Nella matematica, cara non solo a Pascal, l’ombra di Dio

Robert Francis Prevost, neo-Papa Leone XIV, ha fatto studi, oltre che di teologia, anche di matematica. Il che ha stupito più di una persona. Verso la matematica esiste infatti un pregiudizio, che porta spesso a confonderla con le sue applicazioni di tipo tecnico (contabile, ingegneristico). Ne è in parte responsabile, e al tempo stesso vittima, la scuola: prigioniera dell’ossessione di « preparare al lavoro », sforna sempre di più individui svuotati di capacità di riflessione e amore per il sapere (significato etimologico di filosofia). La reputazione della matematica è stata anche logorata dall’uso delle calcolatrici, che hanno reso i calcoli, per la maggior parte delle persone, simili ad astrusi indovinelli, ormai considerati impossibili da risolvere senza l’ausilio di macchinari. (In futuro, lo stesso forse accadrà ad altre discipline, tra cui la scrittura, grazie alla diffusione della cosiddetta “intelligenza artificiale »: formidabile levatrice di stupidità naturale).

Il matematico Prevost, oggi Leone XIV

Invece la matematica non solo è un’altra cosa, ma ha molto a che fare con l’idea di Dio. Parafrasando alcuni pensieri di Karl Popper, essa opera in ogni mondo possibile. È facile immaginare un mondo in cui Delitto e Castigo di Dostoevskij non sia stato scritto, Napoleone abbia vinto a Waterloo, la legge di gravitazione universale di Newton non sia valida, o d’improvviso cessi di esserlo. In gran parte le conoscenze umane sono contingenti, nel senso stretto del termine: non necessarie. Ciò che sappiamo (o presumiamo) essere vero, potrebbe essere falso. Provate invece a immaginare un mondo in cui le leggi matematiche cessino di essere valide. È impossibile: due più due continuerà a fare quattro in ogni mondo possibile. “Libertà è la libertà di dire che 2+2=4. Concessa questa libertà ne conseguono tutte le altre”; l’Orwell di 1984 ha scelto un’espressione matematica come esempio di una verità la cui affermazione coincide con la libertà. Neppure Dio onnipotente può far sì che Roma non sia mai esistita, diceva un pensatore medievale. Allo stesso modo, neppure Dio può far sì che due più due si metta a fare cinque. O che la dimostrazione del Teorema di Fermat (inseguita per tre secoli, poiché per mancanza di spazio Fermat non l’aveva annotata a margine dei suoi libri) diventi d’improvviso errata. È qui che il sospetto deve avere colto il Cardinale Prevost: forse la matematica è, del divino, un’ombra proiettata su di noi.

Ma la matematica ha a che fare anche con i limiti del linguaggio (e quindi, per dirla con Wittgenstein, del nostro mondo). Prendiamo una classica « cartella » editoriale, formata, per convenzione, da trenta righe di sessanta caratteri ciascuna. Ogni carattere è un simbolo ortografico. Ne avremo una quarantina: le lettere dell’alfabeto, le cifre da zero a nove, i segni di interpunzione, lo spazio. Il numero di tutte le pagine che è possibile scrivere è facile da calcolare: quaranta (i simboli ortografici) elevato alla potenza del numero di battute, 1800 (30 righe di 60 caratteri). Quaranta moltiplicato per se stesso milleottocento volte. Un numero spaventosamente alto. Ma non infinito. Quaranta alla seconda fa 1600, alla terza, 64000, alla quarta, 2,56 milioni. Milioni che diventano poi 102, e subito dopo quattro miliardi. E siamo solo alla sesta potenza; il cammino chiede di arrivare a 1800, e su quella strada, fedeli al principio della progressione esponenziale, i numeri viaggeranno sempre più veloci. Si metteranno a cercare l’infinito. Come un monaco che prega Dio. Quel numero di combinazioni (per noi irraggiungibile ed eppure teoricamente alla portata di un calcolatore, purché abbastanza rapido) comprende qualunque pagina possa essere scritta. Su questa cosa, Borges (che definiva perfidamente la teologia « un ramo della letteratura fantastica ») ha scritto un meraviglioso racconto: La biblioteca di Babele.

La biblioteca borgesiana, costruita secondo quel principio matematico, comprendeva tutti i libri possibili. In essa « non v’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse ». C’erano i dizionari di tutte le lingue, comprese ovviamente quelle che non esistono o che saranno parlate tra mille anni; i testi religiosi, le loro eresie. Le teorie cospirazioniste più stralunate, e le loro confutazioni. Le soluzioni di tutti i giochi della Settimana Enigmistica. I messaggi che scambiate al telefono, anche quelli più intimi. Quelli che vorreste ricevere, e mai arriveranno. Le future encicliche di Leone XIV, comprese quelle che deciderà di non pubblicare. In una di quelle pagine, dice Borges, c’è anche il resoconto veridico della nostra morte.

La Biblioteca di Babele contiene anche i libri che non ho scritto e mai scriverò. Li ho cercati per una vita senza trovarli. A tastoni. Come il bibliotecario cieco di Borges, Eppure forse erano proprio a due passi da me, ad attendermi in silenzio. Anche in questo gioco combinatorio, vertiginoso incrocio tra matematica e letteratura, c’è dunque un’ombra. L’ombra di un Dio che si è nascosto talmente bene (anche tra le pieghe della matematica cara a Pascal, e a Prevost) da essersi forse, in un momento di distrazione, persino dimenticato di esistere.

Maurizio Puppo

 

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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