Pullulava di bambini, di ragazzi malvestiti, sempre sudati come le ore sudate dell’estate, nel borgo antico di una Rionero che risorgeva dalle rovine, dalle stragi dolorose sul Calvario, dalle pestilenze e da una terra che ogni tanto trema; Rionero androne e uscita a via libera per generazioni che hanno cercato fortuna altrove.
Ma quei cento e mille ragazzi, come nel racconto di Ferenz Molner, erano agguerriti, a difesa o in attacco, sulle vie e i vicoli dei quartieri, come i “ragazzi della Via Pàl” sempre in contesa, in una battaglia mai dichiarata; anni indigenti quegli anni Sessanta e anche quelli dopo, ragazzi un po’ violenti e di strada, sempre per strada a 40 gradi, ma chi se ne accorgeva; si sudava ma il sudore era come miele.
Il borgo davanti alla chiesa seicentesca dei Morti (così ancora la chiamano), pullulava di un formicaio connaturato, primigenio e senza riguardo. “Vucchiavano” tanto i ragazzi di vita, urlavano tanto che il canto dei mille uccelli in volo attorno al campanile quasi scompariva, o almeno, si contendevano l’ultima nota. Colorati come coriandoli, e multicolori in cannottiera, correvano ai giochi più amati, alla “guerra francese” o a “uno monta la luna”, ai “tutt”, o con un pallone sgangherato a buttarla dentro a quelle porte fatte con pietre e calcinacci. Come in “Anima Latina” di Battisti era “La gioia della vita. La vita dentro agli occhi dei bambini denutriti, allegramente malvestiti, che nessun detersivo potente può aver veramente sbiaditi”.
Spariti, tutti, inghiottiti da un oblio che assolve ogni cosa. Ma la memoria no: quei borghi rivivono ogni qualvolta li rivedo, magari alla domenica in quella chiesa dove sempre aspetto che fra le vecchine ci sia ancora Lei, e loro, quelle mamme senza tempo che al vespero riapparivano, e alla messa di buon mattino, che già alle 7 le campane svegliavano i già svegli, ma non i bambini che a scuola non andavano più…
Ora è solo il quotidiano patire tra le persone trascorse consente di acciuffare il profumo di quella vita, ora che l’estate ci consente di riagguantare la calura di quel rovente basolato in pietra lavica, là sul confine fra la speranza e l’illusione, nell’utopia che la giovinezza riemerga, basta conservarla in un palmo di mano come un nido di rondini sotto i tetti.
Tutti loro, a quei ragazzi va un’ode per l’estate, un gioco che si perpetua come la falcitura delle messi nel Basso Imperatore e a Contrada Pellettieri. Pablo Neruda l’ha cantata nel suo universo ricolmo, consapevole che da qualche parte di quel suo infinito i ragazzi r’ì Murt (a Rionero), anche loro, volavano liberi nei flutti della bella stagione.
Armando Lostaglio
Ode all’estate (Pablo Neruda)
Oh estate
abbondante,
carro di mele mature,
bocca di fragola
in mezzo al verde,
labbra
di susina selvatica,
strade
di morbida polvere
sopra
la polvere
mezzogiorno,
tamburo di rame rosso,
e a sera
riposa
il fuoco,
la brezza fa brillare il trifoglio
nell’officina deserta,
sale
una stella
fresca
verso il cielo,
cupo,
crepita senza bruciare
la notte dell’estate.