“Marchionne lo straniero”. È il nuovo libro di Paolo Bricco, presentato all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, dedicato al grande manager che fu amministratore delegato della FIAT e che lascia un’eredità corposa di idee e visioni sul futuro dell’industria e della finanza. Resta un modello di riferimento per il futuro delle nostre imprese.
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“Marchionne lo straniero” è il titolo del libro del giornalista de “Il Sole 24 Ore” Paolo Bricco, pubblicato in agosto da Rizzoli. “Straniero” come figlio d’immigrati italiani in Canada, chiamato dalla Società SGS di Ginevra nel Consiglio d’Amministrazione del “Gruppo FIAT” a Torino nel 2003 quando Umberto Agnelli presiedeva questo sopravvivendo al fratello solo per un anno? Oppure “straniero” quando a Detroit nel 2009, come Amministratore Delegato (dal 2004) del “Gruppo FIAT”, faceva comprare a questo (inizialmente per il 20%) la “Chrysler”? “Straniero”, comunque, al settore automobilistico fino al 2003 poiché aveva, fino ad allora, lavorato in Nord America e Svizzera nelle prestigiose Società internazionali di consulenza finanziaria, amministrativa, legale e fiscale come “Deloitte”, i Gruppi “Lawson Mardon” e nel settore chimico-biotecnologico di “Lonza Group”, e poiché si era precedentemente formato nelle Università dell’Ontario in studi filosofici e giuridici.
Nel 2003 l’atmosfera a Torino sembrava sonnecchiare dopo la scomparsa di Gianni Agnelli e nell’imminenza della scomparsa di Umberto, e la situazione critica della FIAT deprimeva la città non meno di quella delle case automobilistiche a Detroit. Nel 2004, alla scomparsa di Umberto, l’Amministratore Delegato Giuseppe Morchio ne aveva vegliato la salma nella camera ardente pensando di succedergli come Presidente, finché il finanziere Gianluigi Gabetti e l’Avvocato Franzo Grande Stevens –i più vicini alla famiglia- riuscivano a far nominare invece Presidente Montezemolo (appena nominato Presidente della Confindustria) e Amministratore Delegato Marchionne.
Il quale nel 2006 s’era trovato davanti all’alternativa d’esercitare il “put” di vendita dell’80% della “FIAT Auto” alla “General Motors” dopo che il precedente Presidente Paolo Fresco nel 2000 le aveva venduto il 20% (in cambio del 5,5% di questa alla FIAT, e al fine d’un’estensione della FIAT nei processi tecnologici americani in cambio d’un’estensione commerciale della “General Motors” in Europa), oppure di contrattarne lo svincolo con la “General Motors”. La quale, non solo perché non aveva più la convenienza a rilevare la FIAT in condizioni peggiorate ma anche perché si trovava ugualmente in crisi (pure di fronte alla concorrenza giapponese), aveva allora pagato 2 miliardi di dollari (1,55 miliardi di euro di allora) per la cancellazione del “put”. Un po’ d’ossigeno anche per la restituzione alle banche dei debiti precedentemente contratti dal Gruppo per le acquisizioni delle quote della Telecom, della Montedison e delle altre società quando erano state privatizzate, evitando così la conversione di questi debiti in azioni che avrebbero incrementato l’ingerenza delle banche nella FIAT.
Ed evitando pure l’ingerenza dello Stato con Berlusconi Presidente del Consiglio (di nuovo dal 2001 al 2006) nelle ipotesi di salvataggio. Il quale nel 2002 aveva dichiarato: «Se io fossi libero e non avessi questa responsabilità di governo mi offrirei di prendere in mano la Fiat. Saprei io come fare. Avendo marchi come Alfa Romeo e Ferrari, cancelliamo il nome Fiat. Cambiamo con un restyling superficiale tutti i modelli della Fiat. Li facciamo uscire dagli uffici della Ferrari e li lanciamo nel mondo con un nome prestigioso come quello Ferrari: Super Ferrari, Ferrari Woman, Young Ferrari. Una volta prodotte queste Fiat-Ferrari andiamo a venderne 50.000-100.000 in Paesi che stanno chiedendo alla Fiat dei nuovi stabilimenti»! Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom-Cgil dal 2002 al 2010, ha poi dichiarato: «il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, appariva molto convinto della necessità d’un intervento dello Stato. Nel suo studio del ministero ne parlammo in diverse occasioni. Come sindacato non potevamo che essere favorevoli a un ingresso della mano pubblica in una FIAT che, prima dell’arrivo di Marchionne, si presentava disastrata nei conti, priva di una strategia, segnata da un’impressionante girandola di amministratori delegati e fragile nell’assetto azionario, visti anche i lutti che colpivano gli anziani Agnelli e vista l’assenza di più giovani Agnelli». A Rinaldini Marchionne nel 2004, dopo il blocco della fabbrica di Melfi, aveva detto: “con chiarezza che il problema non era la dismissione di questo o quell’impianto, da Termini Imerese a Melfi, ma la chiusura di tutta la FIAT”. E la sua impressione a Chiamparino, Sindaco di Torino, era stata secondo questi “molto buona. Nelle cene in foresteria al Lingotto e negli incontri formali si dimostrava molto alla mano. E dava il senso d’essere del tutto libero dai vincoli e condizionamenti dei precedenti capo azienda”. A Mirafiori aveva rimesso “all’onore del mondo la decenza e la pulizia di quelle fabbriche” che “in quel frangente contò molto”. O comunque tanto da contribuire simbolicamente al ricupero dell’ottimismo che la città riacquistava sempre più con l’arrivo delle Olimpiadi invernali nel 2006.
Straniero o no ma uomo di conti, Marchionne non poteva che applicare un controllo di gestione improntato sul taglio e poi sull’ottimizzazione dei costi alla base degli investimenti successivi, il che gli faceva dichiarare nel 2006 che “il costo del lavoro non è una variabile determinante”, affascinando così perfino la sinistra più rigida, o quanto ne rimaneva, tra cui Bertinotti Presidente della Camera: “mi piace questo Marchionne, che non ha accettato l’equazione fra buona impresa e licenziamenti”, “dobbiamo puntare ai borghesi buoni, quegli imprenditori disposti a darci fiducia per realizzare la modernizzazione democratica”.
La ristrutturazione del Gruppo FIAT proseguiva allora (con risultati economici positivi dal 2005, la stabilizzazione dei debiti finanziari e il consolidamento del patrimonio netto) mentre la globalizzazione imponeva a tutto il settore una revisione dei criteri concorrenziali: sia nella produzione, poiché le subforniture dei Paesi terzi favorivano i costi delle imprese concorrenti; sia perché la produzione dei concorrenti in questi Paesi era non solo meno costosa ma anche destinata a una domanda sempre più crescente nei loro stessi mercati geografici; sia perché la penetrazione in questi ultimi da parte dei produttori americani, europei e giapponesi non poteva non avvenire a prezzi ulteriormente concorrenziali e con prodotti ancora più sofisticati. Il che significava alleanze per il know how e gli investimenti successivi, tanto più necessarie laddove i mercati erano saturi dei vecchi prodotti fin lì offerti, che dunque avevano messo in crisi i produttori.
La descrizione di Bricco di Detroit con l’industria automobilistica e tutto l’indotto ridotto a terra (neanche l’insalatina e il caffè di Fred Bongusto sembravano più digeribili) è tanto macabra quanto giustificava di conseguenza nel 2009 il suo salvataggio da parte d’Obama, con i fondi distribuiti alla “General Motors” in quantità tale da ritrovare la sua centralità nel settore, alla “Chrysler” in quantità tale da risorgere unendosi alla FIAT e alla “Ford” in quantità tale da recuperare la propria autonomia. Marchionne aumentava poi progressivamente la partecipazione della FIAT dal 20% iniziale al 58% nel 2011 nella “Chrysler”, la quale poteva così sdebitarsi anche con gli altri azionisti e con gli Stati (USA e Canada). Nel 2014 la FIAT otteneva infine il rimanente 42% dal fondo previdenziale Veba del sindacato automobilistico Uaw (“United Auto Workers”) e la fusione in “FCA” (“Fiat Chrysler Automobiles”) -oggi controllata dalla “Exor”- era completata con la quotazione di questa alle Borse di New York e Milano. Tra i vantaggi operativi maggiori c’erano da parte della FIAT alla “Chrysler” le tecnologie sui motori a basso consumo e viceversa la maggiore commercializzazione dei prodotti negli altri continenti.
Marchionne, mentre negli USA aveva come controparte diretta lo “Uaw” (con i suoi interventi più “manageriali” nei criteri di produzione essendo coazionista di Società tramite i suoi fondi previdenziali), in Italia, oltre ai sindacati, aveva di fronte governi che cambiavano continuamente. Cortese con tutti, non era comunque entusiasmato né dalla destra di Berlusconi né dagli eterni litigi intestini della sinistra con il rischio del suo suicidio. In questi vedeva positivamente solo la parte di Renzi “determinato e coraggioso nel voler demolire le forze di resistenza al cambiamento e alle riforme”, missione “molto più importante del rumore e della polvere sollevate dagli oppositori”. “Ci accomuna il coraggio. Io ho assorbito molte critiche in Italia e me ne sono fregato. Renzi deve fare lo stesso”. Tra le critiche in queste dichiarazioni del 2014, quella sul trasferimento della sede legale ad Amsterdam e del domicilio fiscale a Londra della “Exor”, in seguito alle quali Renzi aveva ribadito: l’”importante è mantenere il Made in Italy. Non è importante se a Wall Street o ad Amsterdam. Quello che è assolutamente importante è l’aumento dei posti di lavoro in Italia”. “La globalizzazione è la maggiore opportunità che ha l’Italia”. Anche eventualmente fondendo la “FCA” con “General Motors”, come Marchionne aveva vagheggiato nel 2015, approfittando delle pressioni dei fondi nell’azionariato frammentato di questa per un maggior controllo e arrendendosi infine all’opposizione dell’amministratrice delegata Mary Barra.
Comunque, come ha scritto il 28 luglio Nicola Guarino su “Altritaliani”, la rottura di tutti i preconcetti esistenti fino all’arrivo dello straniero a Torino s’era manifestata non solo nelle trattative sindacali, con contenuti concreti e non più di principio, tali da “salvare il diritto al lavoro”, ma anche con l’uscita della FIAT nel 2012 dalla Confindustria per le riserve sull’applicazione degli accordi interconfederali (sempre nel sito sono bene evidenziati da Guarino i cambiamenti dei contesti politici, economici e sindacali di allora).
Salvati dunque questo diritto di FIAT e “Chrysler” con la loro fusione, Marchionne iniziava a preoccuparsi della riduzione del debito, di fronte tuttavia alla necessità dei nuovi investimenti per la ricerca e lo sviluppo delle tecnologie d’alimentazione alternative (elettrico, ibrido e idrogeno) e di quelle di guida computerizzata. Sulle prime premono, oltre alla convenienza economica e ai concorrenti (in particolare quelli facenti capo agli asiatici), le norme sempre più rigide sulle emissioni (a memoria del dieselgate del 2015); e sulle seconde l’integrazione sempre maggiore tra l’auto e i servizi.
La quantità d’auto elettriche prodotte da FIAT e ibride da “Chrysler” rimaneva comunque marginale fino al 2018, quando Marchionne -nonostante i dubbi di convenienza anche di fronte agli abbassamenti dei prezzi di benzina e diesel-, poneva lo sviluppo di questo settore nel piano industriale 2018-2022. Che non avrebbe realizzato personalmente, a causa dell’intenzione di dimettersi nel 2019.
Il 25 luglio concludeva a Zurigo la sua vita, e solo 4 giorni prima il Presidente John Elkann e il Consiglio d’Amministrazione, resisi conto della gravità del suo stato di salute, nominavano Michael Manley suo successore.
Ma Marchionne in definitiva non era uno straniero: al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini nell’agosto del 2014, dopo la pubblicazione dell’Economist con in copertina Renzi con un gelato insieme a Hollande, Merkel e Draghi su una barchetta raffigurante una banconota da 20 euro, aveva urlato: “Non sopporto più di vedere gente con il gelato, barchette e cavolate. Da italiano non lo voglio più sentire. Voglio essere orgoglioso di essere italiano. Voglio poter dire che siamo veramente bravi come gli altri, perché lo siamo”; e nel 2015 e 2016, in occasione dello scorporamento della “Ferrari” dalla “FCA” direttamente alla “Exor” e della sua introduzione alle borse di New York e Milano quest’orgoglio era stato pari a quello di Renzi quando questi aveva dichiarato: “Questa quotazione è un messaggio bellissimo per il Paese e una straordinaria occasione per gli investitori. L’Italia c’è e non deve avere paura del mondo … cominciamo a correre più forte degli altri”.
E Marchionne era pronto a correre anche come Presidente della Ferrari dal 2019. Valgono allora anche per lui le considerazioni di Enzo Biagi su Enzo “Ferrari” (Rizzoli, 2001), ossia sono stati ambedue “avventurosi, forti, prepotenti, drammatici”, portatori “fino all’epilogo” di “visioni di conquiste e struggenti passioni”? E’ quanto tende a pensare Bricco nel libro presentato il 4 ottobre all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi dal Direttore Fabio Gambaro, con gli interventi dell’autore, dell’economista Andrea Goldstein e del Professore di Storia Economica Dominique Barjot.
Lodovico Luciolli
Sergio Marchionne l’a dirigée de 2003 jusqu’à sa mort en juillet dernier, en interprétant son rôle de patron d’une façon révolutionnaire. Il a sauvé l’entreprise turinoise de la faillite, racheté Chrysler, créé un groupe réellement global et transféré le centre opérationnel de l’Italie aux Pays-Bas. Sa gestion a été aussi marquée par un éloignement progressif de FIAT de la vie publique italienne dans une période qui a vu le capitalisme transalpin s’interroger sur sa place dans la mondialisation. La spectaculaire transformation de Fiat est-elle une exception ou peut-elle être lue comme le symbole de l’évolution de l’industrie italienne ? Pour répondre à cette question, discuter de l’héritage de Marchionne et des défis à venir pour FIAT et l’Italie, nous avons invité Paolo Bricco, journaliste au Sole 24 Ore et auteur de Marchionne lo straniero (Rizzoli, 2018), Andrea Goldstein, économiste à l’OCDE, et Dominique Barjot, professeur d’histoire économique à l’Université Paris-Sorbonne.
En collaboration avec Bocconi Alumni Association Paris.