Riforma della giustizia. Magistratura: La separazione delle carriere, una necessità democratica e costituzionale.

Negli ultimi decenni, i giudici hanno avuto un ruolo di primo piano nell’evoluzione della nostra società: sono stati protagonisti della creazione di diritti “nuovi” (si pensi al diritto alla salubrità dell’ambiente, al diritto alla riservatezza o a quello al­l’identità personale, come ad es. l’identità sessuale), difensori della moralità pubblica (si pensi, tra le altre, alle in­chieste riassunte nell’espressione “tangentopoli” e, più in generale, al contrasto alla dilagante corruzione), sono stati in prima linea nella lotta al terrorismo e alla criminalità orga­nizzata.

Questo ha com­portato una modificazione, spesso radicale, della percezione sociale della magistratura, coinvolta sempre più profondamente nelle dinamiche sociali, e un’inevitabile crescita di peso del potere giudiziario nei confronti del sistema politico-istituzionale.  Tanto più che fin in dagli anni ‘60 i giudici, hanno comin­ciato a interrogarsi politicamente sul proprio ruolo (basti pensare al “manifesto” di “Magistratura Democratica”, nel quale si teorizzava l’“uso alternativo del diritto” a favore delle “classi subalterne”).

Negli anni ’80 Giuliani Vassalli fu tra i primi a parlare di separazione delle carriere.

Le fun­zioni di risoluzione delle controversie e di controllo della lega­lità hanno assu­nto, a poco a poco, significati profondamente diversi da quelli che avevano in passato: basti pensare alla rilevanza socio-econo­mica della decisione giudiziaria quando la controversia riguarda gruppi economici che si contendono un settore produttivo o quando il controllo investe compor­tamenti di chi esercita poteri di governo. Soprattutto quest’ultimo fe­nomeno ha suscitato po­lemiche, rimproverandosi ai giudici un eccesso di attenzione per quel che fanno governanti ed esponenti politici.

A ciò si aggiunga che dalla stessa società già da tempo proven­gono richieste, “nuove” e sempre più numerose, di una risoluzione giudiziaria dei conflitti: si pensi a quanto è avvenuto in materia di lavoro, in materia di am­biente e di tutela del consumatore, o ai problemi legati al diffondersi del fenomeno della famiglia non fondata sul matrimonio, delle unioni civili, dell’autodeterminazione (con riguardo alle frontiere estreme della vita, dal “fine vita” alle tecno­logie della riproduzione, e così via). E con l’affermazione dei diritti fondamentali crescono le difficoltà di una loro attuazione spontanea: si produ­cono, così, conflitti nuovi che, nel silenzio del legislatore, fatalmente tendono ad essere “giurisdizionalizzati”: quanto più il legislatore è frenato dalla pres­sione di interessi particolari, tanto più forte diventa la ricerca di un al­tro varco istituzionale, che la magistratura può of­frire anche per la sua natura di potere diffuso.

Il fatto, poi, che interi settori della magistratura, impegnati sul fronte delle emergenze che affliggono da tempo il nostro Paese (si pensi alle svariate forme di criminalità organizzata, alle diffuse zone d’illegalità della pubblica ammi­nistrazione, ai dilaganti episodi di criminalità economica), sono stati investiti di un ruolo istituzionale sempre più complesso, ha comportato l’utilizzazione degli strumenti del processo penale come strumenti di controllo sociale. Controllo sociale, che talvolta ha esorbitato dall’ambito e dai modi degli stretti controlli di legalità, con esiti, in molti casi, elusivi della regola della soggezione del giudice alla legge (art. 101, comma 2, Cost.): quando il processo pe­nale, da sede di con­trollo di legalità, si trasforma in uno strumento di con­trollo sociale, può accadere che talune Procure spingano la loro azione più avanti di quanto non consenta la legge; e le garanzie processuali – segnatamente, il diritto di di­fesa – rischiano di diventare valori meno sentiti dell’esi­genza di conse­guire il risultato di una decisione. Si pensi, ad esempio, all’uso talora ecces­sivo – se non improprio – della carcerazione preventiva, a proposito del quale lo stesso presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, parlò – indignato – della “necessità di porre fine alla tortura del tintinnar di manette”, “sistema abietto se utilizzato per estorcere la confessione dell’indagato o informazioni che consentano d’identificare complici o i veri autori di un reato; per non parlare dell’atteggiamento di alcune autorevoli Procure in cui si affermava che « non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti » e ancora « essere assolto non vuol dire essere innocente, ma vuol dire che non sono state trovate prove a carico » oppure prometteva solennemente “rivolteremo l’Italia come un calzino” (così, Pier Camillo Davigo, uno dei più autorevoli rappresentanti del pool “Mani pulite”), affermazioni – queste – in palese contrasto con il principio di presunzione d’innocenza sancito dall’art. 27 Cost., e che sono espressione di un atteggiamento diffuso nelle Procure italiane: basti pensare ai tanti errori giudiziari dovuti alla inflexibilis obstinatio  degli inquirenti e ai loro “teoremi” talvolta preconcetti (uno per tutti, il caso Tortora).

Ecco, allora, nascere l’idea che lo sviluppo del potere giudiziario deve essere in qualche modo bilanciato da efficaci contrappesi istituzionali, che oggi in Italia ap­paiono particolarmente deboli.

In confronto ad altri sistemi democratici, la nostra magistratura gode di un’indipendenza molto forte, anche in considera­zione del fatto che tutti i provvedimenti che riguardano i magi­strati – compresi quelli disciplinari – sono presi dal CSM, composto per due terzi da magistrati eletti direttamente dai loro col­leghi. Inoltre, punto estrema­mente importante, le funzioni requirenti e quelle giudicanti sono esercitate dallo stesso corpo di magistrati indi­pendenti, un caso pressoché unico nei paesi democratici. La conseguenza è, ap­punto, quella che risultano deboli i contrappesi istituzionali al potere giudizia­rio. Non bisogna dimenticare che i teorici classici dell’indi­pen­denza del potere giudiziario (da Hamilton a Tocqueville e, prima di loro, Montesquieu) giu­stifi­cavano tale principio anche sul presupposto della netta sepa­razione tra magistratura giudicante e pubblica accusa: un corpo unico di giudici e pubblici ministeri non solo danneggia l’im­magine di imparzialità del giudice nel processo penale ma, so­prattutto se dotato di forti garanzie di indipendenza, aumenta notevolmente la capacità del potere giudi­ziario di intervenire nel processo politico e, indebolendo uno dei prin­cipali contrappesi, ne mette in discussione la stessa legittimazione democratica.

Per ristabilire l’equilibrio, occorrerebbe innanzitutto giungere alla se­parazione organizzativa e istituzionale tra magistratura re­quirente e magistratura giudicante, tanto più che in questa dire­zione spinge l’ado­zione di una procedura penale di tipo accusato­rio, caratterizzata da una salvaguardia più rigida del carattere triadico del processo, e quindi dell’immagine di imparzialità del giudice, come terzo tra le parti (la difesa da un lato, la pub­blica accusa dall’altro). La carenza di terzietà del giudice, tra l’altro, rendendo la difesa ancor più debole e subal­terna, sotto­pone la ricerca della verità processuale al dominio della funzione requirente e della polizia giudiziaria. Cosa che co­sti­tuisce un pericolo per la libertà dei cittadini.

È un discorso che ineludibilmente conduce alla definizione del ruolo del pubblico ministero. Questi deve perdere il suo ambiguo ca­rattere di “giudice travestito”, che si ammanta d’im­parzialità in quanto la legge gli impone formalmente l’obbligo di ricercare oltre alle prove della colpevolezza anche quelle del­l’innocenza (art. 358 c.p.p.), ma che, con l’avvento del rito accu­satorio, finisce inevitabil­mente con l’avere il ruolo della pub­blica accusa, cioè un ruolo di parte, come quello della difesa.

La stessa obbligatorietà dell’azione penale, posta dalla legge (art. 112 Cost.) proprio a garanzia dell’imparzialità – ol­tre che dell’indi­pendenza – del pubblico ministero, è considerata da molti (segnatamente, dall’Avvocatura penalistica) “un’ipocrisia istitu­zionale”. È, infatti, ormai pacifico che l’a­zione penale è di fatto  di­screzionale (con le intuibili implica­zioni sul piano della “politicità” della giurisdizione, posto che il “potere di scelta” è espressione della “politica criminale”, che è prerogativa del Parlamento), nel senso che sono le Procure Generali a scegliere cosa per­seguire e cosa no: come potrebbe mai, una Procura, perseguire con la stessa “intensità” e “tempestività” gli innumerevoli reati di cui viene, o sarebbe fa­cilmente in grado di venire, a conoscenza? Tanto più che l’uffi­cio del pubblico ministero può avviare le indagini anche sulla base di una notizia di reato “non qualificata” e lo può fare a pieno titolo, acqui­sendo di sua iniziativa la notizia di reato risul­tante da pubbliche di­chiarazioni o da interviste giornalistiche.

In conclusione, appare necessario un intervento del legisla­tore volto a realizzare il valore della terzietà del giudice, che costituisce il carattere imprescindibile di ogni giurisdizione: non è, infatti, indi­pendente – oltre che imparziale – un giudice che non sia davvero terzo, cioè equidistante dalle parti in causa.

Se i cittadini chiedono oggi ai giudici tutela anche rispetto ai possibili abusi e prevaricazioni degli altri poteri, spetta al po­tere legi­slativo garantire i cittadini anche da possibili arbitrii del potere giudi­ziario, organizzandolo secondo moduli adeguati. La fisiologia della democrazia costituzionale indubbiamente ri­chiede la presenza di un forte potere giudiziario, ma esige che anch’esso sia limitato, al pari degli altri poteri, perché non si trasformi in “potere assoluto”.

Il 30 ottobre scorso si sono concluse le quattro ”letture” richieste dalla Costituzione per l’approvazione della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati: il Parlamento, a maggioranza assoluta (ma non dei due terzi, il che avrebbe consentito l’immediata promulgazione della legge, senza la necessità di indire un referendum confermativo),  ha approvato il testo del disegno di legge n. 1353-B “recante norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”.

La legge sarà ora sottoposta a referendum popolare confermativo. La consultazione (per la quale non è richiesto il quorum) dovrebbe tenersi nella primavera del 2026: se vincerà il “Sì”, la riforma entrerà ufficialmente in vigore; se invece vincerà il “No”, non se ne farà nulla.

L’ex giudice Nordio è l’attuale Ministro di Grazie e Giustizia

Ecco i punti chiave della riforma costituzionale:

a) Separazione delle Carriere: questo è il fulcro della riforma. Viene introdotta una distinzione netta tra la carriera dei magistrati che svolgono funzioni giudicanti (giudici) e quella dei magistrati che svolgono funzioni requirenti (pubblici ministeri).

b) Inamovibilità dalla Funzione: una volta intrapresa una delle due carriere, non sarà più possibile il passaggio dall’una all’altra, salvo rare e specifiche eccezioni previste nelle disposizioni transitorie. Questo mira a eliminare la « porta girevole » tra le funzioni, spesso vista come fonte di possibili commistioni.

c) Consigli Superiori Separati: viene prevista l’istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura (CSM), uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente. Ciascun Consiglio avrà competenze esclusive sulla carriera, la formazione e la disciplina dei rispettivi magistrati. Questo punto rappresenta una delle novità più rilevanti, ridisegnando le procedure e le strutture dell’autogoverno della magistratura.

Altra novità di assoluto rilievo è il sorteggio dei componenti del CSM. Il sorteggio dei componenti è nato – sostengono i promotori del disegno di legge – dall’“esigenza di assicurare il superamento di logiche legate alla competizione elettorale, che non hanno offerto buona prova di sé”. È un riferimento alle c.d. correnti delle associazioni di magistrati, che, come ha dimostrato lo scandalo Palamara, può arrivare a una degenerazione, con accordi sottobanco e cordate per favorire le carriere di alcuni non in base ai curricula, ma in base a logiche spartitorie. Insomma, è una questione di chiarezza, di equilibrio e di civiltà giuridica.

d) Istituzione dell’Alta Corte Disciplinare, incaricata di giudicare i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Attualmente tali funzioni sono svolte da sezioni del CSM, composte per due terzi da magistrati (con conseguente impunità in caso di gravi errori giudiziari o di diffusione di notizie riservate su un procedimento penale, e così via). La nuova Corte sarà composta di membri estratti a sorte tra magistrati in quiescenza o professori universitari in materie giuridiche.

e) Per quanto riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale, va sottolineato che l’art. 112 della Costituzione secondo cui “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, va integrato con l’art. 1, comma 9, lett. i della Legge 134/2021 (c.d. legge Cartabia), che attribuisce al Parlamento l’individuazione – con legge delega (al Governo) – dei criteri di priorità, trasparenti e predeterminati, nell’esercizio dell’azione penale. Sì che, è vero che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, ma soltanto “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.

Posizioni favorevoli alla riforma sono state espresse con particolare vigore dall’Avvocatura penalistica. Tra queste, l’Unione delle Camere Penali Italiane si è più volte fatta portavoce dell’esigenza di una netta e maggiore distinzione tra giudice e pubblico ministero, richiamando il principio di terzietà del magistrato giudicante quale fondamento imprescindibile di un giusto processo.

Oggi giudici e PM fanno parte dello stesso “corpo” e si influenzano a vicenda anche nelle carriere. Votano gli uni per gli altri nei consigli giudiziari, eleggono i rappresentanti per il CSM insieme, possono persino passare da un ruolo all’altro. Questo crea una rete di equilibri interni e di influenze reciproche che consente alla magistratura di esercitare un forte potere di controllo sulla società civile e sulla società politica.

Separare le carriere significherebbe spezzare questo meccanismo. Vorrebbe dire avere due percorsi distinti, due strutture autonome, meno possibilità di manovre incrociate e meno spazio per le influenze reciproche.

La riforma, inoltre, rafforzerebbe la posizione delle parti (in particolare della difesa) rispetto al giudice, creando una maggiore simmetria tra accusa e difesa, e perciò, maggiore equità, a garanzia di un giusto processo.

Bruno Troisi

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Bruno Troisi
L’avvocato Bruno Troisi già Professore Ordinario di Diritto civile presso la Facolta di Giurisprudenza di Cagliari è stato tra l’altro Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche della stessa Università. E’ autore di numerose pubblicazioni anche monografiche e ha contribuito per alcune voci enciclopediche. Oggi è componente scientifico della Rassegna di Diritto Civile diretta a Pietro Perlingieri.

1 COMMENTAIRE

  1. Nel suo articolo sulla riforma della giustizia il prof Bruno Troisi (nel n. del 10 nov 2025) dimentica di dire ciò che ormai in Italia tutti sanno e cioè che la cosiddetta « separazione delle carriiere » è del tutto secondaria (oltre che inutile poiché rigiuarda neanche il 3 % dei magistrati) e che l’OBIETTIVO principale di questa riforma è stabilire un controllo della magistartura da parte dell’esecutivo.
    Non dire questo è poco coerente con l’onestà intellettuale ma evidentemente il prof. Troisi ha bisogno di dimostrare la sua militanza a sostegno di questo governo neofascista
    distinti saluti
    prof. dr. salvatore palidda – da Genova

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