Il titolo dell’ultimo componimento poetico di Gabriele De Masi che oggi proponiamo al lettore è un chiaro rimando all’elegia “Quis fuit” di Tibullo, che denuncia il grande male del mondo, la guerra, l’odio. Chi fu il primo ad inventare le orrende spade?, si chiedeva il poeta latino (« Quis fuit horrendos primus qui protulit enses? ») e ce lo chiediamo ancora, tutt’oggi, noi. Versi di dolore, di profondo pessimismo, quelli di De Masi. Nell’atmosfera tetra di questa lirica, oltre alla rabbia e allo sgomento, è il senso di impotenza, di disperazione, ad emergere innanzi all’impossibilità attuale di ricostruire la pace, che sia tra Ucraina-Russia o Israele-Palestina. Tuttavia, la denuncia dell’orrore non potrebbe essa stessa essere speranza? Non potrebbe, seppure sotto la forma rientrante del pianto, essere la voglia del sorriso? Solo dei punti interrogativi possono chiudere questa riflessione…
Quis
Caino, perché?
Stridono i denti digrignati
alla bocca implorante la vita,
nel sangue raggrumito dell’ultimo
respiro, soffocato di morte.
E, all’uomo fu concesso il mondo,
istinto, il colpo contro, popoli
migranti senza terra, zingari
per non farsi acchiappare.
La pulizia della strada
rende migliore la città.
Legate, le campane, sconquassa
di maglio l’ariete alla porta,
il cielo è traccia muta
di sibilo al tonfo che l’attende.
Guerra, piaga del creato,
gemito e carne, sangue
rappreso a volti di polvere
senza spasmo né lacrime.
Figli comuni d’un dio,
ognuno col proprio benedico.
Maledici, Tu, dall’alto,
non vedi, non senti chi
t’invoca di bestemmia.
Il vecchio non scappa,
non lascia dove è nato.
Dove potrei andare,
qui muoio, casa e sepolcro,
solo un momento di pace,
ancora, fino all’alba,
cupo tramonto del giorno.
Non ho più forze per scappare.
Qua, la mia, maledetta casa!
Gabriele De Masi
Ho letto i tuoi versi sulla guerra.
Il male non si lascia definire, tu gli hai dato forma, figura.
All’inizio ha un nome: Caino.
La potenza del negativo che genera l’impotenza.
Resta un interrogativo.
La tua poesia scaccia via l’ esclamativo.
Il dolore che giace al fondo resta eterno mistero, antica contraddizione, che si colora nel tuo verso di assenza di speranza, di immobilità.
Il caino che ritorna senza nome, ma va assumendo forme, figure sfigurate, nella modernità nichilista.
Che è trapassata dalla costruzione alla decostruzione, alla distruzione al nulla.
Mancano anche le macerie.
La tua poesia è grido, come l’ urlo di Munch.
Resta quel giro di cerchi di un eco.
Residuo dell’ umano.
In un mondo incamminato nella disumanizzazione,
contagiato dal virus cinico dell’odio, carissimo Gabriele, la tua parola poetica è forte, incisiva.
I filosofi, oggi, rari, tutti professionisti, burocrati, asserviti a crediti, a linguaggi incomprensibili.
Resta la parola poetica, risorsa, via, per scorgere il varco.
Non il concetto, non la definizione, ma l’immagine, uno sguardo, una narrazione.
Il male lo si può solo narrare, non definire.
Solo la parola poetica può assolvere questo compito.
Tu, Carissimo, Gabriele De masi, poni al centro l’uomo,
in un mondo, dove il caino non appare, ma si veste di ben altre maschere.
Ho letto ora il testo poetico di Gabriele de Masi, molto bello dal punto di vista della forma ma terribilmente negativo e pessimista da quello del contenuto. Una distopia totale che porta ad un senso di angoscia profondo. Non dà speranza all’essere umano.
« Stridono i denti digrignati »: il secondo verso segue ad una domanda quasi retorica, “Caino, perché?”, con la sua tragica ed ineluttabile risposta implicita nel nome stesso della persona a cui si rivolge. Un verso allitterante, duro, consonantico, che ricorda a chi legge la materialità quasi oscena dell’ Ungaretti di San Martino del Carso. Qui la guerra non è un’arte ma un massacro e gli slanci, fossero anche quelli nobili di un idealismo che rifluisce nell’odio, non sono altro che cadaveri putrefatti e totale perdita di senso. In questa distopia materiale, persino la bestemmia di un “umano troppo umano”che invoca quella “rivolta dei santi maledetti”, diserzione ancestrale di tutti i Tersite ignorati dalla storia, e che pure hanno fatto la storia ( ricordate il Brecht della “domande di un lettore operaio”?), si fa preghiera. Una preghiera in cui speranza e disperazione si toccano ed in cui l’afasia, sotto forma di descrizione del silenzio e della rabbia, si fa unica voce. Il poeta ha appeso la cetra alla fronda dei salici, come Quasimodo. Alla fine del cammino, il vecchio vede sovrapporsi la casa e il sepolcro come dimora di pace, dove la pace è quella dei corpi inanimati. Un’atmosfera tetra, senza alcuna speranza, si respira in tutti i versi, atmosfera da cui – mi perdoni l’autore- mi sento da umanista di dissociarmi, pur comprendendo le ragioni che lo portano a gridarne l’orrore.