Milano non è più in Italia

Passando da Milano, recentemente, mi sono sentito come all’estero. Non so se è rimasto qualcosa (forse in certi angoli segreti, miracolosamente preservati) della città a cui ero legato; quella con i quadri grigi, le luci gialle, i tuoi cortei della canzone di Alberto Fortis. La città piena di fantasmi di Buzzati. Quella di Gaber e Jannacci, di Nanni Svampa che canta Brassens in milanese. Quella popolare delle case di ringhiera, dei vecchi quartieri.

Non sono più nemmeno sicuro che Milano sia ancora in Italia. Di sicuro è alla moda: c’è la Fashion week. Buongustaia: la Food City. Professionale: c’è il workshop, si fa una call, il meeting o (nei casi sfortunati) il brainstorming. Ovviamente, dopo il lockdown, si è presa l’abitudine allo smart working (da casa, per misteriosi motivi, anche uno scemo lavora in modo intelligente, smart. Cosa di cui gli anglosassoni non sono al corrente, visto che chiamano il lavoro da casa teleworking, remote working, home working. Gnurant, si sarebbe detto una volta. In milanese). Si lavora in team e (importantissimo) si fa il briefing per avere il feedback di tutti. A volte, per rispettare lo schedule, bisogna finire il lavoro ASAP (acronimo, particolarmente odioso, di as soon as possible: prima possibile). Attenzione ai vostri skill: in particolare quelli soft. Sono loro a permettere ogni step verso la best practice.

Ma non c’è solo il lavoro; dopo lo smart working, si esce per un drink al Wine bar. Per chi non ha tempo di cucinare, c’è sempre un take away. Per informarsi si ascoltano le news; attenzione però a quelle fake. Milano forse non è più in Italia, si è staccata dalla penisola e viaggia verso l’iperuranio. (Anzi, cosa dico? Verso il cloud). Però è ecologica: c’è il Bike sharing. Si tiene in forma: tutti fanno footing e vanno nei centri di fitness. È sportiva: i siti di Milan e Inter permettono di acquistare il (costosissimo) ticket. (Non quello che già si paga per le prestazioni sanitarie). Per i più ricchi, la VIP Hospitality, con food and beverage. (Se siete a dieta, tranquilli: c’è la versione light). Se nel week-end prendete una casa in affitto in riviera, occhio a non arrivare in ritardo: l’agenzia vi farebbe pagare il late check-in. Milano non parla più italiano (lingua, evidentemente, sorpassata) ma resta elegante: un vecchio negozio di abbigliamento si è ribattezzato Free style. Per la gioia dei vecchi clienti che ne sentivano il bisogno.

Milano è seduttiva: la bella passante sarà in coppia o single? Nel dubbio, per darvi una sistemata ai capelli, andate dall’hairstylist. Milano poi è piena di influencer. Che guadagnano milioni con un selfie. E attenzione, se qualche negoziante rifiuta la carta, ad avere sempre con voi un po’ di cash.  Allontanandomi dal centro più frenetico (e più freneticamente anglofono) vedo una strada buia e silenziosa, un negozietto scassato. Hai visto mai che qui (certamente per intollerabile arretratezza) usino ancora l’italiano? Illusione: delivery. Vuoi mettere con consegne?

È vero che le lingue si sono sempre influenzate tra loro e arricchite con prestiti lessicali. Ma l’arrendevolezza italiana più recente (che Milano rappresenta in modo ostentato e caricaturale, ma che riguarda tutto il paese, da Trieste in giù avrebbe detto Raffaella Carrà) è clamorosa. Basta pensare a come la Francia, a differenza dell’Italia, protegge e promuove la sua lingua. Mentre in Italia persino i governi (Dio solo sa perché) vanno  a colpi di Job’s act, Family act, si accaniscono a fare la spending review, ovviamente per tenere a bada lo spread. Questa arrendevolezza compiaciuta provoca una progressiva debolezza lessicale (quanti tra i giovani sanno che per take away esiste l’equivalente da asporto? Provate a chiedere) e l’adesione a una lingua vuota, conformistica, stereotipata, omologata, di seconda o terza mano, priva di sfumature e coloriture.

Secondo uno studio dei dizionari Devoto-Oli e Zingarelli, gli anglicismi rappresentano quasi la metà dei neologismi nati nel XXI secolo: in altri termini il vocabolario “italiano” di formazione più recente è, per metà, inglese. L’utilizzo smodato (spesso scorretto) dell’inglese, anzi di questo inglesorum (geniale conio linguistico di Gian Antonio Stella), sancisce una compiaciuta inferiorità. Una subalternità culturale da sottomessa provincia dell’impero che implora di essere riconosciuta come tale.

So che qualcuno considera la difesa della lingua italiana una battaglia con una coloritura politica di destra nazionalista; ma penso che questa sia una emerita (come si dirà in inglese?) sciocchezza. La lingua e la cultura italiana dovrebbero essere care a chiunque non apprezzi acriticamente l’omologazione (consumistica e arrivista) di cui l’inglesorum commerciale e tecnocratico è un evidente veicolo di egemonia culturale. Leopardi scrive che, quando si amò Roma tanto quanto il mondo, non si amò più Roma né il mondo. Credo voglia dire che, se non si ri-conosce (il cacciariano trattino è voluto: non ci si conosce mai una volta per tutte) la propria identità e appartenenza, diventa impossibile aprirsi davvero agli altri. Fernando Pessoa diceva : la mia patria è la mia lingua.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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