In questo articolo vorrei riflettere con voi sulla politica italiana contemporanea, senza entrare nei dettagli delle bagarres di partito, senza prendere parte al dibattito su vinti e vincitori, ma solamente esponendovi il mio parere sulla nostra responsabilità nell’aver lasciato sprofondare la società italiana, e la sua politica, in una pericolosa monotonia.
Come voi in queste settimane mi sono domandata quale governo, o animale mostruoso per meglio dire, sarebbe nato dalle elezioni politiche di domenica 4 marzo 2018. La risposta è nessuno e, in verità, potevamo già capirlo il lunedì, semplicemente andando a dare un’occhiata ai programmi del Movimento Cinque Stelle e della Lega, notando, perciò, la divergenza degli obbiettivi.
Ancora una volta, non ci siamo fidati del nostro intuito scendendo in piazza e ribellandoci di fronte all’ennesimo fallimento della legge elettorale, no; ci siamo lasciati intrattenere da opinionisti, critici e politicanti sul web di vario tipo facendoci riempire la testa di parole ed elucubrazioni raramente convincenti. Insomma, ci siamo ricascati. Poco importa di chi è la colpa degli avvenimenti in questi giorni, quello su cui dovremmo riflettere è invece ciò che abbiamo permesso che diventasse la politica italiana: un insieme di discorsi da bar, nati fra una distratta mano di carte, un caffè ristretto ed una blasfemia pronunciata a mezza bocca.
Con quella che è stata definita la fine della «prima Repubblica», coincidente con Tangentopoli e con l’ascesa di Berlusconi, sono finiti anche quei politici che, seppur con i loro peccati, si rivolgevano agli elettori da esperti del settore e con rispetto aggiungerei, magari mentendo, ma mai con la superficiale confidenza offertaci da un conoscente o dal vicino di casa. E a chi sta pensando che alla fine non se ne sono mai andati rispondo che anche questo è vero, si sono semplicemente adeguati alle nuove regole della comunicazione politica per tenersi stretta la poltrona. Adesso sono sicura che mi starete dando ragione perché è questo a cui ci hanno abituati: un discorso chiaro e generico, in poche parole populista.
A noi italiani non piace la complessità o la riflessione, preferiamo chi ci schiaffeggia sulla pubblica piazza e chi ci assicura un piatto di pasta oggi, perché domani è un altro giorno, si vedrà. Ci piace illuderci, e se Leopardi fosse vivo ne sarebbe pure felice, rimpiangendo, però, di aver confuso il masochismo dei suoi compatrioti con un apparente cinismo.
Non sono stati sufficienti quasi venti anni di Berlusconi, non ci è bastato diventare lo zimbello della politica internazionale, no, abbiamo permesso l’entrata in scena di prostitute, abbiamo riso della parlata fiorentina di Renzi, ci siamo fatti urlare contro –peggio che alle bestie– da Peppe Grillo nelle piazze, abbiamo legittimato l’ascesa di persone senza alcun sapere accademico, però abbiamo cacciato via Monti, un tecnico che, a modo suo (criticabile o meno), aveva, sulla carta, le competenze per ricucire le casse dello Stato. Non c’è niente da fare, a noi italiani piace farci prendere in giro e ci piace lamentarci perché, in fondo, la colpa sta sempre da un’altra parte.
Quante volte ho sentito ripetere: «meglio i politici di adesso che almeno parlano come mangiano […] lo vedi? Sono come noi». La chiarezza del messaggio e la somiglianza con la nostra immagine riflessa, questi due elementi sono bastati per dargli fiducia, consegnandogli le chiavi della nostra cassetta di sicurezza. Siamo davvero diventati così presuntuosi dall’immaginarci capaci di governare un Paese? Siamo veramente convinti di essere tutti parimente acculturati e che le classi sociali sono storia passata?
«Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», Tomasi di Lampedusa l’aveva vista lunga su noi italiani e quindi sulla nostra politica. Non sono stata sincera con voi quando ho detto che nelle ultime settimane ne ho seguito le vicende, in verità me ne sono andata per venti giorni in un posto lontano che mi ha impedito l’accesso a qualsiasi notizia che passasse da Google e sapete quale cambiamento ho osservato al mio ritorno? Nessuno, perché nella politica italiana non cambia mai niente; ciononostante siamo il Paese che ne parla di più con tribune politiche che iniziano la mattina presto e terminano la sera tardi. Parole parole parole, parole d’amore cantava Mina ed anche lei, senza saperlo, ci aveva descritti tali come siamo: degli innamorati cronici che vivono nella perenne ricerca di quel breve momento di forte emozione che ci convinca che stavolta è diverso e che poi, dopo qualche tempo, ci permetta di ritornare quietamente alla nostra quotidianità. Ci illudiamo di vivere quando invece ciò che facciamo non è altro che sopravvivere, rincuorati dall’atto eroico di aver messo, un giorno di più, le toppe ad un sistema che fa acqua da tutti i buchi.
«Non si può non interessarsi vivamente a questo popolo, che respira con avidità quel po’ d’aria che l’immaginazione fa penetrare attraverso i limiti, che lo rinserrano», ecco cosa diceva la Corinna di Madame De Stael. Sono perfettamente d’accordo, noi italiani siamo encomiabili: solidali verso il prossimo, lavoratori infaticabili, arrendevoli e comprensivi fino all’idiozia.
Ovviamente non ho una soluzione da proporre alla crisi che sta vivendo la politica, ma vorrei che il lettore, ormai adirato per le mie parole, si rendesse conto che la crisi è sociale, che siamo responsabili della nostra profonda ignoranza, e che altro non siamo che dei burattini in mano ad altri burattini, semplicemente più furbi di noi. Forse abbiamo perso un po’ di umiltà o forse siamo caduti talmente in basso dall’aver scambiato la nostra dignità, e quel poco di serenità concessaci, con un piatto di pasta che sappiamo benissimo non mancherà mai sulle nostre tavole.
Giulia Del Grande