Una città può essere trasformata dalla sua cultura, dalle conoscenze della storia e dalle necessità umane del popolo che la vive? Rivendicando il diritto all’utopia del sogno e partendo dall’emblematico progetto di ristrutturazione del Palazzo Japoce a Campobasso, che negli anni ’77-’80 sarebbe dovuto diventare sede del conservatorio musicale della città capoluogo del Molise, un gruppo pluridisciplinare di professionisti ed artisti si è riunito in un simposio avente per tema la seguente domanda “La musica che viene della materia può trasformare la materia?” Cioè: Avrebbe potuto la grande musica trasformare il quartiere medievale ormai abbandonato? Avrebbe potuto, la loro città, avere un destino migliore di quello che le è toccato?
Infatti, come ci spiega l’ingegnere Flavio Brunetti, nel 1977 il Conservatorio Musicale di Campobasso, allora istituito, era stato sistemato in malo modo nei locali di una vecchia ed equivoca locanda in disuso, l’“Hotel Sorriso”. Ma gli studenti, dopo mesi di lotte, riuscirono ad imporre il progetto per la ristrutturazione del Palazzo Japoce, antico edificio nobiliare, simbolo del cuore della città antica che andava via via spopolandosi. Quella storica dimora sarebbe dovuta diventare la vera sede del Conservatorio, per la cui costruzione era stato finanziato dal Ministero circa un miliardo di lire.
Il progetto, redatto da lui e dagli architetti Damiano Dolce, Maria Luisa Benevento, Domenico Martino, fu approvato e accolto da tutti con entusiasmo, anche perchè, per la città medioevale che era in via di abbandono, avrebbe significato la rinascita. Ma le amministrazioni che seguirono, pur se un terzo della somma finanziata era stata già spesa, osteggiarono e lasciarono sfumare il progetto per interessi di basso profilo.
La Musica che viene dalla materia (una corda, una pelle, una canna sono materia) avrebbe ridata la vita alla materia? Alle antiche pietre di una città? Alle sue viuzze? Alle sue case arroccate? Alle sue irte scalinate?
In questo periodo di grande corruzione, con il racconto di Flavio Brunetti, noi riproponiamo quegli eventi perché emblematici di come la classe dirigente possa frequentemente operare solo in funzione di squallidi obiettivi.
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Dalle finestre del mio studio si sente l’odore delle pizze e del pane appena sfornati. Si ascoltano i canti veloci delle rondini nere rincorrersi e tagliare le nuvole e l’azzurro e sfidare la luna.
Sulla scala, davanti al palazzo, ancora si siedono, innamorati i ragazzi
e le sere d’estate, a parlare, le donne rimaste senza marito. E parlano a lungo, di questo e di quello, dei figli, delle figlie e dei loro compagni, e raccontano, ognuna alle altre, dei figli dei figli, del salumiere, del pasticciere e del giornalaio, dei fiori da portare al cimitero e dell’ora dei pullman da prendere per arrivarci; una volta una di esse ci arrivò senza autobus, andandosene a piedi; discutono, le donne sedute sul marmo, tra i sorrisi delle patate più buone, del brasato di carne e dei fagioli, e non hanno bisogno, nei loro discorsi, della televisione; quelle donne possiedono, nell’anima, i segreti del tempo.
Le mura della città antica hanno mille occhi e spiano tutti quelli che passano con i loro infiniti sguardi sornioni e indiscreti, finestre minuscole e storte, piccole, disordinate d’amore.
La strada che porta al castello, arroccato sulla guglia dei monti, passa sotto il mio studio e la via rimpiange, come una vecchia ch’è rimasta da sola, i giorni quando era affollata dalle grida dei ragazzi di un tempo, dal chiasso dei giochi, delle zuffe, dei rimproveri delle madri e dei padri, delle ferite, dei pianti e dal batter al vento dei bianchi bucati e degli amori segreti. Tra quei monelli c’ero anche io. Le ginocchia e i gomiti sbucciati di sangue, la paura dei ragazzi più forti e la sfida che scacciava via la paura, imparavo ad amare i vicoli, le strade, le porte e i supportici e la miriade di tetti e tettarellucci fiabeschi, ammassati l’uno sull’altro, nell’intrigo più dolce del cielo che conduce, là sulla cima del monte, al Castello e alle chiese più antiche.
Tra quei serpenti, irti di scale e dell’ansimare dei passi, Palazzo Japoce apriva le sue candide braccia di pietra e d’acanto allo slargo e ad una fontana.
Sembrava, a noi ragazzacci di strada, soltanto da prender a ceffoni sul viso, quel piccolo slargo, una piazza immensa, un universo e la eco delle voci saltellava tra i muri.
L’acqua era preziosa, non era facile trovare chi te ne desse una giara o un bicchiere. La fontana di palazzo Japoce succhiava, come sugge una bimba al seno della mamma il latte soave, la sua acqua limpida e fresca al serbatoio sotto il Castello, ma dalla bocca d’ottone del rubinetto, alla quale non bisognava attaccare le labbra per evitare malanni infettivi anche brutti, l’acqua usciva solo premendo con forza un maledetto duro bottone, che appena lo lasciavi chiudeva anche l’acqua. La fontana ci ridonava, così, le forze per correre ancora, fuggire, nasconderci, tornare e tirar sassi tra noi o calci alla palla di gomma e di cuoio e dopo, immancabili, i pugni.
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Quando, da allora, erano passati molti anni e non ero più un ragazzo di strada, vennero al mio studio gli studenti. Erano del Conservatorio, la scuola di musica, una scuola nata da poco in questa nostra regione di poveri e gretti.
Noi ragazzacci, crescendo su quelle scale e sotto le mura, quando il tempo passò, non raccogliemmo più i sassi da terra, nei pugni stringemmo i sogni e chiusi, serrate con forza nei palmi le dita, li infilammo pieni di rabbia nelle nostre tasche. E tra i sogni e la tristezza, sbocciavano le canzoni e gli amori. Allora cominciammo a suonare e imparavamo le note per strada con le nostre chitarre, le armoniche, i pifferi, e i secchi dell’acqua che ci piovevano addosso dalle finestre insieme agli improperi di chi cercava riposo.
Invece questa scuola, il Conservatorio, era cosa diversa! Una cosa mai vista! Si poteva andar lì ad imparare a suonare la chitarra, che fa meno rumore, ma anche il sassofono e la tromba e il tamburo, ché, quelli sì, fanno baccano! Chi li avrebbe mai potuti suonare per strada o sulle scale o sotto Porta Mancina, senza che chiamassero subito le guardie? Invece lì c’erano i professori che insegnavano tutte le armonie, fantastico!, altro che posizioni, Do maggiore, La minore, Re minore e Sol di settima! Da quando avevano messo quella scuola, in città, camminare per strada con la chitarra non era più una vergogna, come accadeva a noi che sembravamo, con quell’arnese sulle spalle, solo vagabondi e ubriachi sfaccendati.
Quando vennero gli studenti del Conservatorio raccontarono a me, Damiano e Maria Luisa, a noi, ingegnere e architetti di cui si fidavano, che era un mese che dormivano nella loro scuola di musica, perché l’edificio dove l’avevano messa faceva pena e lì dentro, in quelle stanze anguste, non si poteva studiare e imparare: era un vecchio alberghetto dove era difficile, quasi impossibile, portare anche un pianoforte. Era stato, una volta, l’Hotel Sorriso, una locanda del tempo di guerra. Erano decisi quei ragazzi con la voglia di imparare la musica.
Non erano come noi che avevamo timore, per strada, a suonare e che cantavamo a bassa voce e che non avevamo una casa per le nostre canzoni.
Quegli studenti, invece, volevano divenire musicisti: musicista!, era il loro futuro.
E la loro nuova scuola doveva essere il Palazzo Japoce. Così loro avevano imposto dopo giorni di lotta.
Incredibile! Fantastico! Palazzo Japoce, Conservatorio della città capoluogo! La fontanella sarebbe diventata una vera Regina! Si sarebbe strappata da sola quel maledetto bottone e avrebbe gorgogliato cantando tutta la sua limpida acqua.
Maria Luisa, Damiano ed io li guardavamo e li ascoltavamo incantati, pieni di rispetto! Quelli non scherzavano affatto, portavano nei loro cuori, nei loro sogni, nelle loro albe, nel loro futuro, Mozart, Bach, Chopin, Beethoven … altro che “Sapore di sale” strimpellata malamente sotto Porta Mancina!
Noi quando finimmo di suonare in mezzo alla via cominciammo a studiare anni ed anni per imparare altri mestieri mentre la città antica si spegneva, moriva.
In tutti quegli anni che ognuno di noi, da ragazzo, aveva lasciata la strada e il labirinto di scale e viuzze ripide e strette, per divenire qualcuno, la città vecchia si era spopolata.
La gente aveva abbandonato quel mondo di sogni, d’amori, di passioni, di liti, di schiaffi, di strette di mano e di paci, di panni stesi, di odori, di rumori, di confidenze, di segreti sussurrati e sparsi al vento, di maldicenze, di fiabe e di mostri, di resurrezioni e di morte, di timori e di aurore.
Se ne erano andati via dalle muffe delle stanze, dalla stanchezza dei passi arrancanti sugli scalini. Se ne erano andati via dalle travi di legno contorte dal tempo e dai tetti che piovevano dentro e dai catini messi a raccogliere l’acqua di pioggia sotto la gronda.
Se ne erano andati via a cercare finestre più grandi, automobili comode, ascensori veloci, termosifoni caldi, super mercati forniti di tutto. Se ne erano andati via.
La città antica era morta.
Non c’era più l’ubriaco seduto sul gradino.
Non c’era più la puttana in attesa nella sua stanza zeppa di fumo e di mozziconi.
Non c’era più il calzolaio e il ritmo veloce dei suoi arnesi.
Non c’era più il silenzioso sarto.
Non c’era più il negozio di pane, mortadella, saponi e tagliole.
Non c’erano più i ragazzi ed il chiasso.
Non c’erano più le canzoni, le urla e i secchi d’acqua dalle finestre.
Non c’erano più le minacce e le risse.
Non c’erano più i panni stesi a rubare un raggio di sole.
Non c’era più il prete a benedire le case i giorni di Pasqua.
Non c’era più il postino, non c’era lo spazzino, né il venditore di stracci in cambio di pentole di rame e di ferro vecchio.
La città antica era morta.
Era tempo di rondini, quando vennero quei ragazzi e insieme alle rondini portarono a noi, increduli e affascinati da loro, il sogno: La città antica sarebbe risorta e per quelle viuzze studenti coi violini, le trombe, le chitarre e la musica bella.
Portarono il sogno, quei ragazzi, che la città antica e morta da tempo sarebbe rinata, dopo anni ed anni, baciata dal mistero, dalla magia, dalla divinità della musica dei grandi maestri.
E la musica si sarebbe alzata, indomita e dolce, dalle finestre, dal tetto, dallo slargo, dalla fontana di Palazzo Japoce e avrebbe carezzato i tetti e l’intrigo di viuzze fiabesche e sarebbe scesa nella città nuova, avrebbe invaso i campi lontani, e tutti i contadini appoggiati alla zappa, sputate le mani, avrebbero rialzata la testa e tolta la coppola della fatica o il maccaturo della miseria, asciugato il sudore, guardando in alto nel cielo, avrebbero ascoltato la Grande Musica che i ragazzi del Conservatorio di Palazzo Japoce dedicavano a questa terra, che su melodie fantastiche di storia e cultura risorgeva.
Era tempo di rondini quando vennero quei musicisti.
Poi le rondini andarono via perché giunse l’inverno e il sogno svanì.
Racconto e foto di Flavio Brunetti
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Quel beau récit, plein de poésie et de sensibilité, magnifiquement en dialogue avec ces images. Merci, Flavio.
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Je viens de lire le texte admirable de Flavio Brunetti sur Campobasso : quelle sensibilité, quelle poésie dans tout ce qu’il écrit, et quelles belles photos ! Un véritable artiste sur tous les plans, et sans doute un homme délicieux. Merci!
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Che dolore ho provato leggendo la storia del Palazzo Japoce e lo splendido racconto di Flavio Brunetti. Speravo, come sperano i bambini, scorrendo le parole che prima o poi sarebbero approdate alla fine, con il sogno che si realizza, il palazzo restaurato, il quartiere ricondotto a nuova vita, insomma il trionfo della grazia, della cultura, dell’amore per la città di Campobasso, anche se il titolo dell’articolo era chiaro: « La città di sogni perduti ». Mi aveva così preso il racconto per bellezza e verità , che non poteva, non doveva essere quella la conclusione, ho sperato fino alla fine…
« Le sincronie », stavo completando un articolo sulla Piazza Libertà della mia città, temo che « gli interessi di basso profilo » possano avere la meglio, come spesso da noi qui al Sud…ma io non mi arrendo…
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Un racconto di valori sociali legati al territorio, all’architettura e all’urbanistica……… oramai spariti.
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Caro Flavio,
me ne sono andato molto prima di quella illusione di futuro. Avevo già capito che non era il caso di correre dietro false speranze. Con la descrizione della vita che è stata la mia infanzia e la mia adolescenza mi hai toccato – Non mi sono mai considerato cittadino delle città in cui ho vissuto negli ultimi 50 anni. Città famose, ricche di cultura – piene di vitalità. Ho imparato tanto – ho conosciuto – ma … nel mio cuore restano quei quadri splendidi , semplici – poveri – orgogliosi – etici che hai mirabilmente disegnato. Le mie radici e i miei principi sono li – Grazie, sono rude e fiero, ma stasera per poco non mi scappava una lacrimuccia. Da nu Santantunàre Asselùte.
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Più che un racconto è un Oscar di chi, come noi campobassani « assélute », pochi per la verità, ama visceralmente Campobasso e ne soffre da morire nel vederla così malridotta quanto basterebbe il solo orgoglio di appartenenza per renderla una bomboniera. I tuoi struggenti ricordi? Li capisco perché anche io li provo fortemente ogni qualvolta mi arrampico sui vicoli ammuffiti dei Monti, ancora rigogliosi di immagini fanciullesche e di voci amiche vissute quando l’entusiasmo ancora ci apparteneva copioso. Bravissimo Flavio, con il tuo racconto mi hai regalato uno scrigno pieno di spensieratezze e di speranze andate perdute quando c’è stato il risveglio dell’età matura.
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
Tutto bellissimo: le foto, i testi e Campobasso, grazie
Palazzo Japoce e la città dei sogni perduti.
…è tutta una poesia quella che nostalgicamente trasuda dalle parole fortemente evocative e dalle immagini immediatamente comunicative di Flavio che ha saputo dipingere con pennellate molto forti i colori, i sapori e gli schiamazzi che animavano i viottoli e gli interni di quelle scarne abitazioni, in un tripudio sinestetico di emozioni visive, olfattive e sensoriali- uditive.
Bravo Flavio!