Nelida Milani: Di sole, di vento, di mare

La scrittrice Nelida Milani è nata e vive a Pola in Istria. È considerata una voce alta della letteratura italiana e rappresentativa della comunità istriana di lingua italiana che continua malgrado le tragedie della storia del Novecento a vivere al di là del confine nazionale orientale, per un radicato legame alla terra natia e consapevole della ricchezza del proprio patrimonio culturale. Walter Chiereghin, direttore della rivista web Il Ponte rosso di Trieste, ci guida alla scoperta di questo bellissimo libro (Ronzani, 2019) che vi consigliamo di leggere.

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Nelida MilaniSarebbe già complicata di suo la storia istriana dell’ultimo secolo e mezzo, se la popolazione che abita la penisola godesse di ambiti antropologici, culturali e linguistici uniformemente condivisi da una popolazione omogenea e coesa. Con l’oscillazione dei confini e il succedersi di regimi anche illiberali e a lungo irrispettosi dei diritti umani in genere e di quelli delle minoranze in particolare, ma soprattutto con i traumatici eventi che si sono estesi dal periodo bellico a un dopoguerra dilatato in termini temporali, si sono venute a produrre in Istria lacerazioni altrove inimmaginabili, sotto il profilo sociologico e sotto quello psicologico individuale, tali da rendere ulteriormente più problematica la rappresentazione storica e la narrazione della realtà umana di chi ha scelto di continuare a vivere su questo territorio, come pure di chi è stato al contrario indotto ad allontanarsene.

Tra le voci più rappresentative della prima di queste due categorie di istriani di lingua italiana, quella dei cosiddetti “rimasti”, un posto di assoluto rilievo spetta all’azione intellettuale di Nelida Milani, tanto di quella di ispirazione saggistica quanto, forse ancor più, di quella di carattere narrativo, modellata, non certo da oggi, sull’esigenza di dar conto con la testimonianza di un’esperienza e di una condizione esistenziale che difficilmente possono trovare adeguata rappresentazione mediante strumenti espressivi differenti da quello più scopertamente letterario. Comunque, di entrambe queste manifestazioni del duplice impegno della scrittrice di Pola è fatta la struttura del più recente libro da lei pubblicato alla fine del 2019 presso l’editore Ronzani, Di sole, di vento, di mare, volume curato da Mauro Sambi, che è anche autore di un breve saggio collocato nel luogo normalmente assegnato alla postfazione.

Il libro, benché fortemente unitario per quanto attiene al contenuto, si articola in tre parti, delle quali la prima assume quasi il carattere di una prefazione, innervata di appassionato lirismo a tratti autobiografico, mentre la terza, dal titolo Una rosa bianca, è il testo di un importante contributo dell’intellettuale istriana a un convegno dal titolo «Italiani dell’Adriatico Orientale: un progetto per il futuro», organizzato nell’ottobre 2018 a Trieste dal Circolo di cultura istro-veneta “Istria”. Nel mezzo, racchiusa tra questi due elementi di una prosa argomentativa di non comune efficacia, come una perla tra le due valve che la custodiscono, si colloca un romanzo breve, Pesca miracolosa. Ad esso il compito di riassumere, attraverso la voce narrante di un anziano esule che continua periodicamente a frequentare la Pola della sua infanzia, rinnovando annualmente la liturgia degli incontri con altri polesani espatriati. Con essi e con i pochi rimasti si scambiano notizie e memorie nel ristorante “da Milan”, prospiciente il vecchio Cimitero della Marina («Un posto bello e rasserenante […] Non c’è ombra di ironia, rasserenante sì il cimitero, ci ricorda la nostra finitezza, nulla di male per persone anziane come noi»).

La narrazione esibisce, fin dalle prime pagine, lo strazio di una comunità colpita dalla furia della guerra. La storia, difatti, prende avvio da un bombardamento della città – da tre mesi sotto amministrazione delle truppe naziste – e del suo porto, evento storicamente avvenuto il 9 gennaio del 1944, al quale il protagonista assiste da una barca in cui, assieme al padre pescatore, vede lo spettacolo terribile e grandioso delle bombe che colpiscono i loro obiettivi di pietra, ma anche lo specchio di mare da cui emergono, a migliaia, i pesci uccisi dalle esplosioni. Dall’immagine epica di quella che si traduce per i pescatori nella pesca miracolosa del titolo, emerge immediatamente la metafora di quel primo potente quadro, anticipazione implicita di quanto sarebbe stato l’immediato futuro della città e della comunità, prevalentemente di cultura italiana, che l’abitava. Ad iniziare dal fatto che il bombardamento preludeva a una “liberazione” che assunse poi, per i più, un valore quantomeno ambiguo, proprio come risultò poi illusoria la manna celeste di quell’eccidio di pesci che naturalmente portò a un drastico ridimensionamento dei prezzi di vendita del pescato. Il primo a intuire il valore profetico di quanto visto dalla barca è difatti la voce narrante: «Quella notte feci sogni tribolati. Avevo la togna in mano e volevo esplorare la profondità del mare per rivelarne i misteri. Vedevo in fondo a quell’acqua un luccichio nero di aculei: colonie di ricci che divaricavano lenti le spine su cadaveri di pesci con gli occhi sbarrati. Ma eravamo noi quei pesci, erano i miei vicini di casa, erano Vili, Dario e Pino, la signora Giulia e il signor Vittorio, la mia maestra Balde, il maestro di religione. Tutti morti. Muti come pesci in barile, tutti stretti nella caducità della comune mortale natura. A tutti toccava quella sorte, tutti uguali nell’uguale posizione […]» (p. 65).

Una scena dell’esodo giuliano dalmata

Come nel racconto del conte Ugolino nell’Inferno dantesco, è un sogno premonitore che preannuncia il dramma che di lì a poco avrebbe colpito la città intera, ma, come opportunamente dettato dall’elencazione di nomi propri, si tratta di una città che prende concretezza nelle vicende individuali di ciascuno dei suoi abitanti, tanto di quelli che l’abbandonarono, quanto di quelli che caparbiamente rimasero, a fronteggiare come potevano lo straniamento derivante dalle assenze di vicini ed amici che, a ondate successive, abbandonavano ad estranei, a foresti, le loro case, le botteghe, i loro averi, persino i loro morti nei cimiteri.

La rievocazione del protagonista di Pesca miracolosa, si presenta frammentaria e divisa tra memorie personali, familiari e collettive, opportunamente evocate senza continuità apparente: «Solo ricordi slegati e sbiaditi, immagini in movimento, sono come degli autoscatti, magari sfocati […] mi accorgo che faccio salti di dieci, di venti anni, vado zigzagando, e poi mi fermo troppo tempo su un dettaglio, è l’intermittenza della memoria, la sua relatività che allunga o accorcia a piacimento, ma anche la sua selettività, che lascia uscire dall’archivio quello che nella vita ha lasciato qualche segno» (p. 158).

Si tratta di una tecnica narrativa di consumata perizia, che consente alla scrittrice di dipingere un affresco di straordinaria coralità e profondità emotiva, senza mai distrarsi dall’obiettivo di raccontare con nitida precisione una stagione durissima di straniamento di un’intera comunità, costretta in una morsa di soprusi e intimidazioni, percossa da un capovolgimento delle abitudini di vita e dalla negazione della propria cultura, impoverita persino della lingua, strumento indispensabile per comunicare e per definire un’identità. Una società intera disgregata, in conflitto latente con il potere totalitario e sprezzante che su di essa si abbatte trascurando ogni rispetto non solo delle persone, ma pure del paesaggio, della storia, della proprietà, della memoria collettiva.

Nel testo, di tono saggistico, che chiude il volume, la Milani si occupa del tempo che si preannuncia per questa sua comunità divisa e problematica, rivolgendosi a quanti se ne sono andati, ai loro figli e nipoti, «Guardando al passato senza l’idea che vada per intero rinnegato e facendo i conti con un presente da analizzare e un futuro da decifrare e pensando finalmente voi come parte di noi, l’altera pars mea, per approdare a forme di collaborazione che superino l’atto occasionale di buona educazione» (p. 175).

Sconsolato e lucido lo sguardo sul presente delle comunità italiane dell’Istria croata, teoricamente sopravvissuta ai processi di assimilazione più o meno forzata, o all’autoassimilazione «conseguenza di una condizione subordinata (socialmente, psicologicamente, giuridicamente, ecc.) nella quale il giovane viene a trovarsi in un rapporto di sudditanza» (p. 179). Perché «Non si nasce italiani. Specialmente quando non si nasce in Italia. Quando la cosa non è automatica. Quando non ci sono referenti fissi di italianità in cui rispecchiarsi e riconoscersi (come è stato per le prime generazioni) o sono troppo deboli rispetto a quelli forti che ci circondano, premono, insidiano assediano, quando la lingua italiana e il dialetto veneto spariscono dalla circolazione perché non trovano più i propri portavoce. Italiani si diventa. Sempre consapevoli del nostro essere-con-l’altro-in-noi, noi ci produciamo individui, non nasciamo individui. Prenderne coscienza non è un compito facile. È il processo del divenire. Bisogna diventare noi stessi» (p. 183).

È compiuta in questo passo e nelle pagine che lo circondano la transizione del libro dalla narrazione al magistero. Un alto magistero, il distillato di una riflessione che indica nella cultura, nella lingua, nella letteratura il motore di una possibile identità ritrovata, un’esortazione appassionata e lucida a quanti sono rimasti, ai loro eredi, a quanti se ne sono dovuti andare perché si ricompongano con lo strumento dell’intelligenza e della conoscenza i frammenti di un’unitarietà violentata dalla storia.

A noi, italiani nati e vissuti al di qua del confine nazionale, il libro di Nelida Milani implicitamente assegna il compito di conoscere e rendere testimonianza dell’esistenza e della resistenza di questa frammentata humanitas che ancora ha qualcosa da dirci e da insegnarci, dopo che è stata chiamata a pagare per tutti noi, da sola, un prezzo esorbitante.

Walter Chiereghin

IL LIBRO:

Nelida Milani
Di sole, di vento, di mare
Ronzani, 2019
Scheda del libro e presentazione dell’editore:
https://ronzanieditore.it/acquista/disole-di-vento-e-di-mare/

L’AUTRICE:

Nelida Milani

Nelida Milani (1939) è nata e vive a Pola (Istria), dove ha insegnato Linguistica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Per un decennio (1989-1999) è stata redattore responsabile della rivista trimestrale di cultura «La Battana» (EDIT, Fiume). È autrice dei volumi di racconti Una valigia di cartone (Sellerio, 1991; Premio Mondello 1992), L’ovo slosso / Trulo jaje (coedizione bilingue EDIT – Durieux, 1996), Impercettibili passaggi / Nezamjetne prolaznosti nella collana L’Istria attraverso i secoli / Istra kroz stoljeća (2006), Crinale estremo (EDIT, 2007), Racconti di guerra (Il Ramo d’Oro, 2008), La bacchetta del direttore (Oltre, 2013), Lo Spiraglio (Besa, 2017).
Nel 1998 esce il pluripremiato Bora (Frassinelli; ripubblicato da Marsilio nel 2018) di cui è coautrice con Anna Maria Mori, giornalista di «Repubblica». Nel 2004 è stata nominata commendatore con stella della solidarietà dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi.

Fonte: Questo articolo di Walter Chiereghin  è già stato pubblicato dal trimestrale di cultura e poesia « La Battana » n° 218 della Casa editrice Edit di Fiume-Rijeka, in Croazia.

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Walter Chiereghin
Walter Chiereghin, giornalista pubblicista, nato a Trieste nel 1952. Ha realizzato con Claudio H. Martelli il “Dizionario degli autori di Trieste, dell’Isontino, dell’Istria e della Dalmazia” (Hammerle, 2014). Ha collaborato con i mensili “Konrad” e con “Trieste ArteCultura”, che ha diretto dal 2011 al 2015, anno in cui ha fondato la rivista web “Il Ponte rosso” che da allora dirige.

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