testa e tira un missile quando è sicuro di segnare. E con quel gol, probabilmente il Belgio avrebbe stravinto la partita, e forse anche l’Europeo. L’Italia sarebbe tornata a casa. Invece il portiere Donnarumma fa un passo in avanti, miracolosamente sceglie il tempo giusto, e vola a prendere un pallone impossibile.

L’altro ieri, un giocatore della Macedonia molto più modesto ha fatto un’azione simile, tirato probabilmente meno bene e con meno violenza, ma Donnarumma non lo ha fatto, quel passetto in avanti, e la palla è entrata. Tra i due episodi passa lo spazio di un niente che è tutto. Senza parlare dei due rigori di Jorginho con la Svizzera. Jorginho ne ha segnati a caterve, e quelli invece niente. Ne sarebbe bastato uno solo e della Macedonia non se ne sarebbe mai parlato. Come nella celebre scena iniziale del film Match point di Woody Allen, la palla resta sospesa un istante sul nastro, e poi cade. Di qua o di là. Facendo la differenza tra quei due impostori (dice Kipling) che sono il trionfo e la sconfitta.

Oggi il cielo non è più con noi, caro Roberto, ma prima c’è stato molto altro, che il tempo non cancellerà. Siamo diventati grandi insieme e questo non lo dimenticheremo. Con Pozzo, Valcareggi, Bearzot e Lippi, sei tra gli allenatori azzurri che hanno portato l’Italia a vincere un trofeo internazionale: e lo sarai sempre. Adesso riceverai molte critiche, alcune giuste, altre invece malevoli e stupide. Si scatenerà la canea degli scienziati del giorno dopo, quelli che sanno sempre benissimo cosa fare: a cose fatte. Ma siamo in tanti ad averti voluto molto bene, e te ne vogliamo ancora; quando le cose vanno bene ma anche un po’ di più quando, come adesso, vanno male. Le gioie passano come passa il dolore. Domani sarà già domani, e vedremo cosa ci porterà.

 

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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