Al MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna. Il celebre fotografo italiano Paolo Roversi che lavora dal 1973 a Parigi espone i suoi scatti più belli nella sua città natale. Fino al 30 gennaio 2021 …se riaprirà la mostra per via delle restrizioni Covid. Vedi in fondo alla pagina il video dell’inaugurazione.
Il Mar di Ravenna ha ospitato prima dell’obbligata chiusura per le restrizioni imposte dall’emergenza Covid, la retrospettiva dedicata al fotografo ravennate Roversi da anni stabilitosi a Parigi con le sue più note fotografie di moda ispirate a muse della bellezza contemporanea: i suoi ritratti di personaggi “famosi”, le “still life” come visioni soggettive dello studio, infine una serie di scatti inediti provenienti da Vogue o da altri editoriali del settore .
Primo punto focale della retrospettiva su Paolo Roversi è l’idea di studio come luogo di rielaborazione mentale dell’immagine oltre che lo spazio fisico dove il fotografo lavora da anni nel suo atelier parigino, da cui prende il titolo la mostra.
Paolo Roversi scrive: “Studio luce è una stanza rettangolare con il soffitto alto, il pavimento di vecchio parquet e una grande finestra orientata a nord. E’ un piccolo teatro con un’attrezzatura scarna. E’ qui dove lavoro ogni giorno come un artigiano nella sua bottega”.
E ancora:
“The studio is everywhere, it is a corner of my mind.”
La mostra spazia attraverso quello che a prima vista apparirebbe come il regno dell’effimero e del transitorio, allo stesso modo in cui il mondo della moda si mostra a noi nel suo involucro scintillante, lieve e dorato fatto di belle apparenze; al suo opposto viviamo oggi in Italia, per una seconda volta, un parziale confinamento imposto per tentare di arginare la pandemia Covid in atto. Ciò si traduce nella cancellazione di tanta parte del nostro vivere sociale: ogni forma di aggregazione bandita, gli spazi culturali sottoposti a restrizioni, i luoghi pubblici e di socialità chiusi nella palese austerità o rinuncia a tutto ciò che non appare sostanziale e necessario.
Tali immagini sembrerebbero fuori luogo ora, il contrasto con l’attuale emergenza sanitaria ed economica stridente eppure, forse è proprio in momenti di oscurità o parziale oscuramento della nostra vita culturale e collettiva che sentiamo il bisogno più che mai e la necessità di tali ansiti di bellezza. Perché le fotografie di Roversi più che scatti di moda si imprimono ai nostri occhi come impronte di luce, non solo ritratti di corpi ma vere e proprie emanazioni di anime colte in rari momenti di autenticità e bellezza. Essi iniziano a deporre le proprie maschere per lasciare a noi trapelare una loro più intima verità.
Forse oggi più che mai queste immagini eteree e inconsistenti ci parlano della permanenza della luce in un mondo che si restringe ai nostri occhi e si chiude portandoci via terreno da sotto i piedi, giorno dopo giorno oscurati da pandemie e fobie collettive. Qui, al contrario la fotografia di Roversi è definita da Emanuele Coccia “il contagio della luce, di corpo in corpo, di anima in anima, di istante in istante »[1].
Ancora il fotografo parte proprio dall’idea del suo studio fotografico, l’atelier di creazione dove lavora ogni giorno, come « luogo simbolico » che si apre oltre lo spazio fisico limitato, chiuso appunto del presente. Là, le immagini ci fanno accedere nella loro potenza poetica ed evocativa. Di tali spazi di pensiero, di immersione sensibile o di apertura immaginativa abbiamo più che mai bisogno oggi contro le chiusure e i distanziamenti, le restrizioni e l’annullamento di tanti aspetti della nostra vita culturale e creativa.
Studio Paris
“Lo studio è ovunque”, afferma Roversi, è un atto di sublimazione della realtà che lo circonda, degli oggetti, dei volti ai quali chiede di lasciare affiorare la loro storia, la macchina fotografica solo lì per raccontarla. La « Deardorff », da sempre il suo strumento privilegiato di lavoro, è ripresa in diversi scatti come un oggetto del passato, magico e misterioso investito di un qualche indicibile necessità e segreto. Ancora lì, identica dopo anni, immutata e immutabile nel tempo, vista nella sua aurea luminosa e trascendente su uno sgabello a distanza oppure di profilo come uno strumento musicale: una fisarmonica pronta a accordarsi nelle proprie segrete armonie con quello che la circonda. Appare , infine in primissimo piano come la lente riflettente ingrandita al centro dello spazio: l’occhio della mente, della visione soggettiva espandendosi dal subconscio alla realtà esterna. La macchina appare lì nel suo potere di creare e distruggere, di rivelare con mistero, charm e fascino gli oggetti, incantandoli nell’atto stesso di produrre immagini.
Polaroid Processor (2002)
Un ammasso di vecchie pellicole, film e ritagli di negativi fotografici sono gettati sotto un tavolo e lì lasciati confondersi nel dimenticatoio delle loro passate provenienze; danno vita a una composizione inedita nata da “una manciata di immagini” infrante e ricomposte. Che cos’è la fotografia se non questo costante tagliare e comporre, arrestare e trasformare, gettare via per ritrovare sotto altra veste quello che non può essere preservato immutabile nel tempo. Come per queste migliaia di polaroid il fotografo procede lavorando pazientemente – artigiano nella propria bottega – ogni giorno per scoprire attraverso la propria visione mille modi di raccontare la stessa storia in una miriade di forme differenti.
“Blanket”
La coperta è un fondale appeso a un muro, distesa come una pelle di animale scuoiato contro lo spazio vuoto dello studio illuminato da un semplice riflettore. La coperta è sudario di corpi lì impressi anche se invisibili al di sotto.È schermo di protezione, velo, bianco spazio vuoto che lascia affiorare e mettere a nudo la prima pelle del soggetto per cogliere del suo essere il riflesso che si rivela nell’immagine fotografica.
“Lo studio è una scena dove ogni cosa può accadere”, afferma Roversi; è un “teatro alchemico” che non vuole isolare il soggetto per dare a lui una fittizia apparenza quanto, come l’attore nel momento performativo, rivelare la sua più autentica presenza. La scena come lo studio fotografico è nella foto di Roversi il luogo di tale svelamento. Uno spazio deserto dopo lo spettacolo; il parquet risuona di passi mentre un paio di scarpe nere a tacco alto, lucide ed eleganti si stagliano su quella scena vuota. Il sipario si chiude, le quinte senza tendaggi si mostrano nelle loro struttura a vista. Il tempo è sospeso, denso e abitato da ciò che è lì appena avvenuto.
“Ogni cosa è ritratto e ogni cosa è autobiografia”
I grandi ritratti di Roversi sono corpi femminili visti nella sublimazione della propria intrinseca bellezza e per l’aurea che emana ciascun volto – l’intima vibrazione di un essere – rivelato dallo sguardo del fotografo. Un alone luminoso li avvolge quasi ci aprissero a un mondo. Sono intimamente scrutati, lasciati parlare, quasi esorcizzati nel loro potere di influenzare o attrarre il nostro sguardo. Come osserva Coccia: “La fotografia non è stata inventata per permetterci di conservare la memoria dei morti; si è imposta a noi perché ognuna delle anime che ci abitano debordi dai nostri corpi, desideri vivere altrove, nella pellicola, nelle stampe, al fondo di chi ci osserva”[2].
Volti di donne sono ripresi in primissimo piano; emergono sul vuoto del fondo, tagliando quasi quel velo sottile che separa lo spettatore dall’immagine. Sublimati in estetica forma, ora intrisi di malinconia riflettono il proprio modo di esporsi al mondo. Il volto può diventare una narrazione per immagini: è in parte oscurato in “Audrey” da un filtro riflettente che evoca l’ansito del desiderio, ora immerso in un’aurea di eterea purezza oltre la sua reale presenza.
“Natalia” appare come creatura angelicata, ispirata alla figura di Beatrice nella tradizione dantesca, colei che irradia nello sguardo limpido e trasparente una innata luminosità cui fanno eco gli ori bizantini della città natale di Roversi.
“Rihanna”, al contrario, emerge come una Cleopatra moderna, donna affascinante e tentatrice immersa nel sostrato della cultura araba fatta di fumi di narghilè, veli e chador a nascondere o velare il corpo contro gli ori scintillanti di bracciali e preziose spirali antropomorfe.
Roversi definisce la bellezza un inspiegabile equilibrio della natura, “una linea sottile tra la luce e l’oscurità, la realtà e il sogno, la verità e la finzione connessa all’inseparabile relazione tra due opposti”[3]. Forse la linea stessa che separa e unisce tali opposti.
Altri ritratti emergono in una forma essenziale liberata da ogni superfluo, quasi che la superficie dell’immagine riuscisse a coincidere con il volto interiore dell’io rimasto intrappolato sotto la pelle, dietro l’abito, oltre l’espressione di convenienza, dietro la maschera interiorizzata del nostro vivere sociale. Impressi di fronte a noi come maschere nude essi ci guardano perlopiù frontali oppure illuminati per metà di profilo, diversissimi tra loro: ora inquieti, insidiosi, angelici ora limpidi o provocanti in un faccia a faccia unico e inequivocabile con l’ obbiettivo. Una “mutua confessione” tra fotografo e soggetto.
“Looking for Juliet” ( 2020)
“Ho sempre sentito la fotografia più come una domanda che come una risposta”” afferma Roversi a proposito della serie di immagini del calendario Pirelli 2020 ispirate alla figura di Giulietta nella tragedia Shakespeariana (Vedi il reportage di Vogue.fr QUI). Le immagini create per la serie fotografica appaiono come ritratti di giovani donne ispirate a dame del ‘500 nei dettagli di décolleté magnificenti. Acconciature o gemme brillano sui corpetti stretti e raffinati; i volti ritornano cerchiati da un’aurea nobile e radiosa. Appaiono scalinate e portici di palazzi rinascimentali, una figura in fuga, statue a replicare gli stati d’animo dei personaggi. In un’altra versione moderna Giulietta è vestita in jeans e maglietta con lo stesso volto audace, nitido e appassionato della figura shakespeariana. Le immagini ricreano l’ambientazione originale, l’aurea del personaggio riportandolo ai giorni nostri perché la fotografia si vuole “traccia atemporale” che l’immagine lascia oltre il momento presente.
Sempre la fotografia in Roversi permane come “luce che illumina l’invisibile che ciascuno porta in sé” lasciando, infine, emergere attraverso il ritratto l’intrinseca emanazione di cui è fatto un corpo.
Elisa Castagnoli
[1] Emanuele Coccia, “Light from light, soul from soul”, Catalogo Mar 2020
[2] Ibid.,
[3] Paolo Roversi, Catalogo Studio Luce, MAR 2020