Marchionne, che ci ha lasciati lo scorso 25 Luglio, non è stato solo uno dei nostri migliori manager a cavallo dei due millenni, avendo salvato non solo la Fiat, che era ormai alla bancarotta, ma anche la Chrysler di Detroit. È stato anche uno spartiacque nel passaggio tra quello che oggi potremmo definire il vecchio e il nuovo mondo.
È stato il primo vero manager dell’era della globalizzazione, certamente il più emblematico, probabilmente il migliore. Ecclettico con le sue tre lauree di cui una in filosofia, amerà ricordare che questa gli fu molto importante per il suo lavoro. Un passato nell’Arma dei Carabinieri, fino a 50 anni e poi il cambio (perché è bene saperlo, come lui sosteneva, si è sempre in tempo per cambiare) prendendo prima una controllata Fiat e poi compiendo la scalata proprio al gruppo della famiglia Agnelli.

Va ritenuto uno spartiacque, perché per la sua formazione (il lavoro innanzi tutto, diligenza ma senso di umanità, come nei suoi rapporti diretti con gli operai, pochi divertimenti e molto impegno verso il riconoscimento del merito) ma anche per i suoi ritmi, andare al letto alle nove di sera, svegliarsi alle tre e mezza di notte per riprendere il lavoro e finanche per il suo look informale, suscitò reazioni diverse nel mondo politico e culturale. Intanto non fu inviso ad una certa sinistra, quella che guardava con favore proprio alle opportunità della globalizzazione, che finalmente sanciva il valore del merito e non solo dell’eguaglianza, che andava liberandosi da una certa visione moralistica della società e che guardava a lui come a un leader che ridava dignità ad un paese da troppo tempo educato al piangersi addosso. Fu per un certo tempo finanche gradito a sindacalisti come Landini della FIOM, anche lui, per una stagione troppo breve, sembrò essere un rinnovatore del mondo sindacale, che da troppi anni è sclerotizzato ed in attesa di un suo profondo cambiamento.
Piaceva ai giovani imprenditori, diventando quasi un mito per chi sognava di archiviare l’anacronistica contrapposizione tra “padroni” e “lavoratori”, comprendendo che nell’era del libero mercato e del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) quella visione da lotta di classe era nettamente superata, ma al contempo non era gradito alla granitica associazione della Confindustria, tanto che ad un certo punto, Marchionne annuncerà, da amministratore delegato, che la Fiat usciva proprio da quella potente associazione di industriali.
Una scelta di rottura, un bisogno di slegarsi da certe consuetudini, da certi vincoli asfittici che toglievano respiro e libertà proprio alle imprese.
Se la fine del Novecento ha segnata proprio la fine di un’epoca, quella dei blocchi e delle ideologie prima di tutto, Marchionne non poteva essere che proprio l’uomo della faglia, colui che avrebbe indicato il dopo. Un esempio illuminante di quello che puo’ essere, se si ha visione e lungimiranza, il mondo nuovo, quello che non guarda ai confini, ai nazionalismi, ma guarda agli uomini e alle imprese, alle loro potenzialità e capacità a prescindere dai passaporti e dalle origini.
Cosi la Fiat non solo uscì con lui da una mediocrità durata decenni (ricordate la Duna), per avere con coraggio, la forza di reinventarsi fino all’azzardo di conquistare fabbriche oltre l’Atlantico. Se fu vano il tentativo verso la General Motors, fu un successo (certificato prima da Obama e poi oggi da Trump) l’ascesa alla Chrysler con l’invenzione di quel FCA che colloca oggi la nostra casa automobilistica al settimo posto nel mondo.
I cittadini ed operai di Detroit dovettero accettare condizioni dure, ma videro salvo il loro posto di lavoro e rinascere con la loro fabbrica anche la stessa città, che i reportage del tempo descrivevano ormai come un luogo fantasma. Egualmente in Italia, dove il referendum per il contratto di lavoro imposto ai sindacati segno per questi la seconda storica sconfitta dopo la celebre marcia dei quarantamila nell’ottobre del 1980.
Marchionne arrivò a questo anche perché si rese conto che i sindacati avevano ormai già da tempo una crisi di rappresentatività, una crisi che ancora non si è risolta, proprio per l’ostinazione delle sigle storiche a non capire il mutato quadro storico e le esigenze nuove della produzione e della società. Un tema che meriterebbe molte pagini di analisi, un’analisi che la sinistra non ha mai avuto la forza di fare fino in fondo e che costituisce uno dei motivi della progressiva perdita di consensi fra i lavoratori.
Ci sarebbe voluto un Marchionne anche nel campo avverso, ma tant’è. Cosi gli operai votarono sì a quel contratto, abiurando ad inutili ideologismi, ad anacronistici massimalismi, alleandosi ad un’impresa che voleva salvarsi e salvare anche il loro diritto al lavoro. Credo che quei lavoratori non si saranno mai pentiti di aver disubbidito alla FIOM e alla CGIL.
Nelle due sinistre che si sono formate dopo la rivoluzione antropologica incarnata da Renzi ma i cui primi passi risalgono almeno a Veltroni, il giudizio verso la figura di Marchionne è stato radicalmente diverso e questa diversità si è resa plastica nel confronto sui social, mentre il grande manager stava spirando nella clinica di Zurigo, rapidamente consumato da un male incurabile.

A leggere i social le due sinistre hanno, ancora una volta, palesato tutte le loro differenze. Da una parte la sinistra moderna e progressista che si è ritrovata nelle parole di elogio e di commozione per l’imminente perdita, profferite da Gentiloni o da Matteo Renzi che non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’AD della FCA, a cui hanno fatto eco i post di tanti attivisti specie democratici, ma anche radicali, che ne hanno tessuto gli elogi e ricordato i meriti. Dall’altro lato una sinistra estrema, nella migliore delle ipotesi prossima a LeU, che invece ha faticato a nascondere la propria soddisfazione per la fine di Marchionne e che, nel proprio legittimo massimalismo, non ha voluto riconoscere alcun merito al salvatore dell’industria automobilistica italiana soffermandosi, non senza qualche tentazione populista, su tragici episodi di qualche operaio cassaintegrato che è stato suicida, oppure sul fatto di scegliersi, per motivi fiscali, sedi legali all’estero. Una scelta che invece Marchionne difendeva proprio nel nome di quella globalizzazione e di quelle possibilità che un mondo aperto e libero offriva.
Oggi che corre un vento di restaurazione, dove prevale la paura delle delocalizzazioni delle industrie, senza pensare agli sviluppi che si potrebbero avere favorendo gli investimenti stranieri in Italia, quella lezione di Detroit diventa emblematica, un esempio che i futuri capitani di industria dovrebbero apprendere a memoria, anche per questo appaiono ora tardivi gli elogi, al grande italiano del mondo, di chi all’epoca non ebbe la forza di sostenere con energia quella filosofia d’impresa.
Non è un caso che proprio i populisti, i sovranisti come M5S e Lega sono apparse le forze più in imbarazzo nel commentare la triste notizia della scomparsa di Marchionne. Non si sono sentite parole nette, chiare di elogio e nemmeno critiche garbate o dure. I populisti hanno scelto il profilo basso, consapevoli del peso, già storico, del personaggio che pur tuttavia rappresenta l’esatto contrario del modello confuso che essi propongono.
L’abruzzese Marchionne, vissuto da sempre in Canada, con passaporto svizzero, era un italiano del mondo come oggi si considerano tanti nostri emigranti. Guardava con passione all’Europa, al mondo e all’Italia. Non mancava mai alle celebrazioni principali della nostra nazione, ma sarà ricordato, siamo certi con commozione, anche da tanti cittadini della lontana Detroit, nelle prossime iniziative che sono in programma per ricordarlo. Certamente fu una figura ostile alla paura, al sovranismo, all’idea di chiudersi nel proprio recinto come oggi, ma fino a quando? propongono Salvini e Di Maio, in un paese che sembra sempre più perdere i suoi santi, poeti e navigatori, arroccato in un cupo e livido rancore, immiserito nei suoi egoismi, incapace di dare luce alla ragione e lustro alla sua gloriosa storia e civiltà.
Nicola Guarino
Buon giorno, La ringraziamo della correzione. Infatti, Lei ha ragione!
Cordialmente
La redazione di Altritaliani
Nicola Guarino c’e’ un errore nel suo aritcolo, Marchionne non e’ mai stato nei carabinieri, bensi suo padre. Mi scusi ma bisognerebbe informarsi bene prima di scrivere articoli e pubblicarli.