Con “Giardini Pensili” Valerio Mello s’inserisce nella notevole tradizione e produzione artistica non solo certamente pittorica ma, anche, letteraria e poetica che, prendendo a riferimento la metafora del giardino ha inteso rappresentare quelle che sono le ricchezze e le complessità insite in ciò che cresce in modo naturale e in ciò che viene controllato, così come si alternano e compongono la nostra psiche, fatta di intrecci e vitalità, di sequenze e ritmi, di movimenti e cadute che diventano il riflesso della natura stessa.
Valerio Mello (Agrigento, 10 novembre 1985) compie gli studi universitari a Palermo, dove si laurea in Giurisprudenza nel 2009. Vive a Milano dove lavora.
Nel 2010 pubblica la silloge Versi inferi – Poesie 2005-2010, con prefazione di Dante Maffia. Nel 2013 esce per le edizioni La Vita Felice il libro La nobiltà dell’ombra – Corrispondenze, con prefazione di Francesco D’Episcopo (Professore di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) e un’introduzione a cura di Guido Baldassarri (Professore Ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Padova); vincitore 54 edizione del Premio Letterario Internazionale San Domenichino (sez. poesia edita). Nel 2014, pubblica Asfalto con prefazione di Alessandro Quasimodo (LVF) -Finalista alla sesta edizione di “PONTEDILEGNO POESIA”, Premio Nazionale per poesia edita in lingua italiana. Nel 2015, esce Giardini pensili (La Vita Felice).
Con questo suo ultimo libro Valerio Mello s’inserisce nella notevole tradizione e produzione artistica non solo certamente pittorica ma, anche, letteraria e poetica che, prendendo a riferimento la metafora del giardino ha inteso rappresentare, – così come afferma anche James Hillman, nel suo libro « Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey » (BUR Rizzoli, 2004) – in certo qual modo, quelle che sono le ricchezze e le complessità insite in ciò che cresce in modo naturale e in ciò che viene controllato, così come si alternano e compongono la nostra psiche, fatta di intrecci e vitalità, di sequenze e ritmi, di movimenti e cadute che diventano il riflesso della natura stessa, di quella “psiche oggettiva” di Junghiana memoria che tra chiaroscuri, energie e limiti, ha bisogno di trovare il proprio equilibrio tra i suoi elementi: gli stessi del giardino, in fondo, in una continua ricerca di modalità di coltivazione.
Frequentatissimo in letteratura dunque il giardino assume l’aspetto di un concreto prodotto dell’ingegno umano, e alle prospettive sul giardino in quanto archetipo, sistema di segni, punto nodale dell’immaginazione in tutte le tradizioni culturali si aggiunge quella portata da Mello sul giardino pensile: un giardino che non ha diretto contatto con il suolo naturale, costruito per una sorta di esigenza più scenografica, laddove non è possibile la costruzione di un comune giardino su terra, in quanto la sua realizzazione avviene al di sopra di una struttura architettonica, e richiede un sistema di drenaggio dell’acqua che ne permetta il miglioramento del microclima del volume sottostante. Ora, a parte le note tecniche sul luogo, è chiaro che questo diventa per l’immaginario dell’autore il luogo della poesia, il luogo in cui trovare i riferimenti alle tematiche, alle emozioni, ai bisogni del proprio fare poetico in cui la dimensione del costruito e dell’artefatto prende forma, come vedremo, nella seconda parte del libro – quella dedicata a Milano, luogo col quale arriverà tardiva anche una sorta di riconciliazione -.
Se, infatti, la prima parte si apre con l’esigenza di una rappresentazione del proprio sé – attraverso lo scrivere – e la coscienza diventa orografica perché si appropria della descrizione di un primo luogo – quasi immaginifico – fatto di tessuto arboreo, di sculture solari, di equilibrio tra cavità artificiali e semi della luce sconfinata, di teatri delle fronde e cespugli vacillanti… il tutto avviene perché il poeta racconta il luogo della propria nascita, delle proprie radici ancora ben salde, ovvero ambienta il suo percorso nella mitica città di Agrigento dove sono possibili tutte le metamorfosi/trattenute/nel mormorio polmonare/degli steli. Ed è in questo primo percorso – affrontato con una modalità ritmica più suadente e una metrica sodale al sentimento, che si trasforma in versi lunghi e momenti di prosa, in alcuni testi suddivisi da forme quasi poemiali, in ritorni ossessivi di anafore – che i rimandi agli introiti culturali e ai prestiti poetici sono evidenti e notevoli a riconferma della struttura ossea della poesia di Mello, che non nasce sola ma si nutre della presenza e della consistenza di grandi maestri (poeti/narratori) e si forgia al fuoco della grande tradizione classica, anche della sua terra, ma non solo.
Si affacciano, così, ad esempio: il Pascoli de “Il gelsomino notturno” nel testo (Il disegno) dove la presenza di una persona alla finestra, di una lanterna che esce dal sogno, del fraseggio di un giardino, quasi preludono a l’esordio di un’entità, a l’entità di un rumore; Vitaliano Brancati de il “Don Giovanni di Sicilia” col suo ovattato, pigro, illanguidito e immutabile mondo catanese degli anni ’40 del secolo breve, nel testo (Perimetro naturale) in quelle mancanze, ne i riferimenti ai mondi bisbigliati, a i casolari nell’ebra,/raccolti al canto della ruggine/e di conversazioni nel dormiveglia udite, mentre lento il treno si fermava/assediato da roventi spine di campagna (inevitabile pensare al riscontro con il giardino della villetta dove il protagonista si stabilisce dopo aver conosciuto la ragazza che sposerà, e ancora al viaggio di ritorno da Milano alla Sicilia di Giovanni Percolla e Ninetta); Tomasi di Lampedusa de “Il Gattopardo” dove la memorabile descrizione olfattiva del giardino di Palazzo Salina (che diventa l’anima stessa del Principe) propone il degenerare delle vecchie piante che è il degenerare stesso della casata nobiliare e qui, nei testi di Mello (in Giardini Pensili e in Santuari e Divinità), troviamo l’anima dove crescono gli scheletri dei fiori;/e tutti gli scheletri dei fiori sono l’anima, Le verdeggianti foglie, le digiune foglie. Mentre, il giardino con cui convive il poeta con l’individuo continente pensiero (è)/ ornamento circoscritto all’impianto ferito; e ancora i santuari abbandonati dagli elementi della dispersione/ricordano il movimento dei millenni/e si trasportano come putride carogne/macellate dal sole che si oscura…
proprio come quelle meravigliose rose: “Le rose Paul Neyron le cui piantine aveva (il Principe di Salina) acquistato a Parigi, (e che) erano degenerate; eccitate prima, e rinfrollite poi dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici…”.
Potremmo continuare a lungo di questo passo ma, basterà qui ricordare, ancora, che tutta la poesia di questa prima parte del libro è capace di trasportare il lettore in quella dimensione meridionale, siciliana in specie, dove la stessa geografia degli oggetti o degli aggettivi oggettivati riesce e basta da sola a ricreare la profondità del radicamento che, inevitabilmente, si è insediato e si sente nei versi di Mello: ancora le rose ritornano, e i balconi, e le ringhiere, e le persiane, e le terracotte, il biancore delle case… in un paesaggio che è fatto di Mediterraneo e di radici, di nostalgia dai tragici refusi ungarettiani
(Si sta come/ d’autunno/sugli alberi/le foglie): Si resta intrappolati/(…) Si resta inconsapevoli/ (…)Posati appena sulla corteccia,/traditi da una lacrima d’ambra.
Inoltrandoci poi nella seconda parte – in quella dedicata a Milano – dobbiamo subito abituarci a un ritmo spesso diverso, ad Avere in mano l’autunno inoltrato,
a immergerci in certi momenti nella dimensione de La Passeggiata Palazzeschiana (forse uno dei primi esempi di uso diretto della « visione » cinematografica nella letteratura) dove mirabilmente, nel testo Ultimamente,
Mello ritorna sul concetto di Metropoli – già affrontato a vario titolo sia dagli intellettuali dei primi dl ‘900 che in enunciazioni contemporanee – e relaziona il suo sentire con ciò che incontra durante il percorso: la stazione, l’edicola, il sottopassaggio diventano spettatori e testimoni di innamoramenti, mutismi e del nascere inevitabile della poesia che tra rami secchi e loculi
esplora stagioni e paesaggi e si fa tale. Così, se nel testo dal titolo Stanza, sembrano comparire dagli angoli e dalla trama del legno
i fantasmi e i demoni di quell’anima irrequieta della Marina di Malombra fogazzariana la quale, allo stesso modo del poeta, non capisce dove smette persona/ e si dispone inezia
iniziando per prima forse, e in assenza di disciplina, un percorso nella psiche che è rimasto ancorato all’immaginario letterario-cinematografico (vedi l’omonimo film di Mario Soldati), e questo rende l’autore consapevole delle proprie inquietudini che creano una crepa sottintesa,
dove non sembra possibile una riconciliazione col luogo ultimo della poesia, con Milano, compare invece ritrovato, in seguito, una sorta di compromesso con la città nel testo Bosco Verticale
dove la sentenza è di vita, e infine, sono le parole del testo – ultimo del libro – Ultime parole al giardino che si aprono a nuove fioriture, a un verde che si anima, e dove un’anima che entrerà nel rinnovato istante
potrà portare con se anche questo nuovo e ritrovato giardino nel regno dei luoghi salvati.
QUALCHE TESTO DA GIARDINI PENSILI
Enigma Lo spazio fra me e i vocaboli è costruito al momento Milano ***** Il disegno La cura del momento, Agrigento ****** Giardini pensili L’anima è il posto non raccontato, Ho lasciato le chiavi in quel terreno: L’anima è dove deve essere. Sento quando mi spengo. Agrigento ***** Sarà una coincidenza Sarà una coincidenza Milano ***** Stanza Vorrei sapere dagli angoli Milano Cinzia Demi
in cui scelgo di rappresentarmi in forma scritta.
Ma non esisto neppure a parole.
La forma che ottengo è solo una labile esperienza del
grande luogo he vorrei raccontare.
Impossibile.
Non sono contemporaneo del mio discorso.
recinto di occasione.
C’è una persona alla finestra.
Esce dal sogno una lanterna.
Qualcuno guarda
il gorgoglio dell’angolo,
la varietà dei germogli,
le devote aiuole
nel fraseggio di un giardino.
La porzione del viale incontra
il numero dei giorni.
Il disegno improvviso.
L’esordio di un’entità.
L’entità di un rumore.
dove crescono gli scheletri dei fiori;
e tutti gli scheletri dei fiori sono l’anima.
le chiavi immisurabili dell’io.
Le verdeggianti foglie, le digiune foglie.
Il giardino in cui convivo
con l’individuo continente pensiero:
ornamento circoscritto all’impianto ferito.
Integro e un po’ sbiadito
Lo scontrino di una libreria
Piazza Duomo
Cassa quattro
Ventitré ottobre duemilaundici
Ero in fila o no
Fossile vortice
Esile cifra strappata a quei portici
Quanto ricordare io debbo
Se conservare è stato un istinto
Affioro dall’interruzione
Inizio a salire
la trama del legno
e l’interazione del mobile
con la pianta.
Vorrei sapere da questa stanza
dove smette persona
e si dispone inezia;
vorrei nella crepa sottintesa
agire con rete di presunzione.
Il demone entra.
Lascio intrecci all’ospite
in aria ferma.
Bologna, novembre 2015