In Missione Poesia, la nostra rubrica di poesia italiana contemporanea, Come dire dell’amore di Nadia Scappini che vive a Trento. Ci racconta di madri e di luoghi e d’amore per le prime e per i secondi, ammantando di un cielo misericordioso, immenso e quotidiano, tutti i ricordi e le figure che l’hanno segnata in qualche modo, benedicendo l’entrata e l’uscita da un percorso di cura e memoria collettiva, che si apre alle possibilità che la vita riserva.
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Nadia Scappini di famiglia veneta, è nata a Bagno di Romagna il 30 dicembre 1949 e vive a Trento. Dopo l’insegnamento nei Licei, si occupa di promozione culturale, scrittura e critica collaborando con la pagina culturale di quotidiani locali e con riviste nazionali. Presente sul sito di “Italian poetry”, ha organizzato convegni e seminari di studio su Poesia e Mito e su temi di attualità del giornalismo, nonché il Premio di poesia Città di Trento-oltre le mura 2018. Numerosi i riconoscimenti nazionali. Suoi testi sono stati tradotti in inglese, tedesco, spagnolo. Tra i titoli più recenti: Le ciliegie sotto il tavolo, romanzo, Marietti, 2012; Un’ora perfetta, poesie, Aragno, 2015; Sonia e il poeta, romanzo minimo, Il Vicolo, 2016; Limone ruffiano, saggio su cibo/convivialità, Il Vicolo, 2016 (seconda ristampa); Come dire dell’amore, poesie, Moretti&Vitali, 2019.
Ho conosciuto Nadia Scappini diversi anni fa. Frequentavamo il gruppo di poesia che ruotava, all’epoca intorno alla rivista Clandestino, edita dalla Casa Editrice Raffaelli di Rimini. Ci siamo incontrate alcune volte, abbiamo partecipato a diversi incontri di letture poetiche. Poi le nostre strade si sono divise. Qualche tempo fa l’ho rivista su Facebook che, non mi stancherò mai di dire, è uno strumento utile quando usato con parsimonia e per scopi giusti. Le ho scritto, ci siamo scambiate i nostri libri, ci siamo lette. Mi è sempre piaciuto il suo modo di scrivere, l’ho sempre trovato molto autentico e ricco di riferimenti e spunti di riflessione e ne è stata una conferma anche quest’ultimo lavoro, Come dire dell’amore, analizzato nell’articolo. Nadia sarà ospite dell’appuntamento di marzo 2019 della rassegna Un thè con la poesia che organizzo presso il Grand Hotel Majestic a Bologna.
COME DIRE DELL’AMORE
Quando si racconta di madri e di luoghi e d’amore per le prime e per i secondi, quando si ammantano di un cielo misericordioso, immenso e quotidiano, tutti i ricordi e le figure che ci hanno segnato in qualche modo, quando si benedice l’entrata in un percorso e si torna a benedirne l’uscita aprendosi alle possibilità che la vita riserva, quando è la parola lo strumento che non arma la mano e la mente, ma le accompagna a rendere grazia, le supporta nel compito lieve e potente di restituirne un vissuto e farne corpo e sangue di un’umanità intera ecco, allora, che anche la dimensione della scrittura può dirsi inevitabilmente compiuta, che anche la poetica proposta può dirsi immancabilmente scandita nella sua forma migliore.
Se poi alle intenzioni si aggiunge una cifra stilistica ricca di metodo, impregnata di musica, ragionata e lasciata libera di restituirsi sulla pagina in ordinate sbavature che trasudano mestiere, ecco ancora che il poeta si mostra in tutto il suo valore: la poetessa, per l’esattezza, in questo caso, Nadia Scappini, cerimoniere di quell’antropologico rito antico e nuovissimo che è la poesia. Sì perché la poesia, diciamolo, in fondo si compie come si compie un rito, un rito sacro e profano al tempo stesso, un rito d’amore, di vita, di verità. Approfondendo la lettura di questo nuovo libro della Scappini – che già dal titolo, Come dire dell’amore, ci conquista – non possiamo che vederlo questo rito, sentirlo, accettarlo, farcene complici. Non possiamo che restarne contaminati, che convertirci e diventarne discepoli. La parola che si spiega, che chiede di entrare prepotentemente nella vita dell’autrice, entra in simultanea dentro di noi, le chiede di essere ascoltata e lo chiede anche a noi, di essere professata e si palesa con le rimembranze di passaggi, frasi, versi noti che bucano la mente e non danno tregua, fino a quando non ne fai l’uso che vogliono tu ne faccia. Sono ciò che è rimasto più forte nell’inconscio, ciò che ispirerà nuove parole, nuovi passaggi, nuovi versi a venire. Sono ciò che fa parte della nostra storia: […]che appartiene all’uomo nel suo/percorso di conoscenza tra la Sibilla cumana e la scienza, tra le/Erinni e le Eumenidi fino a Cristo in croce […]. Sono ciò che – come dice Giancarlo Pontiggia nella postfazione – disegna “il «passo» variegato della parola poetica, sentita come una fiamma che si volge verso l’alto, anche quando tutto sembrerebbe volerla appiattire, spegnere, fino a che si disveli/il bozzolo/dove il seme è stato (lungamente) custodito”.
E le parole adempiono al loro compito, a quello stesso compito che si sono date: vogliono dire dell’amore. Ci trasportano nei luoghi e nei tempi che ci fanno bene, dove primeggia la figura quasi ancestrale dell’amata nonna, che si fa archetipo di quei luoghi e di quei tempi, alla quale l’autrice si rivolge con una reverenzialità quasi bambina: non so, ma è come se ogni anno tu tornassi/dal tuo viaggio per abitare dentro i nostri pochi giorni/spiandone la trama la smagliante amorosa tessitura/che ci conduce a ricalcare i passi da te già mille/e mille volte segnati/urgenti sotto la linea del cielo; si assuefanno alle immagini della terra e del lavoro, si fanno Vangelo e frutto nelle braccia del vignaiolo e nei tralci di vite; ci trasportano in piccole patrie – come a Ledine – dove: il cielo… non è sontuoso come il blu mediterraneo/racconta di nubi vibratili di terso di repentini temporali/di movimenti rapidi di luce di frenesie sensoriali ma, dove già, all’indomani dei violenti temporali, si scorge in ogni prato e orto la mano di/chi pulisce, sana, pensa a ripartire/ […] /nessuna imprecazione nessun lamento…. ed è come assistere a un viatico modesto e magistrale: la mite accettazione di chi sta/su una terra/dove tutto è dato con fatica e goduto… su una terra dove l’autrice cerca e ritrova, nel generoso e radicato gesto dell’accudire, tutte le volte che le parole le sono venute incontro e hanno guidato i suoi pensieri, tutte le volte che hanno detto dell’amore.
Ma le parole, ancora, – nella sezione dal titolo Signore, mi fa male la vita – dopo averci ricordato una lunga e lontana estate dove si alternano le dimensioni del tempo dell’infanzia e quella del tempo dell’età matura, trovano per queste il giusto equilibrio radunandosi nel testo dedicato al Natale nel quale, come sottolinea giustamente Pontiggia, “sembra precipitare la dolorosa temperie della contemporaneità, sembra opporsi il pensiero dell’altrove, di un Tempo nascosto, utopico, in cui un Bimbo esce al mondo, portandolo al suo immane compimento”. Da qui, dove tutto si colloca al punto giusto dell’amore, inizia la rassegna delle parole per le madri … madri che potrebbero essere anche una sola, una che tutte le racchiude in se, icona e matrioska di un altro tempo e un altro spazio ancora (e di tanto altro amore), dove il ricordo giovanile si fa memoria, e la memoria si smarrisce, in una nuova età fatta di segni rimpastati di nuovo nell’avvento del Natale che porta con se altro equilibrio: quella madre che nell’attesa la prende un’aria che commuove/[…] sotto i meli con parole postume/che scrive e poi cancella e poi riscrive/nel grembo una piaga un fiore/felice dell’apertura lieve/e fertile che chiede di generare; quella che ormai anziana ride allo specchio stringendo [come fosse la figlia] la bambola al petto, … le scompiglia i capelli e poi scompone, sgarbuglia, districa la nebbia/invadente tra lontananze e echi/tra gorghi e impronte flebili… mentre rapinano i giorni nella danza/scapestrata amara che nessuno/sa come fermare; quella che scende dalla montagna, non ha più denti, dentro le rughe conserva le stanza della gioia, ripete ostinata il sorso/di un ritorno al velo bianco/i giochi con le trecce/la luce di una lucciola.
E infine, le parole, chiudono il cerchio, ritornano al momento originario: hanno descritto tanto amore, ne hanno impregnato l’autrice e il lettore, hanno fatto amare il loro dire e ora salpano verso altri testi, altre narrazioni, altri versi con quel languore diffuso/contorto e levigato insieme/di una fiaba quieta che ovatta/e conforta nel brivido inatteso/di una memoria prefica/di cui si scorge appena l’ombra…
Nadia Scappini con questo libro, come dice nella nota di lettura Gianfranco Lauretano, è come se facesse accadere le poesie ad ogni lettura perché ha la capacità di farci vedere ciò che lei vede, di farci sentire ciò che lei sente, di farci incontrare chi lei incontra. Dote rara quella di instaurare una relazione narrante in poesia, un dialogo tra l’autore e il lettore, tra il lettore e i soggetti dei testi. Ma qui noi troviamo proprio questo, e siamo grati all’autrice per la dedizione con cui ha curato e cura le parole, sanandole e risanandole come dal principio dei giorni fa ed è capace di fare la poesia.
Alcuni testi da: Come dire dell’amore
baillame
Buttare in terra una parola
dopo averla armeggiata
per far pace.
Andrea Bajani
bisogna pur cominciare a riparare le parole.
servono filo tenace e sottile
mano ferma e fitte cuciture
che le riattacchi alle cose
prima, però, serve una buona forbice
(punte stondate lame affilate)
che sappia potare come il vignaiolo i tralci
quando da lontano s’annuncia primavera
il vino da pochi grappoli regali esposti
al pieno sole sarà più buono
come le parole
lasciate appese a un filo ad asciugare
magari desuete, svelate dai loro etimi
aperte a impensate sfumature che incistino
il punto i nodi
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tre campanule
sforano
la grana grigia
aprono crepe
sul fronte della strada
sfrenava umore acido
la piccola stalla
il fieno urticante
le orribili balle
e noi a camminare assorti
– uno spasimo rosso l’orizzonte –
dietro le mammelle di un’altra patria
dove s’è fatta ponte
la piccola casa
dietro alle cose come sono
pulsano le cose
come dovrebbero essere?
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la sveglia
come i grilli dalla terra
pervade il buio
piccoli tamburi
martellanti sulle imposte
crepate
lo scatto che precede il suono
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la civetta
singhiozza
graffiando la grigia
alba
di afa
uno stridio
l’acuto di una foglia
perduta
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bastava
bastava che pronunciassi le parole
tante volte agognate nel brogliaccio
di pensieri amari
bastava che raccogliessi la nota alta
dalla baia dove si frange il corpo d’acqua
del tuo mare a settentrione
lì dove s’incunea la penisola più italica
dell’antica Italia
quel debole chiarore all’alba l’aria pregna
di cannella e cardamomo le onde della radio
che cullano il respiro e subito scompaiono
nella nudità del sonno innocente
nel movimento assorto delle labbra
che soffiano
piano
verso il bordo del lenzuolo
Cinzia Demi
Bologna, 10 marzo 2019
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P.S.: “MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale di poesia italiana contemporanea, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani. QUI il link dei contributi già pubblicati. Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito scrivendo sotto un commento o direttamente alla curatrice stessa all’indirizzo di posta elettronica: cinzia.demi@fastwebnet.it